La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 24 settembre 2016

Città, autogestione e potere popolare

di Communianet 
Non è possibile comprendere le esperienze municipaliste nate da più parti se non come risposta alla crisi del sistema politico e dei partiti tradizionali, e in generale della democrazia rappresentativa. Viviamo in un sistema politico in cui la democrazia si è ridotta a mero sistema procedurale, dove la designazione dei rappresentanti avviene sulla base di un mandato vuoto, e dove le decisioni di maggiore interesse avvengono spesso in luoghi oscuri.
Istituzioni come la Commissione Europea, ma del resto attualmente anche il Governo italiano, sono governati da non eletti, con una visione della democrazia che svuota il concetto stesso di politica riducendola a mera tecnica di governo priva di tensione ideale e della possibilità di prefigurare e immaginare alternative possibili allo stato di cose presenti. Un’idea di democrazia e di politica in cui il conflitto, invece di essere un elemento essenziale, viene epurato e represso.
L’ipotesi politica messa in campo dal municipalismo prova a rispondere a questa crisi individuando lo spazio municipale come quello in cui riappriopriarsi della decisionalità e reinventare il rapporto tra istituzioni e movimenti sociali.
Ciò che tali esperienze mettono in discussione efficacemente è la tradizionale “piramide” decisionale, con l’intento di partire dal basso, e non dall’alto. Nella visione delle “città ribelli” viene ribaltata l’idea di un potere di vertice che delega, di volta in volta, dei poteri “decentrati”. Al contrario si propongono le comunità di base, comunità di autogoverno, come embrioni di contropotere, di poder popular, che costruiscono una delega di carattere federativo, dunque sempre revocabile. Tematizzando in modo radicale tre domande fondamentali: chi decide, cosa si decide e come si decide.
L’idea di fondo è che a partire dalle città si possono definire processi politici in grado di praticare forme di partecipazione autentica, di autogoverno dei territori e di mutualismo in grado di costruire una reale alternativa. Andando oltre anche all’idea municipalista figlia del movimento altermondialista, ossia non relegando l’alternativa ad una semplice tecnica procedurale della partecipazione (strumentalizzata negli anni da molte amministrazioni) ma insistendo molto sull’autogestione conflittuale.
In questo quadro comune si relazionano anche interpretazioni diverse.
Larga parte delle teorizzazioni neomunicipaliste conferiscono alle metropoli un ruolo centrale nell’economia globale e nella gestione delle politiche di welfare, evidenziando il ruolo delle amministrazioni locali come meri garanti del profitto privato. Indubbiamente la crisi di sovrapproduzione esplosa nel 2007 ha innescato la ricerca di nuove risorse da cui estrarre nuovi margini di profitto, e ciò ha prodotto una maggior speculazione sui beni comuni e urbani. Ma sarebbe un errore sottovalutare la struttura complessiva del sistema di produzione capitalistico che ha basi nazionali, globali e locali. Così come tali sono le basi delle stesse politiche di welfare.
L’altra tendenza rischiosa è quella di pensare di poter aggirare per via municipale – attraverso la produzione di “Common urbani” ossia spazi e beni comuni sottratti al profitto – il nodo dello scontro politico con il potere statale e delle istituzioni sovranazionali. È una tendenza ambivalente, perché se da un lato produce effettive esperienze esemplari di autogestione conflittuale, dall’altro rischia di rinunciare allo scontro politico con molti dei luoghi decisionali sulle nostre vite. Di fronte alla debolezza e perdita di credibilità dei progetti politici complessivi, e alla frantumazione della composizione di classe con una oggettiva difficoltà di lotte unitarie o in grado di farsi riconoscere dalla pluralità di soggetti sociali, il rischio è quello di esaltare i contesti locali dove è più facile produrre un riconoscimento ma più difficile porre un problema generale.
Al contrario la sfida deve essere costruire queste esperienze esemplari proprio per ridare credibilità ad una prospettiva di trasformazione complessiva, iniziando con pratiche dirette la riunificazione dei soggetti sociali e prefigurando concretamente la società che vogliamo costruire. 
Lungi quindi dal valorizzare ideologicamente il ruolo delle città, l’opportunità dei percorsi urbani è quella di porsi il problema di come costruire una dimensione europea e internazionale a partire da esperienze concrete. Ponendosi sostanzialmente questa domanda: come possono i percorsi di “diritto alla città” divenire un elemento di riattivazione sociale e allo stesso tempo non rinunciare al problema del potere?
L’esperienza di “Diritto alla città” a Roma
A Roma, a partire dal pesante attacco da parte del Commissario Tronca agli spazi occupati e autogestiti, il Laboratorio per il Diritto alla Città ha attivato un percorso cittadino ampio. Abbiamo attraversato la campagna elettorale pur non essendo candidati con lo scopo di ribaltare il rapporto tra elettori e candidati; costruendo opposizione al Documento Unico di Programmazione (Dup) del commissario Tronca – contro il quale sono scese in piazza 20.000 persone lo scorso 19 marzo con la parola d’ordine Roma Non Si Vende –; costruendo agenda politica e programma; istituendo alleanze larghe che vedono coinvolti gli spazi sociali, i lavoratori dei servizi e delle municipalizzate, i comitati dei genitori degli asili nido, il tessuto associativo, i comitati territoriali contro la speculazione, il sindacalismo sociale. Il tentativo messo in campo è stato quello di costruire un’ipotesi politica differente, nella forma e nella sostanza, di governo della città, ancora in fase di sperimentazione, che ha bisogno di mettere gambe, sedimentarsi ed articolarsi. L’idea di base è che il diritto alla città è in primo luogo un diritto collettivo. Per raggiungere tale obiettivo, occorre lottare contro la gestione attuale delle città ed immaginare forme di autogestione che trasformino le città stesse, a partire dalla relazione tra i vari soggetti sociali che compongono il tessuto urbano, attraverso una articolazione di strutture territoriali permanenti di controllo e di riappropriazione di potere decisionale, in grado di costruire potere popolare e forme di autorganizzazione. Un modello che immagina un totale ribaltamento dei processi decisionali, della gestione patrimoniale e dei servizi in chiave mutualistica e solidale.
I nodi delle esperienze di governo municipalista in Spagna
Seppur spinte da una stessa motivazione, le esperienze italiane e spagnole differiscono in un elemento di fondo. La fase politica degli stati spagnoli ha seguito infatti una rotta del tutto differente. In Italia le esperienze in campo si pongono il problema di riattivare processi di movimento – cosa in Spagna accaduta intorno al movimento 15M e alle maree – e si pongono la questione di come e per far cosa lanciare una sfida istituzionale. In Spagna esperienze simili, come a Barcellona e a Madrid, sono invece al Governo delle città e le domande che si pongono sono necessariamente ad un altro livello. Per noi è interessante analizzare ciò che accade in Spagna percapire i problemi che si affrontano stando al governo delle città in assenza di un mutamento dei rapporti sociali e istituzionali.
Innazitutto l’irruzione dei “movimenti sociali” all’interno delle istituzioni tradizionali pone la necessità di capire che le istituzioni attuali non sono neutre, ma sono le forme della politica costruite dal sistema capitalistico e dalle odierne “democrazie”, di cui occorre analizzare opportunità e limiti oggettivi nella gestione amministrativa, quando ciò a cui aspiri è la soppressione del sistema che ti trovi a governare. Devi tener conto per esempio della mediazione politica con altre Istituzioni, con interessi contrapposti, e ancor più che il governo delle città incide solo su alcune materie mentre il centro del flusso dei capitali si sviluppa su un piano globale.
In secondo luogo diventa centrale l’analisi del rapporto tra potere e contropotere. Il rischio principale per Barcelona en comù è quello di chiudersi nel meccanismo istituzionale subendo un processo di relativa normalizzazione, potendo agire in un campo di azione limitato e rischiando di rimanere incastrato nella gestione ordinaria di piccole cose. Come si fa ad evitare di essere incastrati in una tale logica?
Per questo è fondamentale sviluppare una riflessione strategica sui meccanismi di burocratizzazione e su come sviluppare una cultura politica non istituzionale, prevedendo per esempio forme di controllo popolare. Ma l’elemento ancora più determinante è la pressione dei movimenti sociali per garantire che il governo municipale attui un cambiamento reale. I due elementi sono ovviamente correlati. Un clima di lotte sociali permette di gestire i pericoli di istituzionalizzazione, mentre un clima di passività ne favorisce le dinamiche. In assenza di movimenti sociali indipendenti attivi, l'inerzia istituzionale finisce per prevalere sulle politiche di rottura.
Ancora non è chiaro quale sia la strategia politica di Barcelona en comù per far fronte a tali rischi, ma è positivo che si ponga il problema della costruzione di reti europee e globali. Collegare le esperienze delle città ribelli, siano esse al potere oppure no, fa mergere la consapevolezza che molte delle sfide che abbiamo di fronte non sono solo locali ma nazionali e internazionali. Ci sono cose che non possono cambiare da una sola città. Si può aspirare ad un processo di cambiamento dal basso verso l’alto solo se ci si pone il problema della convergenza di diverse esperienze.
Le “città ribelli” e la rete europea
Quello di “Città ribelli” non deve diventare uno slogan vuoto. Parlare di città ribelli deve significare in primo luogo agire interessi di classe, aprire spazi e possibilità decisionali nuove coinvolgendo strati ampi di cittadinanza. Significa tematizzare questioni come l’uso delle risorse comuni, del patrimonio pubblico, avere un’idea di audit partecipato sui debiti comunali e di autogestione dei beni comuni. E per farlo occorre capire cosa significa andare oltre le forme organizzative tradizionali ma anche come rimettere in discussione le forme dei movimenti, sviluppando reali processi di autorganizzazione. E significa ripensare i rapporti con le istituzioni, ponendosi la questione del potere e interrogandoci anche sulla capacità dei movimenti di dettare l’agenda politica in una fase caratterizzata dal vuoto e dalla debolezza delle soggettività politiche. Bisogna insomma riempire di contenuti, di persone e forme di lotta la rete delle città ribelli, che altrimenti potrebbe essere ridotta ad un collegamento tra amministrazioni e movimenti politici esistenti.
In questo momento diverse opzioni si muovono in campo europeo come per esempio Diem25 o Plan B, ma il punto dirimente resta come si costruiscono questi processi. L’opzione della rete europea delle città ribelli è interessante perché propone che il processo avvenga dal basso verso l’alto e sta guadagnando sempre più consenso. La rete europea non può e non deve essere solo una critica al sistema esistente, ma un'alternativa. E questo può venire solo da esperienze esemplari realmente radicate sul piano sociale, che si coordinano e pongono l’idea di una alternativa globale, costruendo una coalizione di esperienze e non di soggettività politiche. Una rete che permetta di agire al di là del tradizionale percorso delle organizzazioni di sinistra partendo dal lavoro quotidiano, con obiettivi concreti. In questo senso l'ipotesi municipalista, pur con i suoi limiti, è un buon punto di partenza per mettere in campo una strategia politica che riesca a prefigurare processi di trasformazione. Ma dobbiamo necessariamente provare insieme ad altri ad interrogarne i limiti e a rispondere alle tante sfide e domande aperte che abbiamo di fronte.

Fonte: communianet.org 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.