di Marina Forti
Una grande compagnia di trasporto marittimo di container fa bancarotta, e la notizia arriva come una bomba in porti grandi e piccoli in tutto il mondo, da Singapore agli Stati Uniti, ad Amburgo (con una coda anche a La Spezia). La Hanjin Shipping è, o meglio era, la prima compagnia di trasporto di container della Corea del Sud, e la settima al livello mondiale, con una flotta di 141 navi portacontainer. Il suo fallimento ha implicazioni che vanno ben oltre la Corea del Sud.
In effetti accende i riflettori sulla crisi di tutto il sistema mondiale del trasporto marittimo, una crisi strutturale che si può riassumere in una frase: ci sono troppe navi per le merci da spostare.
In effetti accende i riflettori sulla crisi di tutto il sistema mondiale del trasporto marittimo, una crisi strutturale che si può riassumere in una frase: ci sono troppe navi per le merci da spostare.
Il fallimento della Hanjin Shipping ha stupito molti osservatori, ma non è una crisi improvvisa. Dal 2011 l’azienda chiudeva i bilanci in perdita. Finora però aveva potuto contare sul credito delle banche, trainate dalla Korea development bank (Kdb), cioè dallo stato coreano, e almeno dal 2013 aveva tentato varie operazioni per risanare i bilanci. Invano: in cinque anni la Hanjin Shipping ha accumulato 5,5 miliardi di dollari di debiti. E quando anche i primi sei mesi del 2016 si sono chiusi in passivo, la banca di stato ha deciso che il credito era finito.
Così, il 31 agosto la Hanjin Shipping ha “portato i libri in tribunale”, cioè ha presentato istanza di fallimento, contemporaneamente in Corea del Sud e negli Stati Uniti. La bancarotta ha lasciato in mare 65 navi portacontainer cariche di merci (o 68, o forse 85: dalla casa madre non arrivano molti dettagli), per qualcosa come 14 miliardi di dollari, secondo le stime circolate in questi giorni sui mezzi d’informazione economica, senza contare gli addetti e gli equipaggi.
Portacontainer bloccate fuori dei porti
Con la compagnia in stato di fallimento, molti porti hanno rifiutato alle sue navi il permesso di attraccare per le operazioni di scarico e carico, almeno finché non avranno garanzie che qualcuno pagherà le tasse portuali, il lavoro degli addetti e il rifornimento di carburante. Tre portacontainer della compagnia sudcoreana sono rimasti fuori del porto di Long Beach, a Los Angeles; solo l’11 settembre la prima ha avuto il permesso di entrare in porto e scaricare.
Sei sono sotto sequestro in porti cinesi, altre a Singapore (a La Spezia invece la crisi è rientrata, per ora: il 10 settembre la nave Hanjin Spain ha avuto il permesso dientrare in porto, scaricare e proseguire per Valencia, Spagna)
Insomma, il primo risvolto del fallimento della compagnia sudcoreana è un discreto caos nel commercio marittimo di tutto il mondo. Tendiamo a darlo per scontato, ma il trasporto delle merci è una delle principali attività dell’economia globale, che si tratti di oggetti di consumo come televisori, telefonini, vestiti, o di materie prime, o derrate agricole e semilavorati, dal succo d’arancia al carbone: e il 95 per cento del trasporto avviene per mare.
Hanjin Shipping conta per il 3 per cento del traffico mondiale di container, ma fa l’8 per cento del traffico transPacifico, cioè tra i paesi asiatici e i porti americani. Già molti temono una crisi del commercio al dettaglio negli Stati Uniti, in vista della “stagione dello shopping” del giorno del ringraziamento e di Natale, con ritardi nelle consegne: se si fermano le portacontainer si inceppa la catena globale di rifornimento delle marche occidentali che fanno fabbricare i propri abiti, telefonini e altri oggetti di consumo in Cina o nel sudest asiatico.
Non per nulla, la compagnia sudcoreana ha depositato l’istanza di fallimento anche negli Stati Uniti (dichiarare fallimento serve a “proteggersi” dai creditori, cercando di minimizzare il sequestro dei beni dell’azienda). Il tribunale fallimentare del New Jersey ha per ora messo le navi di Hanjin al riparo da cause legali, ma ha anche intimato alle navi di non lasciare le acque territoriali statunitensi finché la questione non sarà definita. Alcuni grandi creditori statunitensi dell’azienda sudcoreana hanno fatto ricorso.
Da Chicago alla California, nei tribunali federali sta arrivando una valanga di cause contro la Hanjin Shipping da parte di aziende che vantano crediti per centinaia di migliaia di dollari, a volte milioni, e chiedono il sequestro delle navi. Il minimo che si possa aspettare è una lunga scia di cause legali che si trascinerà per anni in tutto il mondo, complicate dal fatto che la flotta Hanjin è solo in parte di proprietà della compagnia sudcoreana: molte sono navi in affitto, e su questo ora giocano molti ricorsi (tra l’altro, uno dei creditori che chiede ai tribunali degli Stati Uniti il sequestro dei beni della Hanjin Shipping è la Hastay Marine, proprietaria della nave portacontainer Hanjin New Jersey, costruita nel 2013: rivendica 1,74 milioni di dollari di affitto della nave).
Perché è fallita la Hanjin Shipping?
Vista dalla Corea del Sud, la bancarotta della Hanjin Shipping sembra l’esito di una complicata storia di potere. La compagnia nell’occhio del ciclone è una sussidiaria del gruppo Hanjin (proprietario tra l’altro di Korean Air), une delle gigantesche conglomerate di attività industriali, riconducibili a una grande famiglia, che in Corea del Sud sono chiamate chaebol e non hanno un equivalente al mondo se non forse nei keiretsu giapponesi. Le chaebol sono parte della struttura del potere sudcoreano, in connessione strettissima con il governo (ma non possiedono istituti di credito: così dipendono dalle banche di stato).
Molti si sono chiesti perché la Hanjin Shipping sia stata lasciata fallire. Yi Jung-jae, un commentatore del giornale coreano (in inglese) Korean JoongAng Daily si è chiesto perché “un paese che affida al trasporto via mare il 70 per cento delle sue consegne di merci abbia lasciato la questione in mano alle banche”. Perché, continua Yi, non c’è stata per la Hanjin Shipping una riunione nella west wing del palazzo presidenziale, le stanze riservate del potere, dove di recente è stato deciso il salvataggio della Daewoo Shipbuilding, i cantieri navali?
L’ipotesi più probabile, secondo lui, è che l’esito fosse già deciso: lo stato ha salvato i cantieri navali della Daewoo e ha lasciato fallire la compagnia marittima della Hanjin per poi farla rilevare dalla Hyundai Merchant Marine. Del resto, solo a fallimento dichiarato il capo del gruppo Hanjin ha deciso di mettere 90 milioni di dollari per tappare alcuni dei debiti della sua sussidiaria.
Visto dal resto del mondo, il fallimento della Hanjin Shipping allude invece a una crisi strutturale del settore dei trasporti marittimi, e insieme allo strapotere della finanza speculativa. Anche per questo, quella delle navi Hanjin è una storia di portata mondiale. In fondo, da quando il primo container è stato imbarcato su una nave, nel 1956, questa industria è cresciuta in modo inarrestabile, fino a diventare parte indispensabile dell’economia globale (per una breve storia dei container, si veda qui).
Con la Hanjin Shipping, è la prima volta che crolla una grande compagnia di container. Ma il fatto è che tutto il trasporto marittimo è in crisi: nessuno osa dirlo a voce alta, ma potenzialmente il 90 per cento delle compagnie di trasporto marittimo è sull’orlo della bancarotta.
Il punto è che negli ultimi anni l’economia mondiale va a stento, la Cina rallenta, e il traffico merci ha smesso di crescere. Nei primi anni duemila il trasporto marittimo cresceva al doppio del tasso di crescita mondiale; negli ultimi cinque anni invece è cresciuto in linea con la crescita economica (cioè molto poco) e nel 2015 il prodotto interno lordo mondiale è cresciuto più del traffico marittimo. Solo che ormai i trasporti navali sono un’industria gigantesca, cresciuta a dismisura; nel 2015 la flotta totale era quattro volte più numerosa che nel 2000.
La concorrenza delle meganavi
Non solo. Il trasporto marittimo (sia dei container, sia il bulk, cioè il trasporto sfuso – di minerali, liquidi, granaglie o altro) è dominato da pochissime grandi compagnie, e la concorrenza lascia sempre meno spazio alle più piccole.
Vince chi riesce a fare economie di scala, a tagliare i costi. Per esempio, costruendo navi sempre più grandi: negli ultimi vent’anni la dimensione media di una portacontainer è cresciuta del 90 per cento. Circolano ancora navi da tre o quattromila container, ma la prima compagnia mondiale di questo settore, la danese Maersk, dal 2013 ha messo in servizio navi capaci di trasportare più di 18mila container (misura standard, 20 piedi: si usa parlare di teu, twenty-foot equivalent unit. Per capirsi, messi in fila farebbero un serpente di 108 chilometri, tutti su un’unica nave). Ora si va verso i 22mila te
La tendenza al gigantismo aveva la sua logica: le mega-navi sono state messe in cantiere intorno al 2010, quando il prezzo del carburante era molto alto. Grandi navi che viaggiano a velocità ridotta per risparmiare carburante hanno fatto scendere i costi unitari. Dirigenti del settore sottolineano che era anche una misura di efficienza ambientale, perché permette di diminuire le emissioni di anidride carbonica, in linea con le norme dell’Organizzazione marittima internazionale (Imo, l’agenzia dell’Onu che dal 2013 impone limiti alle emissioni per tonnellata di carico trasportato per miglio marino percorso).
Anche su questo si gioca la concorrenza: si dice che una convenzione Imo sul trattamento delle acque di zavorra sia stata ratificata, la settimana scorsa, perché applicarla avrà costi tali da spazzare via operatori in difficoltà finanziarie.
Dunque chi ha potuto permetterselo, cioè poche grandi compagnie, ha fatto costruire meganavi. Questo ha fatto crollare il costo delle spedizioni, ma quelle poche grandi compagnie si potevano ben permettere di tenere bassi i prezzi, con il vantaggio di mandare fuori mercato i piccoli concorrenti. Oggi però questo gigantismo appare sovradimensionato: in fondo, il commercio non può continuare a crescere in modo esponenziale. Un segno della crisi è che ogni mese decine di navi vanno in demolizione, anche se avrebbero ancora anni di vita, per “tamponare le perdite”: sarebbe stato impensabile solo qualche anno fa.
Le crisi a venire
Anche il trasporto bulk oggi è sull’orlo del collasso. Un’altra bolla speculativa si è sviluppata sullo shale gas statunitense: in anni di prezzo del petrolio alle stelle, quando si diceva che gli Stati Uniti sarebbero diventati il nuovo grande esportatore di idrocarburi grazie al fracking e ad altre tecniche di estrazione “non convenzionale”, molti avevano investito in navi-cisterna nell’aspettativa del trasporto di gas liquido. Poi però il petrolio è crollato e il prezzo economico e ambientale dello shale gas si è rivelato proibitivo. E anche questa bolla è scoppiata.
Gli operatori più seri addebitano molto alla finanza speculativa: negli anni duemila investire in container dava ritorni folli e ha alimentato un sottobosco di finanzieri e di trader. Le banche erano disposte a concedere credito a un costo vicino allo zero. Un commentatore del South China Morning Post riassume: “Ci sono un sacco di compagnie zombie là fuori”. La facilità eccessiva nel prestare i soldi, sostiene, “sta creando una crisi nel trasporto marittimo peggiore di quella degli anni ottanta”. Ora la bolla sta scoppiando. I ritorni non sono più folli, i rischi crescono, e anche le banche cominciano a ritirare i loro crediti (come riferisce qui The Economist).
Certo, la Hanjin Shipping non era una “compagnia zombie”. Ma anche le aziende più solide risentono della crisi. La Maersk, considerata la prima compagnia nel settore dei container, ha saputo gestire così bene questi tempi di recessione che oggi perde “solo” 11 dollari per ogni singolo container trasportato (la Hanjin ne perdeva cento): ma è pur sempre in perdita. Oggi molti occhi sono puntati proprio sulla compagnia danese, per la quale il prossimo mese è atteso l’annuncio di una profonda ristrutturazione.
A ben vedere, la bancarotta della Hanjin sembra un preludio delle crisi a venire.
Fonte: Internazionale
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