di Alberto Burgio
A New York, tre giorni dopo il frustrante summit di Bratislava, Matteo Renzi ha ricevuto il Global Citizen Award dalle mani di John Kerry che lo ha calorosamente elogiato (guidata da un leader europeo dinamico e sempre più importante, l’Italia va nella giusta direzione) e pubblicamente definito uno «high energy guy». Una soddisfazione, non c’è che dire. È bello che ogni tanto qualcuno mostri di volerti bene e ti dia pure una mano. È stato in quella circostanza che, raggiante, euforico, commosso, il presidente del Consiglio ha detto una cosa seria. Delle cui implicazioni non sappiamo quanto sia consapevole.
In Europa, ha dichiarato, manca la volontà politica di trovare una soluzione all’ondata migratoria nel Mediterraneo. Questo, perché «siamo quasi tutti sotto scopa elettorale, in Germania, in Francia e anche noi abbiamo il referendum».
In Europa, ha dichiarato, manca la volontà politica di trovare una soluzione all’ondata migratoria nel Mediterraneo. Questo, perché «siamo quasi tutti sotto scopa elettorale, in Germania, in Francia e anche noi abbiamo il referendum».
Che i governi siano sotto scopa, cioè dipendano in larga misura dagli orientamenti e persino dagli umori dei loro elettorati, è fisiologico. Anche Renzi sa che è un corollario fondamentale della democrazia. Se se ne è lamentato, è probabilmente perché intende che questo principio va tuttavia assunto con ragionevolezza, pena la trasformazione della democrazia nel suo contrario e in un incubo. Nel dominio dei cattivi demagoghi, in quella che i classici chiamavano oclocrazia.
È giusto che i governanti dipendano dai governati e ne assecondino le aspirazioni. Ma la loro dipendenza dev’essere riequilibrata dall’autorevolezza delle classi dirigenti. Le istituzioni democratiche debbono sì rappresentare (interpretare e tradurre in fatti) la volontà del popolo sovrano. Ma l’opinione pubblica dev’essere anche orientata. Le classi dirigenti debbono aiutarla a definire criteri di giudizio illuminati e a elaborare valori e standard di comportamento adeguati a una società complessa. Un tempo si sarebbe detto, in modo forse un po’ spiccio che debbono educare il popolo alla tolleranza, alla solidarietà e all’equità.
In effetti, da questo punto di vista la questione dei flussi migratori mette allo scoperto un grave problema, per non dire un fallimento delle democrazie europee. Naturalmente i politici badano a non perdere consensi. E siccome da lungo tempo hanno smesso di farsi carico della qualità etica della cittadinanza – non hanno voluto o sono stati semplicemente incapaci di farlo – ora si trovano a inseguire le pulsioni più retrive delle popolazioni. I politici – anche democratici, socialisti e progressisti – sanno che qui e ora l’accoglienza irrita, indispone e preoccupa la maggioranza dei loro elettori, quindi propendono perlopiù per politiche improntate all’egoismo, quando non alla reazione nazionalistica, comunitarista e razzista. Di qui un essere «sotto scopa» che denota una patologia della democrazia. E anche un grave pericolo, poiché a giovarsi di questa sconfitta sono soprattutto le forze della destra populista e xenofoba.
Renzi ha posto quindi un problema reale e gliene va dato atto. Dopodiché è lecito chiedersi se l’ha fatto strumentalmente, perché è in difficoltà in Europa, oltre che in Italia. Oppure perché è consapevole di ciò che questo problema implica e suggerisce. Sarebbe un bel passo in avanti, ma non sembra molto probabile.
Il fatto è che guardare seriamente in faccia il fallimento pedagogico delle classi dirigenti democratiche in Europa imporrebbe di ricercarne le radici politiche e culturali. Richiederebbe in particolare di interrogarsi sulle conseguenze del primato dell’economia sulla politica che la destra reaganiana ha imposto con la rivoluzione neoliberale e le sinistre liberal e uliviste (clintoniane) hanno a loro volta avallato e radicalizzato. Quando a dar forma al senso comune, alla mentalità e all’ethos prevalenti non sono le istituzioni democratiche, a cominciare dalla scuola pubblica e dai partiti di massa, bensì – immediatamente, senza filtri né contrappesi efficaci – il mercato, vale poi poco piangere sul latte versato e predicare con voce rotta sulla necessità di concepire politiche generose e lungimiranti. Non solo perché il mercato è l’arena dei particolarismi in conflitto, ma anche perché le conseguenze della competizione mercantile – non certo un pranzo di gala – sono di per sé, per i soccombenti, tremendamente dolorose.
Non c’è bisogno di aver trascorso ore in meditazione sulle pagine di Marx, di Keynes e di Polanyi per intendere che se la politica non pone argini alla bulimia del capitale, è la stessa democrazia a venirne travolta. Basta un rapido sguardo sul Novecento. Quel che sta succedendo oggi in Europa – le ansie e la collera di masse impoverite e precarizzate – era facilmente prevedibile e fu da molti previsto già venti, trent’anni fa, ai tempi in cui si misero nero su bianco i Trattati neoliberisti e poi ci si affidò all’unione monetaria e alle politiche di austerity. Oggi si può cercare l’applauso in qualche salotto internazionale e ci si può anche atteggiare a statista contro i lillipuziani della politica europea. Ma non sono che futili soddisfazioni e sortite poco consistenti se ci si limita a lagnarsi delle conseguenze di quelle scelte, evitando accuratamente di denunciare le cause.
Fonte: Il manifesto
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