di Francesco Maria Pezzulli
Quando un attacco discorsivo è complicato per cominciare è possibile ricorrere a un brano già scritto da altri in precedenza. Il discorso è quello del rapporto tra sapere, università e politica “oggi”, più nello specifico il rapporto tra libertà politiche e ricerca sul campo nell’università neoliberale, al tempo del “biocapitalismo” cognitivo. Ma il brano scritto in precedenza, che riportiamo qui di seguito, parla di “ieri”; è un resoconto “privilegiato” della tensione venutasi a creare nel rapporto università e politica in Italia, ai tempi del capitalismo industriale:
«Gli universitari invece bisogna lasciali fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco la città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli, e picchiare anche quei docenti che li fomentano (…) “In Italia torna il fascismo”, direbbero. Balle, questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l’incendio». (Francesco Cossiga, Intervista di Andrea Cangini del 23/10/2008. Ripresa da La Nazione, Il Resto del Carlino, Il Giorno. Riportato da R. Mordenti, L’Università struccata, 2010).
Il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. La spiegazione di Cossiga della ricetta democratica, indubitabile dato il ruolo di quest’ultimo, è forte e chiara: spegnere la fiamma prima che divampi l’incendio. Picchiare gli studenti e i docenti. Non era considerata l’università, all’epoca, una fiammella qualsiasi dal potere politico, ma quella che avrebbe concorso, se non determinato, l’incendio della prateria.
Oggi sono cambiate molte cose rispetto ad allora, alla violenza di cui sopra (che ricompare a fasi alterne, c’è chi sostiene: “con precisione chirurgica”) sono subentrati tutta una serie di dispositivi di governance politica dell’università molto più sofisticati di un cazzotto o una manganellata. Il fine è quello di costruire nuovi docenti e nuovi studenti affinché la fiamma non riesca ad accendersi o, perlomeno, resti isolata e non riesca a diffondersi. Picchiare gli studenti e i docenti non sempre conviene e ottenere il consenso popolare alla repressione è più difficile d’un tempo. Lo studente e il docente si picchiano meno del passato perché nell’università riformata gli studenti e i docenti sono socializzati, dalla loro immatricolazione in poi, all’accettazione acritica dei valori e delle pratiche correnti nella grande “corporation burocratica dell’Università”. Dal punto di vista di quest’ultima non è particolarmente importante “cosa” i docenti e i ricercatori realmente fanno, quello che conta sono le procedure che questi eseguono. Mentre gli studenti, da soggetti aventi diritto al sapere, sono diventati clienti da soddisfare, consumatori di beni e servizi, acquirenti di un prodotto che dovranno vendere a loro volta nel mercato globale. Sono significative in tal senso le parole di Federico Bertoni relativamente ai tre dispositivi che governano la “nuova” università (misurazione, informatica e burocrazia) di fatto assoggettata alla logica neoliberale e alle leggi del mercato mondiale:
«le varie articolazioni dell’apparato collaborano perfettamente e trovano un punto di integrazione a vari livelli: economia, organizzazione, tecnologia, psicologia, sistema di governo. L’enorme espansione della macchina burocratico-amministrativa, supportata da una riforma della governance in senso sempre più oligarchico e tecnocratico, si avvale di alcuni strumenti che ormai colonizzano potentemente e capillarmente la nostra esperienza quotidiana di ricercatori e insegnanti: parametri di misurazione inevitabilmente arbitrari e fallibili, ma spacciati per oggettivi; equazione tra responsabilità (accountability) e contabilità (accounting); uso estensivo delle tecnologie informatiche e dei sistemi di elaborazione dei dati in cui la statistica diventa un’arma impropria, trincerata dietro l’apparente neutralità dei numeri ma invece asservita a determinati interessi e obiettivi. Siamo perfettamente calati in una dinamica pirandelliana per cui accedi all’esistenza solo in quanto funzione astratta del sistema. Ad esempio, studiosi e docenti esistono in quanto tali solo se si sottopongono alle procedure di valutazione che ne riconoscono il ruolo, che ne stabiliscono la quotazione sul mercato intellettuale della ricerca, che li collocano in una gerarchia ideologicamente condizionata ma travestita con l’apparente oggettività dei parametri tecnici (numeri, punteggi, algoritmi). Posso anche scrivere e pubblicare La critica della ragion pura, ma finché non apro l’applicativo informatico e non compilo la scheda descrittiva del “prodotto” con dati e metadati, abstract e parole-chiave, codici e pdf, quella pubblicazione di fatto non esiste. Anche qui peraltro vige la logica dell’accumulazione capitalistica, compendiata nello slogan di un nuovo darwinismo sociale applicato alla vita accademica: publish or perish, o addirittura publish and kill: devi pubblicare freneticamente per vincere la sfida della competizione, scalare le classifiche, ottenere finanziamenti, totalizzare prodotti e citazioni come i tossici da social network che vivono solo per arricchire il bottino di likes e followers. Da questo punto di vista, e secondo una dinamica che non riguarda solo l’università ma gran parte delle nostre pratiche sociali, le intuizioni di Foucault mi sembrano perfettamente centrate, soprattutto per quanto riguarda l’interiorizzazione del dispositivo da parte dei soggetti, spinti ad agire compulsivamente e a rispondere puntualmente alle ingiunzioni dell’apparato. È il paradosso di ubbidire volontariamente a un comando, meccanismo primario di quella che una volta si chiamava alienazione». (L’università in scatola. Intervista a F. Bertoni, in sudcomune n.1 – 2016).
I numerosi casi di criminalizzazione dei saperi critici ai quali abbiamo assistito negli ultimi anni (dai fatti del “sud ribelle” del 2002, ai recenti casi di Chiroli, Maltese e molti altri) sono casi di docenti e ricercatori che non hanno interiorizzato il dispositivo, che non rispondono puntualmente alle ingiunzioni dell’apparato, che non ubbidiscono volontariamente ai comandi. Si sono formati prima del 3+2 e le riforme, alle quali hanno spesso resistito con gli strumenti a loro disposizione, non li hanno cambiati del tutto. Sono docenti, ricercatori e studenti che oggi potrebbero essere considerati paradossali, che si sono formati con l’idea dell’università come di un’istituzione nata per custodire e trasferire il sapere in quanto bene comune per eccellenza. Soggetti con un’idea di università che affonda le radici nelle origini classiche dell’istituzione come una comunità di docenti e discenti che esercita la difficile arte dell’autoformazione, «che cerca di riconoscere e liberare la vocazione, il demone che dorme latente in ogni essere umano». Insomma un’idea di università nettamente differente, quanto non antagonista, da quella alienata popolata da docenti e ricercatori che accettano passivamente i criteri di merito ed efficienza dell’università neoliberale. In un importante libro del 2000 (L’Università dei tre tradimenti, Laterza) Raffaele Simone, professore pentito, definisce i docenti e i ricercatori «intellettualmente indipendenti» come dei «cani sciolti», che scontano il fatto di essere liberi con l’esclusione dai vantaggi previsti dalla legge di scambio dei doni accademici: i cani sciolti «non contano niente» e sono «accademicamente sterili». Quindici anni dopo non basta più l’azione del potere accademico di indurre la sterilità: del ricercatore intellettualmente indipendente comincia a non essere più tollerata la stessa esistenza.
La colpevolizzazione, criminalizzazione e repressione del sapere critico, cosi come l’accanimento giudiziario contro la ricerca sul campo, intervengono quando tutti gli altri sistemi di persuasione hanno girato a vuoto, quando ci si trova davanti a singoli non conformi al nuovo ruolo sociale disegnato per loro dalle Riforme. Soggetti devianti, che realizzano ricerche e adottano metodologie devianti, che tra la stesura di un abstract e di una scheda descrittiva, esercitano la loro professione di scienziati e ricercatori come un servizio per gli altri, in primis per gli studenti.
I fatti recentemente accaduti sono gravi e prefigurano una stagione brutta e grigia. Probabilmente non basteranno gli appelli di solidarietà di parti del sistema accademico per invertire la rotta intrapresa, che alla produzione di soggetti “riformati”, alla bisogna, fa seguire l’espulsione dei recalcitranti per via giudiziaria. Cosa è oggi più utile fare? quale condotta è meglio mantenere trovandosi “sotto attacco”? La risposta non può che provenire dalla discussione collettiva (dagli incontri di Modena e Bologna e da quelli che verranno). Al momento potrebbe essere utile moltiplicare e connettere laboratori e corsi di autoformazione nelle università, concepiti e vissuti a partire dalle passioni cognitive degli studenti, dove sia possibile sperimentare concretamente la cooperazione comunitaria tra docenti e allievi, in modo indifferente a quanto avviene nel mercato del lavoro e nei voleri dell’impresa capitalistica. Un tentativo (titanico, mi rendo conto) di ricostruzione dall’interno delle ragioni sociali dell’università, in grado di dimostrare nei fatti che un’altra università è possibile sin da subito. Un obiettivo che abbia il fine di riportare sulle porte della scienza le parole infernali del poeta: «qui si convien lasciare ogni sospetto, ogni viltà convien che qui sia morta».
Fonte: Effimera
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