di Luigi Pandolfi
In questo periodo, i governi europei sono alle prese con i bilanci di previsione e con le leggi di stabilità, che, com’è noto, devono essere presentate alla Commissione entro il 15 ottobre. Quale migliore occasione, allora, per fare un bilancio del Patto di Stabilità, ovvero delle regole poste a fondamento della governance economica dell’Unione? Calato il sipario sull’ultimo vertice dei capi di Stato e di governo tenutosi a Bratislava, ci ha pensato Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione, a fare il punto, intervenendo alla plenaria del Cese, organismo consultivo dell’Unione, rappresentativo della società civile organizzata.
La sua considerazione: «Il patto di stabilità non è stupido e funziona, lo dimostrano le cifre. Nel 2009 il deficit medio era del 6,3%, ora la media è dell’1,9. È la prova che il consolidamento progredisce». Come dargli torto? Un successone, se non fosse che proprio in tale successo sta la chiave di lettura dei mali attuali dell’economia europea.
Facciamo un passo indietro. È acquisito, ormai, che il costo dell’ultima crisi finanziaria sia stato scaricato sul groppone dei cittadini. A differenza degli Usa, da dove il virus è partito, però, in Europa la crisi è stata anche colta come un’opportunità, per irrigidire e rendere più cogenti le regole fiscali cui soggiacciono gli Stati membri e per imporre agli stessi l’adozione di «riforme strutturali» del mercato del lavoro.
Nell’arco di un quinquennio, i deficit di bilancio si sono assottigliati ovunque, fino a centrare, o a lambire, gli obiettivi di finanza pubblica previsti dai Trattati. Chi più, chi meno, tutti i Paesi hanno fatto la loro parte, tagliando la spesa pubblica, aumentando le tasse, cambiando la legislazione sul lavoro. E i risultati si sono visti anche sul versante delle bilance commerciali. Fino al 2012, fra i principali Paesi dell’eurozona, solo Germania e Olanda vantavano un saldo positivo delle partite correnti. Tutti gli altri erano in deficit ed accumulavano debiti con l’estero, uno dei motivi, tra l’altro, per cui in alcuni Paesi periferici, la crisi ha avuto un impatto devastante.
La situazione inizia a mutare rapidamente con l’inasprirsi delle politiche di austerità: nel giro di 2-3 anni, con la sola eccezione della Francia, tutti i deficit si trasformano in surplus. Forse che tutti i Paesi della zona euro sono diventati, di colpo, locomotive dell’export? Macché, è solo che la stretta fiscale e le politiche di moderazione salariale hanno comportato una caduta dei consumi delle famiglie, quindi un calo delle importazioni. In sostanza, l’operazione di riequilibro delle bilance commerciali ha avuto come corollario una depressione della domanda interna e, più in generale, un impoverimento delle popolazioni.
Il termometro di questa situazione è senz’altro la spirale deflattiva che attanaglia molti Paesi europei, nonostante l’iniezione a dosi massicce di liquidità nel sistema da parte della Bce. Parlano chiaro anche i numeri che provengono dall’economia: crescita al palo, povertà in aumento. Gli ultimi dati forniti da Eurostat relativi al secondo trimestre dicono che l’economia europea rallenta e per alcuni Paesi torna addirittura lo spettro della recessione. In questo quadro, chi se la passa peggio è proprio il nostro Paese, per il quale l’Ocse, nel suo Outlook di settembre, ha ritoccato al ribasso le stime di crescita per l’anno in corso e per il 2017. Un vero grattacapo per il governo, visti gli obiettivi di finanza pubblica fissati per il 2016 e quelli successivi ed un debito pubblico che a luglio ha toccato la cifra record 2.252,2 miliardi di euro (oltre 132,2% del Pil).
Ieri, nel frattempo, è arrivata un’altra doccia gelata, questa volta dall’Istat, che ha ridimensionato la variazione del Pil nel 2015, da +0,8% a +0,7%. Ma si sa: l’Italia i compiti a casa li ha fatti bene in questi anni, tant’è che dal 2007 al 2016 la sua produzione industriale è crollata del 22% e gli investimenti di cinque punti di Pil.
L’unica eccezione sarebbe la Spagna. In realtà, il quadro della Spagna è più problematico di quanto la sola crescita del Pil lasci intravedere (0,8% su base trimestrale, 3,2% annuo). Alla base del “successo” spagnolo, difatti, ci sono fattori del tutto congiunturali e, soprattutto, una dinamica salariale al ribasso, favorita dalla disoccupazione di massa. Il recupero di competitività, peraltro effimero, sui mercati esteri avviene a detrimento dei redditi da lavoro e del benessere generale della società. Non è un caso che ai numeri del Pil facciano da contraltare un tasso di disoccupazione al 20% (giovanile oltre il 45%), un’esile domanda interna, una persistente deflazione.
Rispetto al 2008, mancano all’appello 5 milioni di posti di lavoro. Un quarto della popolazione europea (123 milioni di individui) sarebbe a rischio povertà ed esclusione sociale, mentre già oggi oltre 50 milioni di cittadini comunitari vivrebbero in stato di grave deprivazione materiale. Nel complesso, l’Europa si presenta oggi come un gigante sedato, avvinto da gravi problemi economici e sociali, sempre sull’orlo di una nuova crisi sistemica. D’altronde, le falle del suo sistema bancario, unite alla debolezza della sua economia ed alla crescita del debito, sia pubblico che privato, potrebbero innescare una crisi ancora più perniciosa di quella del 2007-2008.
Un rischio paventato recentemente anche dall’Ocse, che sul punto, ha sentenziato: «La lentezza della ripresa dell’Eurozona è un forte freno alla crescita globale e lascia l’Europa vulnerabile agli shock globali».
Non c’è che dire, il Patto di Stabilità sta funzionando alla grande. Probabilmente, sarà ribadito anche mercoledì a Berlino, nel corso del vertice tra Angela Merkel, Francois Hollande e lo stesso Jean-Claude Juncker, al quale il premier italiano, in segno di punizione (o avvertimento), non è stato invitato.
Fonte: il manifesto
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