di Marco Furfaro
Ottantasei milioni di voucher in 7 mesi. Milioni di persone che per lavorare si fanno dare un cedolino. Ciak, si gira. Va in scena l’operazione di legalizzazione di lavoro nero più grande della storia. Nessuna tutela, nessuna dignità. Fuori e dentro il lavoro. Lavoratori trattati come schiavi. Al posto delle catene il peso della ricattabilità. Non puoi dire no, nemmeno dinanzi a un sopruso. Se lo fai, arriva un camion e ti porta via la vita. Rimangono 5 figli senza padre e tempi che pensavi consegnati ai libri di storia.
«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: è quello che abitiamo tutti i giorni», scriveva Calvino. L’inferno delle vigne di Franciacorta dove è morto un operaio rumeno di 66 anni per la fatica. L’inferno di un milione di bambini in povertà, dei 160 mila ragazzini che non finiscono il ciclo scolastico, dei femminicidi. Dei lavoratori autonomi mortificati dal fisco, delle 800 mila donne in gravidanza che vengono licenziate o rinunciano al lavoro perché non ce la fanno a coniugare vita e lavoro. Altro che Fertility Day.
L’inferno di un Paese in cui, certifica l’Istat, «la differenza la fa la famiglia in cui cresci». Nasci povero, muori povero. L’ascensore sociale è fermo al piano terra e l’operaio il figlio dottore non può più permetterselo perché lo Stato nemmeno ti finanzia una borsa di studio.
Una sofferenza che non ha racconto pubblico né rappresentanza. E così rimane solo rassegnazione e rabbia. Che la peggiore politica cerca di raccogliere a suon di miserevoli slogan, bufale, insulti. Eppure, scriveva Calvino, c’è un altro modo: «Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
C’era una volta la sinistra ad avere cura di quell’inferno, a dare spazio a quella disperazione e trasformarla in speranza collettiva. Oggi no. Non se ne occupa il governo Renzi e la sinistra che resta è ai minimi termini. Rimangono i Salvini, i Farage, le Le Pen d’Europa. Quelli che ti vengono a dire che la colpa è del povero cristo che da Aleppo si fa centinaia di chilometri a piedi, la vita in un sacchetto della spesa, i soldi di una vita per un gommone. La guerra degli ultimi. Mentre i primi stanno sempre là, popcorn in mano, a guardare chi si scanna ferocemente senza sosta.
Il resto non è da meno. Anche Renzi e Grillo fanno parte del copione. Persino il M5S rivela tutta la sua inadeguatezza alla prova del governo. Manca l’alternativa. E non nascerà né nella fusione tra gruppi dirigenti né perimetrando noi stessi fuori dal mondo che ci circonda. Serve altro. Perché non c’è solo la rabbia.
C’è un’Italia che lotta, che si organizza in forme di socialità, cooperazione, solidarietà, innovazione. L’emblema di un modello alternativo che non trova rappresentanza politica perché fuori dai linguaggi e dalle pratiche consuete. Qui la sinistra deve costruire il suo ruolo, tra l’inferno e la speranza: avere cura dei dannati, delle solitudini, delle paure. Allearsi con l’innovazione che include e sperimenta socialità.
Usciamo dalla pozzanghera in cui siamo finiti. Perché non basterà issare la bandiera della nostra purezza (quale, poi?), rinunciare alla battaglia per un’altra Europa o evocare la parola “sinistra” come formula salvifica. Occorre raccontare fragilità e buone pratiche, dargli spazio e protagonismo. Senza paura di essere impuri, complessi e fragili come coloro che vorremmo rappresentare. Entrando in connessioni crescenti con il mondo, a partire dal referendum costituzionale.
Il risultato del referendum – a torto o a ragione – sottolineerà o meno la necessità di un cambiamento, di un’alternativa al renzismo, ai Trattati europei, alle destre. È lo spartiacque su cui ricostruire il campo progressista dell’alternativa. Non basterà la sinistra del meno siamo meglio stiamo, né tanto meno quella brava solo a costruire caserme per pochi. Dobbiamo aprire case matte per tanti. Aperte a tutti coloro che oggi si stanno mobilitando in difesa della Costituzione. Usiamo questi mesi di mobilitazione per aprirci, per tornare a definire una proposta politica che dal giorno dopo il referendum possa far tornare a sperare, per sancire che non abbiamo lasciato il campo a Grillo e Salvini ma che vogliamo giocare per riprendercelo. Perché se c’è l’inferno, non può essere certo la sinistra ad abdicare alla ricostruzione di una possibilità di cambiamento. Questa sarà la strada che indicheremo oggi a Roma, in piazza S. Maria Liberatrice. E lo faremo a Porte Aperte. Come la sinistra che vorremmo.
Fonte: Il manifesto
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