di Adriana Pollice
Rimandati al 30 settembre. I cinque operai Fca di Pomigliano d’Arco, licenziati nel 2014, dovranno aspettare ancora. Il Tribunale di Napoli si è avvalso di una norma della legge Fornero che consente di emettere sentenza, completa di motivazioni, dieci giorni dopo la conclusione del processo. Una conclusione che non è la fine perché, chiunque vinca, ci sarà opposizione e si andrà in Cassazione. All’azienda non importa aspettare, ma per i cinque significa ancora un anno o due con la vita sospesa. Così ragionano per step: mercoledì erano vicini al gazebo a piazza Municipio a organizzare altri dieci giorni di resistenza.
«Possiamo disegnare delle sagome a terra, il contorno dei tanti morti sul lavoro» spiegano immaginando la scena sul basolato.
«Possiamo disegnare delle sagome a terra, il contorno dei tanti morti sul lavoro» spiegano immaginando la scena sul basolato.
Sulla panchina intorno a Mimmo ci sono i suoi compagni: Marco Cusano, Antonio Montella, Massimo Napolitano e Roberto Fabbricatore. «Mi sento responsabile pure per loro, è più di un anno che siamo senza reddito. La Fiat ci ha fatto terra bruciata intorno, nessuno ci darà mai un lavoro. Vivo in auto, ho imparato dove parcheggiare per stare tranquillo. L’altro giorno ho preso una multa, ho detto al vigile che poteva pure fare tanto resta inchiostro su carta: sulla mia macchina ci sono già otto sequestri, la patente me l’hanno ritirata, l’assicurazione non c’è, la multa non significa più niente. A casa non torno, ho una figlia di nove anni, non posso farla crescere con questo peso sulle spalle, meglio lasciarla tranquilla. E poi ho fatto debiti, mi cercano, meglio che non mi faccio vedere a casa». La vita stravolta: «La moglie di Massimo si è trasferita a Londra dalla figlia, c’è chi dorme dai suoceri e chi è inseguito dal padrone di casa che vuole un anno di affitti arretrati. Intanto le sentenze slittano, l’azienda fa opposizione, il tempo passa. La gente ci ha visto al telegiornale, viene a salutarci, siamo solidali con voi ci dice. Ma la solidarietà non serve, serve la lotta».
Aspettare il 30 settembre, Mimmo non ha più voglia di aspettare, «ho il piano B» racconta con lo sguardo risoluto. Di che si tratta non lo dice ma una cosa è chiara: «L’unico strumento che mi è rimasto per combattere è il corpo, la prossima azione sarà più dura delle precedenti». In ogni fase del processo Mimmo ha sfidato la morte: è salito sulla gru nel cantiere della metro a piazza Municipio e poi sulla ciminiera abbandonata dell’ex Italsider di Bagnoli. «Sulla gru sono rimasto sei giorni, la pelle spaccata dal vento e dal sole, disidratato. Passavo la giornata andando avanti e indietro sul ponte. La sera mi stendevo: dovevo stare in bilico perché avevo mezzo metro di spazio, intorno a me tutto oscillava. Sulla ciminiera è stato peggio: è abbandonata dalla fine degli anni ’90, la scala era arrugginita e i bulloni si staccavano dagli alloggiamenti, la griglia dove stavo era corrosa dalla salsedine. Io mi affacciavo e mi vedevo spiaccicato al suolo ma ormai la mia vita è così, ‘come va, va’. Quando ero ancora in fabbrica non condividevo gli operai che salivano sui tetti. Pensavo che la lotta sindacale andasse fatta con i picchetti, gli scioperi. Adesso so che era il sintomo di quello che è poi successo su larga scala. Se non c’è più libertà, allora l’azienda deve passare sul tuo corpo».
Mimmo allo stabilimento Giambattista Vico era un Rsu (il più votato l’ultima volta che è stato eletto) e anche Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, il suo sindacato è lo Slai Cobas. Il primo licenziamento è arrivato il 14 febbraio del 2006, «il giorno di San Valentino» spiega Marco Cusano. Anche lui venne licenziato: «C’erano più di 4mila operai nel piazzale del Vico per l’assemblea sindacale. Si doveva discutere del contratto dei metalmeccanici. Gli operai uscivano dai reparti con i cartelli contro l’accordo, iniziarono a lanciare uova ai sindacalisti confederali. Il giorno dopo, all’ingresso in fabbrica, la vigilanza ci fermò uno per volta, ci chiuse in una stanzetta, ci lesse la contestazione e ci licenziò. Venimmo buttati fuori in otto, altri cinque ebbero provvedimenti disciplinari. Una specie di processo sommario senza possibilità di replica. Alla fine fummo tutti reintegrati tranne Mimmo: secondo la Fiat era il mandante». Mignano quel processo l’ha vinto in tutti i gradi di giudizio: «Il direttore del Vico mi chiamò, voleva parlarmi. Con lo Slai Cobas avevamo denunciato in procura la pratica delle assunzioni clientelari, mi disse che volendo potevano sistemare mia sorella. Mia sorella studia, risposi, non ha bisogno di finire qui. Oggi è insegnante e ripete che devo riprendermi la vita».
Il secondo licenziamento di Mimmo arriva un anno dopo. Un gruppo di operai e attivisti occupa per un paio d’ore una concessionaria Fiat al Centro direzionale: espongono striscioni e dal megafono raccontano gli effetti delle riforme in atto sulla vita degli operai. L’azione era stata decisa in preparazione dello sciopero generale indetto allora dai sindacati di base. Con Mignano c’è persino una futura Rsa Fim del Vico. Ma Mimmo è l’unico a cui arriva la lettera di licenziamento il 20 novembre 2007. L’accusa è aver esposto striscioni che incitano alla lotta contro la precarietà e «aver offeso dirigenti dell’azienda». In udienza Mimmo presenta un video dell’azione: «I legali della Fiat rimasero a bocca chiusa, le immagini smentivano del tutto la loro versione dei fatti». Il giudice gli ha dato ragione, l’azienda ha fatto opposizione, il tribunale di Napoli doveva decidere mercoledì ma il processo è stato stralciato su richiesta di Fca e rimandato al prossimo marzo.
Il secondo licenziamento ha anticipato la successiva deportazione di 316 operai con un pedigree sindacale sgradito al Lingotto e/o con vertenze aperte o con Ridotte capacità lavorative dal Vico al Wcl, il reparto logistico di Nola rimasto per oltre un lustro senza alcuna missione produttiva. Il reparto dove, dopo sei anni di cassa integrazione ininterrotta, in tre si sono tolti la vita. Un evento drammatico che ha innescato la manifestazione ai cancelli di Pomigliano: una ventina di operai hanno inscenato con un manichino il suicidio di Sergio Marchionne con accanto una lettera di pentimento. Per questo i cinque sono stati licenziati nel 2014. «Hanno detto i legali della Fiat che la nostra protesta non aveva nulla a che vedere con quello che era successo ai nostri compagni – conclude Mimmo -, che non c’è connessione tra i suicidi e la cassa integrazione a zero ore in cui erano, che l’ad si è sentito offeso. Maria Baratto si è uccisa infliggendosi tre coltellate, aveva scritto una lettera che era un atto di accusa durissimo contro l’azienda. I suoi funerali sono stati trasmessi dai telegiornali. Marchionne non ha detto una sola parola. Ai cancelli del Vico abbiamo ridato voce ai nostri compagni, per non farli dimenticare».
Fonte: Il manifesto
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