di Francesco Cancellato
«Vorrei suggerire di proseguire e non tornare indietro a un mondo diviso.Globalizzazione e capitalismo hanno portato vantaggi in molti paesi, ma un mondo in cui l'1% dell'umanità controlla una ricchezza pari al 99% non è uguaglianza (…) Le economie funzionano meglio se si riduce il gap tra i salari, tra ricchi e poveri. L'obiettivo non è punire i ricchi ma rendere più equa la società e prevenire nuove crisi». Parole e musica di Barack Obama, nel suo ultimo discorso all’assemblea generale dell’Onu da presidente degli Stati Uniti d’America.
Bella faccia tosta, direte voi. Presentarsi al mondo con un pistolotto sull’uguaglianza proprio nell’anno in cui l’America, secondo gli economisti Peter Lindert and Jeffrey Williamson, ha battuto tutti i record di disuguaglianza e ingiustizia sociale. Bella faccia tosta pure voi, però. Perché l’Italia non è messa meglio. Anzi, secondo un report di Morgan Stanley dello scorso anno l’Italia è, dopo il Portogallo, il Paese meno equo tra quelli sviluppati.
Non siete convinti? Avete le vostre ragioni. Per anni vi hanno - abbiamo - rotto le scatole col mito della classe media italiana, dello sviluppo senza scontro sociale e senza fratture tra grandi e piccole città, tra metropoli e territorio. E ancora, col mito delle banche locali che danno credito dove non arrivano i grandi, dei distretti in cui l’operaio diventa imprenditore - padroncino, se preferite -, dove l’innovazione e il genio sono ovunque, a ogni latitudine e in ogni settore.
La classifica della disuguaglianza secondo Morgan Stanley
Bene, anzi male. Da nemesi del turbocapitalismo americano, siamo diventati peggio. Nel senso che ci manca il turbo e pure il capitalismo, visto che loro perlomeno crescono, mentre noi siamo al palo da almeno quindici anni. Soprattutto, questa lunga stagnazione è riuscita nell’impresa di togliere a chi già aveva poco, di impoverire la classe media, di discriminare ciò che un tempo non era discriminato. Soprattutto, nei quattro Paesi del sud Europa - Portogallo, Spagna, Italia e Grecia - assurti a simbolo della disuguaglianza, perlomeno nell’occidente sviluppato.
Il report di Morgan Stanley ha luci e ombre, ovviamente. Le luci sono il basso indebitamento individuale, una sanità pubblica di buona qualità e alla portata di tutti e una differenza negli stipendi tra maschi e femmine che non è alta come altrove. Le ombre, invece, stanno in un coefficiente di Gini - misura per eccellenza della disuguaglianza - molto e sempre più alto (tra il 2004 e il 2014 è cresciuto di 4,4 punti, solo Usa e Svezia hanno fatto peggio), in una percentuale di giovani che non studiano e non lavorano seconda solo a quella di Grecia e Spagna e in un digital divide superato in peggio solo da Grecia, Portogallo e Polonia. Preoccupante è anche la decrescita dei salari reali nel corso del decennio - solo Portogallo Grecia e Regno Unito fanno peggio di noi - e la disoccupazione di chi ha un educazione superiore, dove peggio di noi fanno solo i quattro Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna).
Non è solo un problema di giustizia sociale. Secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale dello scorso anno - non esattamente l’Internazionale Socialista - una crescita del reddito del 20% più ricco della popolazione di uno stato fa scendere il Pil, mentre una crescita del reddito del 20% più povero lo fa salire. In altre parole, l’uguaglianza accelera la crescita di un Paese. In fondo, quindi, le parole di Obama devono essere per noi la pietra angolare su cui costruire un’agenda per la crescita. E lo studio di Morgan Stanley un’agenda da portare avanti: far studiare e lavorare i giovani, portare internet ovunque, far crescere i salari, aumentare la partecipazione femminile al mercato del lavoro.Si può fare, anche senza far crescere la spesa pubblica e indebitarsi fino all'osso del collo. Chi ci sta?
Fonte: Linkiesta.it
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