di Assunta Collazzo, Ciccio Cirigliano e Pinuccio Lovito
Mentre in Europa si riapre con forza il dibattito sulla necessità di un reddito minimo ‘di base’ (per tutti) come misura di nuovo welfare non più basato solo sui bisogni ma centrato sul diritto universale di tutte e tutti a disporre di un reddito che permetta l’esercizio della cittadinanza, in Italia il tema viene sempre relegato a qualche effimera fiammella, per lo più utile solo a qualche altrettanto effimero tentativo di direzionare il consenso. Certo il quadro politico europeo, con il suo portato di asservimento al neoliberismo e alla tecnocrazia – e all'indomani del referendum svizzero – non sembrerebbe lasciare molto spazio a una discussione seria sull’argomento, ma questo è vero solo a metà.
Non è un caso che il dibattito non investa solo l’Europa – si veda la discussione che si sta ponendo in queste settimane nei Paesi Bassi e in Finlandia – e trovi interesse negli Stati Uniti, lì dove ci si torna a interrogare sugli effetti che avrebbe avuto, qualora non si fosse attivata la macchina ideologica della falsificazione socio-economico-teologica che ne produsse la bocciatura, la misura di reddito di base proposta nel 1969 dal presidente repubblicano Richard Nixon.
Non è un caso che il dibattito non investa solo l’Europa – si veda la discussione che si sta ponendo in queste settimane nei Paesi Bassi e in Finlandia – e trovi interesse negli Stati Uniti, lì dove ci si torna a interrogare sugli effetti che avrebbe avuto, qualora non si fosse attivata la macchina ideologica della falsificazione socio-economico-teologica che ne produsse la bocciatura, la misura di reddito di base proposta nel 1969 dal presidente repubblicano Richard Nixon.
Oggi finalmente, sul persistere di una crisi che – tanto in America quanto in Europa – ha raddoppiato e a volte triplicato i coefficienti di disuguaglianza (nel trentennio 1985-2015 negli Usa il coefficiente di Gini, che misura il grado di disuguaglianza in una forbice che va da 0 a 1, è passato dallo 0,34 allo 0,41; in Germania dallo 0,25 allo 0,28; in Svezia dall0 0,19 allo 0,28; in Italia dallo 0,28 allo 0,34) e archiviata la lunga fase ultra neoliberista che va dalla sconfitta del tentativo nixoniano fino all’era dei Bush – passando per Reagan e Clinton negli Usa, o per il crepuscolo delle socialdemocrazie in salsa blairiana in Europa – oggi si torna a ridiscutere della opportunità di una misura di tipo universalistico utile non solo a far uscire dalla povertà milioni di persone, ma anche a liberarli dal ricatto di un lavoro reso sempre più incerto e precario dai processi di automazione e sempre più deregolamentato dal punto di vista legislativo.
Il reddito di base, dunque, come liberazione dal ricatto occupazionale e come riaffermazione del lavoro come diritto… costituzionale, nel caso del nostro Paese. La battaglia per un reddito minimo ‘di base’ o di cittadinanza – in un paese come l’Italia in cui, come ci dice la Banca d’Italia, il 10% della fascia più ricca della popolazione possiede il 48% della ricchezza e in cui sempre più il ceto medio tende a discendere una piramide sociale la cui base di povertà cresce sempre più – all’interno della mobilitazione per il NO a referendum costituzionale rendendo quest’ultima non più solo una mobilitazione di resistenza, ma anche di rilancio della stessa Costituzione affinché i suoi importanti principi – pensiamo al Suo primo articolo – diventino finalmente esigibili da quanti oggi rimangono ai margini della cittadinanza piena. Ma la battaglia per il reddito anche come risposta all’automazione crescente che ha reso sempre più obsoleti alcuni lavori che hanno estromesso quasi definitivamente l’apporto della manodopera umana… o ancora come risposta alla dislocazione dei luoghi dell’accumulazione classica del profitto, soprattutto a causa di una crescita straordinaria dei processi di finanziarizzazione dell’economia.
Parafrasando una figura molto cara al cattolicesimo progressista – e ribaltando il pregiudizio calvinista che, nel secolo scorso (ma già nell’Ottocento) ha rappresentato il maggior ostacolo ‘teo-ideologico’ alla sperimentazione di un reddito universale di base, potremmo dire che oggi ‘il profitto non è più una virtù’; e lo è ancora meno in una epoca in cui la ricerca del profitto ha raggiunto livelli di sperequazione insopportabili, con un allargamento della forbice tra chi ha e chi non ha tale da mettere in discussione anche le democrazie più mature. Ecco perché oggi la battaglia sul reddito quale misura universale è una battaglia che potremmo definire di civiltà epocale.
P.S.: col rischio di passare come gli ultimi provinciali, ricordiamo che presso il Consiglio regionale di Basilicata giacciono, nel silenzio assordante e da oramai anni, almeno due proposte di legge in merito all’istituzione di un reddito minimo di cittadinanza. Proposte supportate, se messe insieme, da oltre settemila firme, ma delle quali nessuno parla: non ne parlano nella Giunta; non ne parlano in sede di Consiglio (con o senza avvicendamenti di presidenza).
Fonte: commo.org
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