di Francesco Pecoraro
Se Roma fosse uno zoo, nella mappa colorata che ti darebbero all’ingresso sarebbe indicata un’area a nord della città dedicata alla grande famiglia dei «borghésidi». La scheda informativa direbbe di un insieme di specie umane tra loro differenti, ma strettamente imparentate tramite un ceppo comune chiamato privilegio di classe, la cui origine diversificata ha prodotto risultati, se non identici, abbastanza simili, che vanno ormai sotto il nome generico di «borghesia di Roma Nord».
Questa denominazione zoologica comprenderebbe diverse sotto-specie (in realtà sparse nell’intera città) tra cui, numerosa, la «borghesia progressista», o più propriamente il ceto medio «di sinistra» romanordino. Se la parola «progressista» è troppo vaga e polivalente, la parola «sinistra» (qui scritta sempre tra caporali), pur non avendo un vero significato politico, fornisce ormai, almeno a Roma, un discreto orientamento sociologico. Ceto medio «di sinistra» indica senza troppa precisione il modo di vivere e di non-pensare di un insieme sociale con connessioni trasversali e oblique che attraversano gente di strati diversi, ma tutti toccati, in modo più o meno marcato, oltre che da un sentire politico vicino prima al PCI poi al PDS poi ai DS poi al PD, anche da una forma più o meno accentuata di privilegio per così direstorico. Dove per privilegio storico non si intende tanto quello eventualmente acquisito nel corso della propria esistenza, quanto quello ereditato dalla classe di appartenenza, che fornisce ai propri figli quel fattore di vantaggio in più, formativo e relazionale, che poi risulta decisivo, più che per le carriere, per il mantenimento della posizione sociale di partenza.
La postura «di sinistra» del ceto medio di Roma Centro-Nord (certificata dalle ultime elezioni comunali) – che diresti totalmente sovra-strutturale, se il mondo post-industriale non avesse operato un fondamentale rovesciamento gerarchico, in cui il ruolo portante lo assume proprio la cultura, che per Marx era solo schiuma – proviene da quei quattro o cinque licei appositamente predisposti per i figli del privilegio, ma tutti con una tradizione studentesca «compagna» alle spalle. È lì che si formava la «sovrastruttura» dell’essere a «sinistra»: non tanto, anzi quasi per niente, a causa delle inclinazioni degli insegnanti e del contenuto dell’insegnamento, che restava quello stabilito dalla fascistico-idealista riforma Gentile, quanto piuttosto per un processo di adesione gregaria attorno a leader studenteschi professanti comunismo soprattutto contro le (non sempre) sparute formazioni neo-fasciste (quelle sempre) presenti in ogni anfratto della Penisola.
Sovrastruttura che, col tempo e con la frequentazione universitaria, si rafforzava, divenendo cultura e identità, cioè modo di vivere e di pensare, più che partecipazione a un progetto di società socialista cui veramente non credeva nessuno, o quasi. Così a Roma Nord si formava la generazione destinata alla continuazione declinante del ciclo di quella borghesia, cui la fase ascendente dei padri aveva garantito privilegi poi a malapena mantenuti dai figli, ma raramente accresciuti. Padri integrati che lavorarono tutta la vita, figli antagonisti e sprezzanti. Padri che nel dopoguerra avevano fatto soldi, figli contestatori del sistema che li spendevano. Poi anche per lo sfumare lento delle convinzioni e delle appartenenze, l’eclissi della politica, l’avvento della disillusione e infine, almeno per noi ex-comunisti romanordini, un confortevole ristagno di incerta durata.
Col passare degli anni riemergono in noi, ben visibili, i dati di appartenenza genetica-culturale-sociale-storica che la sopraggiunta stanchezza nell’esercizio di uno sforzo costante, non solo del dover apparire, ma anche del dover pensare, del dover continuamente formulare un giudizio politico, in definitiva del dover essere di «sinistra», lascia di nuovo comparire con crescente chiarezza. Alla fine è l’essere involontario che è in noi a vincere su tutto il resto.
Riemerge ciò che involontariamente siamo in quanto organismi geneticamente determinati, allevati in uno specifico ambiente urbano (quieto, confortevole, ordinato, socialmente abbastanza omogeneo, dove il disordine ma anche il fermento vitale, della Roma periferica non arrivava, se non come eco letteraria di luoghi selvaggi a noi sconosciuti), in una specifica cultura di decoro piccolo-borghese (contro cui, giovinetti, ci scagliammo) totalmente perbenista, tacitamente laica e dunque, in un paese a maggioranza cattolica, moderatamente progressista. Cresciuti nel conforto e nella convinzione di poter seguire un destino indiscutibilmente segnato, dove una laurea e la successiva attivitàprofessionale erano del tutto sottintesi, in un’Italia dove solo pochi anni prima il Pil aveva toccato un incremento di quasi l’8% annuo, non avemmo dubbi sulla nostra assunzione nei ranghi della classe dirigente. Se poi le cose economico-politiche andarono diversamente, ciò non toglieva che quel ruolo, sia pure declassato, ci venisse assegnato egualmente (di solito con funzioni marginali) e col nostro totale, anche se non troppo apertamente manifestato, consenso.
Fallimento storico di una generazione, si dice. È vero, ma è anche vero che tutte le generazioni falliscono. E poi: è migliore una borghesia capace di allevare un buon numero di individui che, sia pure tra mille contraddizioni e ambiguità, si fanno attenti al destino delle classi subalterne e che («tradendo» gli interessi della propria) ne sposano consapevolmente la causa, oppure una borghesia interamente di merda, chiusa in se stessa e nei circoli sul fiume, che alleva giovani destinati ad essere stronzi per tutta la vita perché convinti che i loro privilegi gli spettino?
Oggi, dopo tanti anni, quest’appartenenza bio-culturale romanordina si rifà viva. Nel volto si rafforzano i tratti somatici genitoriali o del nonno/della nonna, se furono loro ad averci maggiormente marcato. Riaffiorano nella lingua – che rivendica il suo essere madre antica non rinnegabile – accenti e modi di dire tipici dei lessici famigliari di appartenenza. Basta un attimo di sorveglianza allentata, vale a dire quando sulle nostre facciate si delineano le nervature originarie, perché ricompaiano parole mai del tutto domate, assieme al non-pensare avito, che, per chi è nato borghese/piccolo-borghese, è puro essere sociale. È come se si rifacesse vivo, ma in posizione difensiva, il privilegio in cui siamo vissuti e che abbiamo sempre negato in un (da noi) supposto tradimento di classe – sincero certamente ma non fino in fondo, non sapendosi in realtà definire con chiarezza quel fino in fondo se non con il destino di coloro che uscirono dalla politica e, in un estremo atto di coerenza, presero le armi.
E anche soltanto nel sintagma fino in fondo applicato alla politica riappare il nostro novecentismo e, nella sua comicità, l’antico dilemma dell’essere stati o no integrati. In età avanzata la nostra classe sociale di origine ci riagguanta, perché in un presente che ci appare fin troppo comprensibile, hanno la meglio i riflessi condizionati, le reazioni mentali e linguistiche istintive, veloci, anzi fulminee, proprio in quanto facili. Si tratta di vecchi moduli cognitivi prefabbricati che sono restati lì per tanto tempo in attesa di essere sostituiti da un nuovo modo di acquisire la realtà che non è mai veramente arrivato. Dunque ecco ritorna a esserci (dis)utile, non solo l’imprinting genitoriale (in alcuni di noi particolarmente marcato, in uno strano orgoglio tardivo a dirci quanto era colto il nostro papà e quanto buona comprensiva intelligente spregiudicata coraggiosa e bella la mamma), ma anche soprattutto l’eterno umanesimo del liceo, a cui ci siamo veramente formati e che alla fine la vince sulla scienza come su Darwin e Marx.
Nelle case, dove stancamente ci si incontra in una rotazione di cene settimana dopo settimana, riaffiorano sempre più forti i tratti di formazione individuale che, nel nostro voler essere qualcosa di diverso da ciò che eravamo, sono rimasti in sonno magari per mezzo secolo. O forse si trattò di un nostro voler piegare ciò che eravamo (e ancora siamo) a una condivisione etico-politica che per un certo tempo riuscì a tenere a bada il nostro essere sociale di partenza (e in generale di arrivo: è difficile perdere i privilegi di nascita, anche quando si tratta di poca cosa, di robetta piccolo-borghese, così come è difficile prendere sul serio gli eventuali privilegi acquisiti/conquistati nel nostro cursus vitale tardo-occidentale…).
Del resto perché ancora tenersi aggrappati a un sentire che non c’è più, che anche in noi è del tutto svanito, lasciandoci dentro una specie di traccia omeopatica, come una scia molecolare tecnicamente ininfluente, che ormai ci fornisce solo il fantasma di un’appartenenza politico-ideologica a qualcosa che non è più? E soprattutto: cosa siamo stati? Cosa abbiamo contribuito a determinare dello stato presente? Perché siamo quasi tutti ancora vivi? Cosa abbiamo reciprocamente da dirci che veramente ci interessi? Cosa da dire a eventuali e giovani soggetti terzi, come per esempio la popolazione scarsa di numero che abbiamo contribuito a generare, allevare, educare, e che oggi è completamente indifferente a tutto ciò che a noi appare importante?
Se una generazione, la nostra, si accorge che la generazione successiva non si interessa minimamente agli elementi che compongono il suo (usurato e compromesso) sistema di «valori» e che anzi mal sopporta la prolungata esistenza in vita di padri e madri, che dovrebbero cominciare a togliersi di mezzo invece di succhiare ricchezza che un sistema in crisi produce sempre di meno: se dunque vede nei propri figli dei non-oppositori, dei non-innovatori e neanche dei continuatori della cultura che ha cercato di trasmettere: se (sicuramente sbagliando) una generazione vede in quella successiva soltanto un competitore per le risorse, cosa può fare se non suicidarsi in stanche conversazioni post-cena – quando cibi e vini accuratamente cercati, scelti e preparati, iniziano la loro silenziosa azione sui cicli vitali quasi mai del tutto sani dei commensali – nel decoro e nella quiete di soggiorni ben arredati che quei figli, tutto sommato non così mal messi, erediteranno?
Fonte: Le parole e le cose
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.