La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 25 ottobre 2016

Educati alla guerra per nazionalizzare l’infanzia. Dai tamburi al silenzio (1911-1945)

di Marco Ambra 
Tanti e ben documentati sono ormai gli studi che, sul filone inaugurato da George L. Mosse, si sono soffermati sulla nazionalizzazione delle masse come processo fondante e fondamentale del nation building europeo alla fine del XIX secolo. In questa mole di saggistica storiografica una trattazione particolare meriterebbe l’infanzia in quanto soggettività in fieri dei processi di nazionalizzazione e, in particolare, l’infanzia italiana, se non altro perché, a causa del ventennio fascista, il processo che la coinvolse fu uno dei più intensi e duraturi di tutta Europa.
È in questo solco, già scavato e approfondito da Antonio Gibelli, che si colloca Educare alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento(ombre corte, Verona 2016) dello storico dell’educazione Gianluca Gabrielli, testo che accompagna e illustra una mostra fotografica.
Il volume di Gabrielli abbraccia un arco temporale di 34 anni (1911-1945), dalla guerra coloniale in Libia alla fine del secondo conflitto mondiale, e si avvale di una variegata tipologia di fonti – dalle pubblicazioni per l’infanzia alla diaristica, dalle illustrazioni sui quaderni scolastici, alle réclame dei ricostituenti, dalle fotografie scattate nell’ambiente familiare alle foto di classe delle scuole del Regno – per far emergere in maniera molto netta la centralità del ruolo della scuola nel processo di nazionalizzazione dell’infanzia. Come ha osservato Gibelli, nel periodo compreso fra la crisi dell’Italia liberale e il consolidamento del regime fascista, si fa sempre più stringente la mobilitazione dell’infanzia all’interno dell’orizzonte di senso della guerra nazionalista, «si passa dalle forme tradizionali di lettura e scrittura che ruotano attorno all’amor di patria, all’attivazione su larga scala di un flusso di corrispondenza tra scolari e soldati, dalla coltivazione discreta, mediata del sentimento patriottico all’attribuzione diretta agli scolari di compiti di mobilitazione e di sostegno organizzato che prelude alla loro incorporazione virtuale nell’organizzazione militare» (A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande guerra a Salò, Einaudi, Torino 2005, p. 12). Osservando da vicino questo passaggio Gabrielli si concentra sulla forza che l’immaginario bellicista giocò sulla quotidianità di migliaia di bambini e bambine. Dopo l’avventura coloniale in Libia, la guerra «fu insegnata e additata come luogo simbolico e concreto di realizzazione più piena dell’individuo, entrò nelle scuole e nel tempo libero, nei pensieri e perfino nei desideri dei ragazzi e delle ragazze» (p. 8).
La scuola pubblica italiana accolse il veleno dell’immaginario bellicista in maniera ricettiva, se si escludono le voci ostinate e contrarie di alcuni insegnanti socialisti e anarchici, operando una funzione di sintesi simbolica fra l’entusiasmo patriottico, che nell’Italia postunitaria veniva invece associato ai valori di una ritrovata pace interna, e l’ideologia della guerra nazionalista e colonialista. Tale funzione si esplicitò in maniera pervasiva con la mobilitazione totale determinata dall’ingresso del Regno d’Italia nella Grande guerra. Gabrielli sottolinea come nel triennio dal 1915 al 1918 la situazione della quotidianità infantile si collochi nel costituirsi di un fronte interno in cui lo sforzo patriottico viene esaltato agli occhi dei minori attraverso l’ideologia della parsimonia e del sacrificio da un lato, e nelle gesta dei “monelli patriottici” che trovano spazio nelle pubblicazioni per l’infanzia dall’altro.
La mobilitazione dell’infanzia nella Grande guerra venne corroborata dall’intervento scolastico curricolare ed extracurricolare, come mostra il testo della Circolare Ministeriale del 31 dicembre 1917 che prescrive una serie di attività di supporto al fronte da lontano ( ad esempio l’assemblaggio di “scaldaranci” per i soldati) e di approfondimento dei ritornelli propagandistici nelle attività di lettura dei libri di testo e di composizione scritta. Gabrielli mette in luce come questa esuberanza del raggio d’azione della scuola, la sua uscita dai confini attinenti a temi meramente educatici e didattici, fosse già in atto da prima del triennio 1915-1918 ma che solo con l’ingresso in guerra dell’Italia questa direzione di sviluppo dell’istituzione scolastica subì una torsione in senso eminentemente nazionalistico.
La costituzione del regime fascista e il suo consolidamento fino alla guerra coloniale d’Etiopia (1922-1935) trovarono dunque un’istituzione scolastica già pronta a trasmettere e imporre all’infanzia nazionale i temi del patriottismo bellicista. In tal senso il fascismo operò rispetto all’infanzia in un orizzonte di continuità con il passato: l’ingresso a regime della riforma firmata da Giovanni Gentile (1923) è coerente con i principi patriottici dell’interventismo e del culto delle vittime della Grande guerra quale mito originario del fascismo stesso. Questa continuità venne esaltata tanto nei libri di testo quanto nelle attività prescritte dai Provveditorati (saluto alla bandiera, costituzione e manutenzione di “Parchi della Rimembranza”).
Il vero elemento di discontinuità, o meglio il vero salto di qualità imposto dal fascismo, fu invece l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla (1926). Essa rappresentò il tentativo del regime di fascistizzare l’infanzia, di creare l’ “uomo nuovo” fascista e la “donna italiana” madre e crocerossina, il futuro soldato delle guerre mussoliniane e la futura incubatrice della nazione, educati al gioco della guerra, della cura della famiglia e al senso di un’obbedienza cieca e gerarchica.
A tal proposito, uno degli aspetti più interessanti del libro di Gabrielli sta nella connessione paradossale che egli individua fra gli sforzi del regime per imporre questo senso della gerarchia – come si evince dal feticismo della divisa che trasuda dalle foto di bambini vestiti da balilla che i genitori inviano ai settimanali più popolari per la pubblicazione – e l’esaltazione di un’infanzia vitalistica e “monella”, incarnata da personaggi letterari come Il piccolo alpino di S. Gotta (1926) o il Balilla Vittorio di R. Forges Davanzati (1930), i quali non esitano a trasgredire ordini e consegne per dare il proprio contributo alle guerre patriottiche e coloniali.
Secondo Gabrielli un ulteriore salto di qualità è prodotto dalla guerra coloniale in Etiopia (1935), preparata a scuola dall’introduzione, nelle scuole secondarie, di una nuova disciplina: “Cultura militare”. Questo passaggio introduce due ulteriori novità rispetto all’immaginario bellicista cavalcato fino a quel momento. In primo luogo si potenzia il curricolo razzista della scuola italiana, già introdotto nel ventennio precedente dalla guerra in Libia, attraverso una narrazione fiabesca della guerra coloniale, presentata agli scolari e alle scolare come una missione civilizzatrice ed emancipatrice di una razza inferiore. In secondo luogo fa la sua comparsa in maniere vistosa, con la presenza in classe di maschere antigas, la necessità di preparare l’infanzia all’eventualità di una prolungata guerra difensiva. Novità quest’ultima che preconizza la quotidianità dell’infanzia durante il secondo conflitto mondiale, caratterizzata da privazioni materiali nell’alimentazione, presenza inquietante di bombardamenti (si pensi all’episodio tragico della scuola di Gorla su cui tanto revisionismo fascistizzante ha speculato) e attività di mobilitazione già viste all’epoca della Grande guerra, come attestano le Circolari Ministeriali del 1941.
Da questo incantesimo l’infanzia uscirà proprio attraverso la cruda esperienza della guerra in casa, per le strade, a scuola. Un disincanto traumatico, come il risveglio da un sogno torbido e accattivante (si veda il viso contrito del piccolo balilla che non saluta più il duce in questo video di propaganda degli Alleati) e che nella scuola repubblicana del dopoguerra «lasciava il posto ad un silenzio imbarazzato» (p.125).

Fonte: lavoroculturale.org 

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