di Luigi Manconi e Federica Graziani
Esattamente nove mesi fa, la sera del 25 gennaio del 2016, iniziava la lunga agonia di Giulio Regeni, rapito torturato e infine ucciso al Cairo. Ci chiediamo oggi dove ci abbiano condotto questi nove mesi, quali risposte abbiano offerto, di quali e quanti mezzi siamo stati capaci di dotarci – le istituzioni italiane, il governo, l’opinione pubblica – perché la ricerca della verità non si arenasse. Insomma, cosa abbiamo fatto, e cosa ha fatto in particolare l’esecutivo, per fronteggiare l’enormità di una tale tragedia?
Com’è noto, l’8 aprile scorso il ministero degli Esteri ha richiamato in Italia Maurizio Massari, l’ambasciatore italiano in Egitto. Risale, quindi, a oltre sei mesi fa l’unico atto effettivamente significativo del nostro governo, segno di un atteggiamento di forte critica nei confronti del regime egiziano. Ma, dopo quella importante misura, il governo non ha assunto alcun altro provvedimento, non ha intrapreso nuove azioni, non ha promosso iniziative efficaci. Neanche una serie di disposizioni economiche, commerciali e culturali, ma anche turistiche e sportive, che erano state ripetutamente adombrate. E che sarebbero valse a manifestare incisivamente che la critica dei connotati dispotici e illiberali del regime di Al-Sisi può tradursi in forme di pressione democratica e pacifica.
E perché si continua a esitare? Perché si è consentito che si instaurasse e si perpetuasse un clima di torpida ordinarietà, quasi che nulla di tragicamente e straordinariamente grave fosse accaduto? Perché quella sostanziale normalizzazione dei rapporti tra Italia ed Egitto – mentre quel regime continua oltraggiosamente a negare una seria cooperazione – deve essere accettata come inevitabile e quasi fatale?
La risposta consiste, forse, nell’atroce complessità delle questioni che quella morte – una singola morte – richiama. «Il volto di Giulio era diventato piccolo, piccolo, piccolo. L’abbiamo riconosciuto dalla punta del naso. Nel suo viso abbiamo visto tutto il male del mondo». Forse sta davvero qui, nelle parole pronunciate il 29 marzo scorso, durante una conferenza stampa in Senato, da Paola e Claudio Regeni, una spiegazione possibile. Il «male assoluto» è l’esercizio della tortura quale metodo violento di governo. E il ricorso a quello strumento non significa solo mortificazione dei corpi, mutilazione degli arti, deterioramento degli organi, spregio e sfregio di pelle, ossa, volti, genitali: la tortura è anche e soprattutto annichilimento della personalità e degradazione dell’identità dell’individuo. Un metodo violento di governo (fino all’ extraordinary rendition) previsto – o non escluso e comunque tollerato – come sistema di controllo dei conflitti quando rischiano di compromettere l’ordine sociale e le consolidate relazioni tra gli stati.
Di conseguenza, «la verità» su vicende come quella di Giulio Regeni, può costituire un fattore destabilizzante e risultare massimamente pericoloso sia all’interno della dialettica politica dei singoli Paesi, sia nelle relazioni internazionali. Ecco perché l’iniziativa dei familiari di Giulio Regeni risulta, allo stesso tempo, così dirompente per la sensibilità collettiva e così inascoltata da parte delle istituzioni statuali. Quel percorso emotivo e politico che va dallo strazio appartato e intimo, devotamente accudito, di Paola e Claudio Regeni fino alla forza dirompente delle parole da loro pronunciate pubblicamente, hanno tenuto viva sinora la memoria di Giulio e di quei tantissimi egiziani che hanno patito o patiranno la stessa sorte.
E qui azzardiamo un’ipotesi indimostrabile ma non per questo meno inquietante. Non si può escludere che nell’atteggiamento del governo italiano, prudente fino all’inerzia, pesino altre considerazioni oltre quelle relative al ruolo geo-strategico dell’Egitto verso Daesh, e all’appartenenza alla medesima alleanza politico-militare; e oltre quelle relative alla consistenza degli interessi economici e commerciali. E’ possibile che, nell’inconscio del governo e della classe politica (anche loro ne hanno uno) operi un sottile senso di colpa.
Ventotto anni fa l’Italia sottoscriveva la Convenzione dell’Onu contro la tortura, che oggi ancora aspetta la sua attuazione, dal momento che nel nostro ordinamento giuridico la tortura come fattispecie penale non è stata mai introdotta. Questo contribuisce a spiegare la gracile autorità morale (e una sorta di sudditanza psicologica) che l’Italia e le sue istituzioni tradiscono quando sono chiamate a pretendere il rispetto pieno e incondizionato dei diritti fondamentali della persona da parte di Paesi ostili, così come di quelli alleati.
Fonte: Il manifesto
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