La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 26 ottobre 2016

La buona volontà del post-docente. Notizie dalla scuola ad uso di chi vive nel mondo là fuori

di Daniele Lo Vetere
Con un poco (più) di zucchero la pillola va giù
Settembre è il mese più crudele. Le nuove classi le stai ancora soppesando di sottecchi, le vecchie ancora non si sono riprese dalla sacrosanta apatia estiva, e ti tocca farti volenteroso architetto dell’anno scolastico: sarai fattivo nella riunione di Dipartimento? Sarai collaborativo nel Consiglio di classe? Ti sei ricordato di segnare in agenda, con colori diversi, la riunione sui BES e i DSA? «Collega, tu non fai come quegli altri, vero, verrai al GLIC?». «Sì, verrò». «Ah, grazie, grazie!». «Dovere, dovere».
Ma, come è giusto in un’organizzazione complessa della società della complessità, esiste un’ordinata gerarchia delle sigle e tutti gli impegni-acronimi si riassumono in uno: approvazione del POF, Piano dell’Offerta formativa. Va detto che con il POF si rivede ogni anno il nuovissimo Piano triennale dell’offerta formativa ovvero PTOF (dio egizio o nibelungico, a seconda degli interpreti).
Il Collegio dei docenti di revisione del PTOF (quattro ore e mezza, quest’anno) incombe sui docenti con un senso di ansia e ineluttabilità da profezia di Nostradamus: forse, non approvando il POF (pardon: non rivedendo annualmente il PTOF), la realtà scomparirebbe, il mondo ammutolirebbe. In effetti le attività e i progetti non “inseriti”, cioè linguisticamente non proferiti (nel Piano), non esistono (nella realtà). Nel senso che non si fanno. Scordateli. Se sono assenti nella programmazione del POF (ri-pardon: del PTOF annualmente rivisto), non si fanno nemmeno nel Dipartimento disciplinare. E se sono assenti nella programmazione del Dipartimento disciplinare, non si fanno nemmeno nel Consiglio di classe. E se sono assenti nella programmazione del Consiglio di classe, guai a te, docente, se ti viene in mente di inventare qualcosa a marzo. Certo, puoi sempre e solo fare quello che più conta: la tua materia in classe. Ma è ovvio. E l’ovvio stucca.
Naturalmente per tutto questo ci sono anche delle buone ragioni. Se non si programma, poi si improvvisa; se non si prevede e coordina, poi ognuno fa la biglia impazzita; se non rendiconti, non puoi pretendere che ti finanzino.
Peraltro, ti finanziano con denaro pubblico e renderne conto è, ancor prima che un dovere amministrativo, un imperativo etico. Finanziamento, sia chiaro, è un parola grossa: per i progetti ordinari siamo all’argent de poche. Sono invece decisamente corposi i finanziamenti da PON e da qualche recente Piano ministeriale, come la Scuola digitale, la Scuola al centro, … Ma questi fondi sono erogati secondo la logica dell'”autonomia scolastica”, che da un altro punto di vista potrebbe dirsi della competizione: se li aggiudicano solo alcune scuole ed essi sono, ovviamente (e giustamente: non si spreca denaro pubblico), vincolati agli obiettivi ministeriali o europei. Le scuole che si aggiudicano i finanziamenti non sono necessariamente delle eccellenze: sono quelle che hanno la fortuna del tutto gratuita di avere fra i propri docenti uno o due volenterosi, che, per qualche centinaio di euro in più all’anno, accettano di sacrificarsi per il bene della comunità scrivendo complicati progetti per i bandi. Il Caso, altro che il Merito, è il dio della scuola. Oltre a PTOF, naturalmente.
Ma, insomma, mettiamo da parte l’ironia: programmare è importante. Anche io presento i miei progetti a inizio anno. Sforo sempre di qualche giorno la scadenza (ma in Italia siamo elastici), per la mia personale distrazione, ma i moduli li consegno, e compilati per bene. Non voglio complicare la vita alla collega che li deve collazionare, poi voglio che si sappia per cosa vengo finanziato (poco, sia chiaro).
Così, anche quest’anno, ho consegnato i miei bei moduli. Questo il “modello unitario”:
Titolo del progetto
Docente referente
Altri docenti coinvolti nel progetto
Enti o esperti esterni da coinvolgere
Classe/i a cui è destinato il progetto
Finalità (indicate sinteticamente)
Descrizione sintetica delle attività
Tempi di realizzazione
(Mattina o pomeriggio?
Per quante ore? In quale periodo dell’a.s.?)
Eventuali altre annotazioni/segnalazioni
Ma proprio quest’anno è successo qualcosa. Dal 2014 le scuole devono compilare non solo il POF (ri-ri-pardon: la revisione annuale del PTOF), ma anche il RAV e il PDM, il Rapporto di autovalutazione e il Piano di miglioramento. Strumenti, questi – dicono i Piani, triennali e non, del Miur (e poi i Decreti, e poi le Circolari, e poi le Note di chiarimento alle Circolari) – che aiuteranno la scuola a diventare un'”istituzione riflessiva”. Il RAV e il PDM, come si intuirà dai nomi, parlano, oltre all’immarcescibile burocratese, una lingua ben precisa: la lingua della “valutazione di sistema”.
La “valutazione di sistema” è quell’entità impalpabile impegnata nel compito demiurgico di creare un metarealtà a partire dalla quale misurare la realtà: i suoi stati d’ingresso, i suoi stati di avanzamento, i suoi stati terminali (“stati”, con la T); le risorse umane, finanziarie, logistiche, necessarie; i criteri con i quali misurare i suddetti stati e le suddette risorse, i criteri con i quali stabilire i criteri, e i criteri con i quali stabilire i criteri dei criteri. E così via.
Come dicevo, quest’anno, purtroppo, l’attenzione della collega-collettrice di progetti, che è fra le persone più organizzate e volenterose della mia scuola, ha vacillato e le è sfuggito che esisteva un nuovo modello più in linea con il nuovo linguaggio: per nostra disgrazia, quando ormai i progetti erano già stati consegnati. Eccolo (in grassetto le voci più notevoli):
Denominazione progetto
Referente/i
Obbiettivo formativo cui si riferisce
Situazione su cui interviene
Attività previste
Risorse finanziarie necessarie
Risorse umane (ore) / area
Altre risorse necessarie
Indicatori utilizzati
Stati di avanzamento
Valori / situazione attesi
Era venerdì, ma il famoso Collegio apocalittico incombeva: entro sabato sera (sabato sera…), occorreva rispedire il progetto già spedito usando il nuovo modello.A questo punto la mia buona volontà di programmare e rendicontare l’uso del denaro pubblico ha vacillato a sua volta e mi sono rifiutato di ricompilare il modulo, anche a costo di ritirare tutti i miei progetti: «situazione su cui interviene»? «indicatori utilizzati»? «stato di avanzamento»? EH?!
Qualcuno esclamerà: la burocrazia, Kafka, il Castello! Sì, anche io lo faccio spesso. Solo che mi tocca aggiungere che la colpa dell’adozione di quel modello è mia. È evidente che la provenienza sia ministeriale, ma le scuole hanno la facoltà di “declinare” i modelli secondo le proprie esigenze, purché si rispettino gli scopi che il legislatore ha inteso dare al PTOF, al POF, al RAV, al PDM. Bene, l’anno scorso mi è sfuggito di aver votato insieme a tutti i miei colleghi il nuovo modello. Francamente non so dire quando e come, ma così è: dunque, io sono K. e simultanemente il funzionario del Castello, io sono il mio stesso carnefice del sabato sera, io non sono altro che il transitorio vaso di elezione di uno Spirito dell’Organizzazione che spira dove vuole e che parla il suo linguaggio per mia bocca.
Molti fra i più ottimisti o sensati fra di noi, e io stesso nei miei momenti di ottimismo e buon senso, ci ripetiamo: basta prendere quel che c’è di buono da quanto il Castello ci impone di fare, perché del buono c’è sempre (e basta ignorare quello che ti dice il collega che ha insegnato anche in Germania e che racconta che lì i Consigli di classe, gli scrutini, le mille relazioni, mica ci sono, fanno solo i docenti, eppure funziona lo stesso. Ma è la Germania, via: lì gli insegnanti valgono quanto li pagano).
Insomma, perché i compiti burocratici non restino tali, ma arrivino a mordere almeno un po’ la carne della realtà, basterebbe solo: prestare un poco più di attenzione quando si vota in Collegio, in Dipartimento, in Consiglio; avere un poco più di buona volontà nel “declinare” secondo le esigenze locali di autonomia di ciascun istituto gli “ovviamente” troppo astratti e generici Piani, Decreti, Circolari, Note di chiarimento alle Circolari; organizzare, programmare, progettare, prevedere con un poco più di scrupolo. Ancora un poco di più, fino all’invenzione della prossima sigla e del prossimo impegno collegiale. Perché, in effetti, lo scrupolo è un asintoto, tende all’infinito. E, d’altra parte, chi non si riforma è perduto.
Formarsi, aggiornarsi, riformarsi, riaggiornarsi: il disco rotto della formazione dei docenti
Il 3 ottobre 2016 dal Castello è arrivato, fresco di stampa, un Piano triennale di formazione dei docenti per il triennio 2016-2019. Il Piano parla così:
"È dunque importante costruire e utilizzare strumenti ed indicatori che consentano di garantire la qualità dell’intero ciclo di vita del ‘processo formativo’, a partire dalla progettazione fino agli esiti a lungo termine in relazione agli apprendimenti (non solo “disciplinari”) degli allievi, e che siano quindi rappresentativi di standard didattico-metodologici, organizzativi, di progettazione, di costo. Gli standard, organizzati come ‘checklist progressiva’, rappresentano un insieme di indicatori che consentono di mappare le caratteristiche di qualità ed efficacia delle iniziative formative. Un sistema di indicatori permetterà di monitorare al meglio l’andamento e i risultati degli investimenti sul capitale umano della scuola"
Ci sono molte cose in questo Piano, e alcune non saranno certo da buttare, eppure…
Stando al suo dettato, la scuola dovrebbe diventare un «ambiente di apprendimento continuo». Questa foia cognitiva indirizzata ai docenti fa il paio con la simmetrica foia indirizzata agli studenti, i quali, si ripete ormai da anni in Documenti ministeriali e Trattati pedagogici, apprendono costantemente: formalmente, informalmente, non-formalmente; soprattutto assorbono informazioni dalla Rete neanche fossero spugne di mare. A questi nuovi mutanti, va da sé, vanno strette le mura della scuola, che dovrebbero essere abbattute, per trasformare la scuola stessa in un «hubdella conoscenza», come disse, a suo tempo, un ministro progressista.
Per quanto riguarda i docenti, fra le altre cose, il Piano prevede due strumenti perfetti per creare questo «ambiente di apprendimento continuo»: il «Portfolio» e il «Bilancio delle competenze». Questi due poderosi strumenti sono già in uso da due anni nella formazione dei docenti neoimmessi in ruolo: perciò chi scrive, in ruolo di recente, ha già avuto modo di scoprirne le miracolose virtù nel trasformare docenti inconsapevoli in docenti riflessivi, docenti autistici in docenti collaborativi, docenti disciplinaristi in docenti 2.0.
Ricordo ancora con nostalgia quel maggio di due anni fa: la ricerca della connessione nei locali pubblici (perché i minuti della disgraziata chiavetta internet erano già finiti), l’accesso alla Piattaforma Indire sul mio account personale, gli esercizi spirituali davanti alla macchina:
"Ritieni di saper predisporre delle situazioni nelle quali gli allievi siano messi nelle condizioni di utilizzare le risorse possedute (conoscenze, abilità, pensiero strategico, routine…) per affrontare positivamente dei problemi complessi?"
“Osservare e valutare gli allievi secondo un approccio formativo”. Si prendano in esame da un minimo di uno ad un massimo di tre descrittori, spuntandoli dalla lista che segue. Con l’aiuto delle domande guida disponibili nel documento “Indicazioni per la compilazione del bilancio di competenze”, si elabori un testo di massimo 2.000 battute, che argomenti e sintetizzi la propria posizione rispetto ai livelli di competenza percepiti. Livelli da considerare: 1) ho l’esigenza di acquisire nuove competenze 2) vorrei approfondire alcuni aspetti, 3) mi sento adeguato al compito.
E io giù a confessarmi, per diventare un “professionista riflessivo”: il destino di ogni insegnante, secondo una voga pedagogica che ho appreso fin dalla Scuola di specializzazione.
La nostalgia però, non ha più ragione d’essere, perché potrò produttivamente impegnare altri pomeriggi della mia vita in queste attività: il Portofolio delle competenze e il Bilancio delle competenze saranno infatti estesi a tutto il personale di ruolo.
La generazione di insegnanti cui appartengo (sotto i 45 anni, grosso modo) è abituata ormai da tempo al disco rotto della formazione: siamo tutti iperformati e ipervalutati (e formarsi costa pure parecchio), ma, chissà perché, sembra sempre che non si sia mai superata alcuna selezione; così che il Castello inventa, ogni volta, nuovi piani rivoluzionari e reboanti. Ho cercato di raccontare questo Eterno ritorno dell’eguale o loop della formazione qui, con un po’ di sale satirico.
Se il mondo fosse abitato dal buon senso, chiunque capirebbe che impegnare le proprie ore nella compilazione di “Bilanci” e “Portofoli”, oltre che essere inutile (e anche parecchio umiliante per l’intelligenza e la cultura di un insegnante) è soprattutto dannoso: perché sottrae tempo per la formazione che conta davvero. Ma così funzionano i progetti di riforma: si manca sempre il bersaglio, che è la realtà impredicabile, e si ricama sui bordi. Fino a che, a furia di ricamare per aggiunta, non si raggiunge il punto di rottura e pure il nucleo della realtà collassa.
«Il mondo esiste… uno stupore / arresta il cuore»
«Di fronte a tutto questo, la resilienza non basta più», mi ha scritto un collega. Ho risposto, baldanzoso: «Infatti è giunto il momento della resistenza». Già, ma che significa resistenza? Quella senza se e senza ma? Conservare tutto così com’è?
In fondo, la risposta non è difficile: basta entrare in classe, cominciare a lavorare, e subito capisci che qualcosa non va. Capisci che sei stato abituato a pensare all’insegnamento della tua materia, l’italiano, come all’insegnamento di “certe poesie di certi autori in un certo ordine”, e invece tu dovresti fare proprio in un altro modo, perché quelle certe poesie di quei certi autori in quel certo ordine sono un libro chiuso e lontano, mentre in questi studenti che ti stanno di fronte è il mondo in cui dovrai agire: mondo che riscopri ogni mattina.
E ti domandi: che rapporto c’è tra quel “libro” e questo “mondo”? (Innazitutto: il rapporto c’è? Sì, lo senti, a volte solo confusamente, ma lo senti, con l’evidenza di una fede). Certo, alcune pagine del libro sono ormai illeggibili, strappiamole. Ma le altre? Come portarle dentro questo mondo, e viceversa?
Vorrei citare un passo del Cortegiano di Baldassarre Castiglione, un testo che apparentemente non avrebbe più nulla da dire agli adolescenti di oggi:
"avete voi posto cura talor, quando, o per le strade andando alle chiese o ad altro loco, o giocando o per altra causa, accade che una donna tanto della robba si leva, che il piede e spesso un poco di gambetta senza pensarvi mostra? non vi pare che grandissima grazia tenga, se ivi si vede con una certa donnesca disposizione leggiadra ed attillata nei suoi chiapinetti di velluto, e calze polite? Certo a me piace egli molto e credo a tutti voi altri, perché ognun estima che la attillatura in parte cosí nascosa e rare volte veduta, sia a quella donna piú tosto naturale e propria che sforzata, e che ella di ciò non pensi acquistar laude alcuna."
A quanti gradi di distanza reciproca si trovano gli adolescenti di oggi e il Cortegiano? Molti. Castiglione parla di «sprezzatura» e di «affettazione». L’affettazione è la finzione di naturalezza e armonia che si tradisce in quanto artificiale; la sprezzatura invece è una naturalezza e un’armonia prodotte grazie all’arte e all’educazione, ma che sembrano (e in un certo senso sono) perfettamente spontanee. Sono forse concetti piuttosto bizzarri al nostro orecchio, o, almeno, ci mancano referenti concreti per comprenderli fino in fondo. Potrei anche chiedere a dei diciassettenni di impararli così come sono, rassicurandoli sul fatto che “prima o poi” questa lezione degli antichi rivelerà loro il suo senso. Oppure posso partire da questo passo, nel quale i due concetti sono immediatamente chiari, credo.
Che cosa succederebbe, in effetti, oggi, se una donna che curi molto il proprio aspetto «un poco di gambetta senza pensarvi mostrasse», rivelando un enorme buco nella calza? Che la sua “costruzione” si sgretolererebbe in un soffio: era affettazione. Se invece l’atto di scoprirsi mostrerà la donna «attillata nei suoi chiapinetti di velluto, e calze polite», l’effetto sarà quello della sprezzatura, «perché ognun estima che la attillatura in parte cosí nascosa e rare volte veduta, sia a quella donna piú tosto naturale e propria che sforzata, e che ella di ciò non pensi acquistar laude alcuna»: l'”arte” e l'”apparenza” non erano finzione, perché sono in armonica corrispondenza con ciò che sta sotto, o dietro, ovvero la “natura” e l'”essere”.
C’è bisogno di dire quanto spazio occupino nella vita di un adolescente il cruccio per l’effetto che la propria “apparenza” produce negli altri, la paura di non essere accettati, la ricerca della propria “natura” tramite vestiti, mode, mimesi? La cosa affascinante è che a partire da questa immediata “prensione” del senso del libro di Castiglione, si potrà spaziare con tutt’altra efficacia dentro la comprensione dell’armonia (o sprezzatura) rinascimentale, partendo da quella dei comportamenti, per arrivare fino a quella dell’architettura e della pittura: un percorso perfettamente, e rigorosamente, storico, in cui il passato è più profondamento compreso perché non è più radicalmente altro rispetto al nostro presente. Oppure, volendo, si potrà restare più prossimi al tema psicologico ed antropologico, riflettendo sul tema dell’essere e dell’apparire, che ha però anche addentellati filosofici e massmediologici.
Ho parlato del Cortegiano non per esibire percorsi peregrini (non ne abbiamo bisogno a scuola), ma per fare un esempio che, proprio perché “estremo”, si presta molto bene a quello che mi preme dire.
La didattica non è un tecnologia da applicare da fuori, come una sorta di armatura, alle materie. La didattica vera, quella disciplinare, nasce dalle materie stesse, per scavo al loro interno. Se in Castiglione non si sa dove né perché scavare, allora si può tranquillamente tralasciarlo: non è imprescindibile. La letteratura è un campo vasto: va da Omero a Bob Dylan. Soprattutto, a scuola, non si fa letteratura: si avvicinano i giovani alla letteratura, che è una cosa un po’ diversa. Se Omero non fa parte del loro mondo, per arrivarci, bisognerebbe partire dalla loro cultura (che, per inciso, non contempla più nemmeno Dylan: ma questo è un altro discorso). La didattica non è altro che il ponte che sta tra loro e Omero: e spetta al docente costruirlo.
Il post-docente
Ma che cosa dovrebbe fare il docente per diventare più competente, secondo il MIUR? Compilare bilanci e portfoli e “tornare dietro ai banchi”, come ha dichiarato la ministra in un’intervista contestuale all’uscita del Piano triennale, rilasciata a Gente (ripeto: Gente). Con quest’ultima dichiarazione, certamente, la ministra intendeva contribuire ad innalzare ulteriormente l’alto concetto che gli italiani hanno dei docenti dei loro figli. Inoltre, in generale, il tenore della dichiarazione dimostra in che termini si pensi di “aggiornarci”: con l’obbligatorietà e con un lieve tono di minaccia.
Ma “tornare dietro ai banchi” a studiare cosa? Queste sono la aree individuate dal Piano:
Autonomia organizzativa e didattica;
Didattica per competenze, innovazione metodologica e competenze di base;
Competenze digitali e nuovi ambienti per l’apprendimento;
Competenze di lingua straniera;
Inclusione e disabilità;
Coesione sociale e prevenzione del disagio giovanile globale [sic. Ma avrei voluto dire: minchia!];
Integrazione, competenze di cittadinanza e cittadinanza globale;
Scuola e Lavoro;
Valutazione e miglioramento.
Si tratta di temi assai eterogenei, alcuni dei quali (tra gli altri, «Coesione sociale e prevenzione del disagio giovanile globale» o «Scuola e Lavoro») risultano francamente bizzarri dentro un piano, ribadiamolo, di aggiornamento dei docenti, non di priorità negli investimenti ministeriali o che so io.
Ma ciò che soprattutto balza agli occhi è che in questo elenco c’è un’assenza che più che rumorosa è clamorosa, strepitante, esplosiva: mancano le materie e la didattica delle materie. Completamente.
La solita astrattezza ministeriale? Forse. O forse no. Forse, invece, siamo di fronte a un cambio radicale di paradigma e l’insistenza a che si superi l’organizzazione per materie e si proceda a passo spedito verso le “competenze trasversali” e l'”interdisciplinarità” si sta infine concretizzando.
In Finlandia ci stanno già provando. Consiglio la lettura di questa intervista alla ministra dell’educazione finlandese, per capire di che cosa stiamo parlando. Si lavora per “situazioni” e “contesti concreti”, che disarticolano definitivamente le materie (scolastiche), ma che, temo, disarticoleranno anche per contagio le discipline (universitarie), non fosse altro che per il fatto che all’università arriveranno studenti con un’idea frammentaria e generica di che cosa siano l’arte, la letteratura, la chimica, la matematica. Ma la Finlandia è un mito e farà scuola. Poco importa che, qualcuno, in quello stesso paese, abbia messo in guardia dall’entusiasmo nell’interpretazione delle favolose competenze matematiche degli studenti finlandesi: è molto difficile, in una società ossessionata dai dati statistici e dalle misurazioni, intavolare un discorso spassionato sulla loro interpretazione. I dati son dati, il nuovo ipse dixit. Naturalmente la ministra finlandese si difende dall’accusa di minacciare, con questa riforma, l’integrità delle materie. Ma i politici saranno pur sempre politici anche in Finlandia, no?
Ora, è verissimo che il sapere è unitario e l’interdisciplinarità sarebbe l’ideale dell’apprendimento, ma è pur vero che l’interdisciplinarità spesso è un mito anche nel mondo accademico e fra adulti. Sembra perciò quanto meno azzardato pensare che essa possa essere adddirittura costruita in una didattica student-centered da ragazzi di sedici anni, come anche dai loro stessi docenti. Io ho sempre avuto una qualche propensione e passione per la filosofia e non dico che qualche collegamento esplicito con la letteratura, su cui poi mi sono specializzato, mi sarebbe dispiaciuto sentirlo già al liceo; però, se i “collegamenti” so farli ora, è perché ho studiato la letteratura e la filosofia, ciascuna per sé. Insomma, sembra davvero difficile pensare che una interdisciplinarità in erba non abbia alcuna conseguenza sulla struttura e organicità delle materie.
E che fine finiranno le discipine? Chi lo può sapere. In ogni caso, a me pare che si tratti di una novità assoluta nella storia. I saperi non saranno superati perché messi in crisi da saperi più avanzati o perché si inabissa la civiltà che li esprime: saranno liquidati per forza di organizzazione.
D’altra parte, poiché il non plus ultra dell’innovazione didattica è insistere sull’addestramento nelle soft skills, le competenze trasversali, che formano persone capaci di problem posing e problem solving, di agilità mentale, di flessibilità e adattabilità ai contesti, si capisce come il Governo centrale finlandese abbia imposto dall’alto un curriculum nazionale a un sistema che aveva un’alta autonomia locale. E si capisce anche bene perché le discipline e le materie non servano più.
Oppure immaginiamo che i finlandesi davvero riusciranno nell’impresa di salvaguardare materie, discipline, competenze trasversali, interdisciplinarità. (Sembrano in gamba, in effetti). Di chi avranno bisogno per questa mission? Di docenti culturalmente e didatticamente agguerritissimi: infatti solo chi padroneggia molto bene la propria materia (e le discipline che la costituiscono) è davvero in grado di coglierne i nessi (fondati, non superficiali) con altre materie. Immaginiamo anche che in Finlandia formino, selezionino, reclutino i docenti secondo i migliori criteri, tanto che ad essi si può riconoscere (come in effetti avviene in Finlandia) notevolissima autonomia, perché ci si fida di loro. E in Italia?
In Italia, gli insegnanti, scarsamente autonomi perché scarsamente considerati dal loro stesso datore di lavoro, che vorrebbe farne addirittura dei professionisti riflessivi ma continua a trattarli da impiegati tonti, “torneranno dietro i banchi” ad ascoltare corsi sulle nove aree di aggioramento individuate dal Miur. Quando potranno approfondire la conoscenza delle proprie materie fino al punto di gettare mirifici ponti verso le altre materie, è un mistero della fede della Burocrazia e dello Spirito dell’Organizzazione.
Sic stantibus rebus, il futuro più probabile è questo: finita l’epoca dei docenti di italiano, matematica, scienze, filosofia, arte, inizia l’epoca dei docenti di competenze, di inclusione, di autonomia, di coesione sociale. L’epoca del post-sapere e dei post-docenti.
Ciascuno capirà da sé se tutto questo è compatibile con il mondo cui pensa, poveretto, quello che legge ancora Castiglione per farlo a scuola. Con tutta la sua buona volontà di non essere oppositivo verso il sistema e gli sforzi per farlo funzionare accettandone la logica, di fronte a un mondo post-letterario e post-disciplinare, quel professore riesce a immaginare solo due risposte: la contestazione radicale o la sopravvivenza residuale dentro quei «sottopassaggi, cripte, buche, nascondigli», che, secondo Montale, sfuggono alla «ruspa della storia».
Fonte: Le parole e le cose 

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