di Olmo Viola
I giovani ricercatori sono coloro che oggi gettano le basi del futuro della nostra società. È a partire dalle loro ricerche che si può tentare di risolvere i problemi che oggi ci affliggono (inquinamento, questione energetica, miglioramento del sistema sanitario e delle cure, depauperamento delle risorse alimentari ed ecologiche, desertificazione, ecc.). Questi non possono non essere affrontati proprio attraverso schiere di giovani scienziati ambiziosi e creativi, intraprendenti, concentrati sui propri obiettivi e consapevoli del valore sociale della propria impresa.
Nonostante costoro rappresentino la chiave di volta del nostro futuro, attualmente non vengono gratificati come certe altre categorie, né ricompensati come broker di borsa, né, banalmente, facilitati nel loro lavoro. Quotidianamente sono costretti ad affrontare sfide estenuanti.
Nonostante costoro rappresentino la chiave di volta del nostro futuro, attualmente non vengono gratificati come certe altre categorie, né ricompensati come broker di borsa, né, banalmente, facilitati nel loro lavoro. Quotidianamente sono costretti ad affrontare sfide estenuanti.
La rivista Nature[1] ha dedicato uno speciale proprio ai problemi che affliggono i giovani ricercatori, tentando di metterne a fuoco le difficoltà. Un primo ostacolo, che fin da principio intralcia le carriere di ambiziosi scienziati, è ottenere i fondi. I finanziamenti alla ricerca non sono cresciuti negli ultimi anni[2], anzi, in alcuni paesi sono addirittura diminuiti (lasciamo stare il caso italiano, per amor di patria). Al contempo il numero di PhD nel mondo è salito e questo fa si che più concorrenti debbano competere per spartirsi meno risorse. Il sistema è diventato più violento e le possibilità di successo sono diminuite. A questo va aggiunto il fatto che la competizione molto spesso si rivela ingiusta a priori, perché giovani ricercatori, appena terminato il proprio percorso di studi, si trovano costretti a competere per lo stesso finanziamento con ricercatori più anziani, già affermati ed esperti delle pratiche burocratiche, i quali attraggono la maggior parte dei finanziamenti[3]. I ricercatori oggi affermati, che sono stati introdotti nel contesto della ricerca venti o trenta anni fa, hanno iniziato la loro carriera all’interno di un contesto più rilassato e hanno potuto avviare ricerche produttive maturando esperienze che ora permettono loro di partire avvantaggiati nella competizione per i fondi di ricerca. Ne consegue che uno dei più grandi ostacoli al successo dei giovani siano i vecchi scienziati, non perché facciano nonnismo, bensì per la mera competizione sui fondi. Parallelamente molti giovani si lamentano del poco aiuto ottenuto in fase di preparazione alla competizione, come se fossero abbandonati in una foresta senza bussola. Il tasso di successo per un finanziamento di un giovane ricercatore risulta dunque inferiore rispetto a quello di scienziati più anziani. L’età media alla quale uno scienziato ottiene il suo primo grande finanziamento risulta essere 42 anni, e questa è salita negli ultimi trent’anni.
La lotta costante costringe i giovani a dedicare una parte abbondante delle loro risorse e del loro tempo all’elaborazione di progetti con cui partecipare a bandi per finanziamenti. Questo compromette tempo e risorse che essi possono dedicare alla vera ricerca, rallentandone la “produzione”. Risulta che un ricercatore appartenente al mondo dell’accademia dedica solo il 40% del proprio tempo alla ricerca, il resto è dedicato all’insegnamento, alla scrittura di articoli, all’elaborazione di progetti per bandi, a questioni amministrative e burocratiche. Alcuni ricercatori arrivano a lavorare più di 60 ore la settimana e trovano difficilmente conciliabile tale esistenza con qualsiasi altro tipo di attività extra-scientifica. Inoltre l’ottenimento di un finanziamento non è garanzia di tranquillità. Nella maggior parte dei casi i fondi sono a tempo determinato e i gruppi di ricerca vivono in continua tensione, sulla lama del rasoio alla ricerca di fondi. Il che ovviamente non contribuisce per nulla a rasserenare l’ambiente di lavoro.
Un’ulteriore difficoltà che appesantisce il lavoro dei giovani scienziati è connessa alle modalità di valutazione del proprio lavoro e delle proprie capacità. I criteri valutativi usati dalle istituzioni, dalle commissioni di valutazione, sono fondamentali per decidere se un soggetto merita di essere finanziato, o se merita di essere promosso per ciò che ha conseguito. Oggi i criteri fondamentali sono dati dai parametri bibliometrici. In sostanza si viene giudicati in base al numero delle pubblicazioni, al prestigio della rivista su cui si è pubblicato e al numero di citazioni ottenute. Questo criterio è stato pensato per evitare distorsioni soggettive nel momento della valutazione: giustamente si è pensato che pregiudizi di vario tipo potessero inficiare la selezione del candidato più meritevole e per emendare tali errori si è pensato che delegare la decisione a un parametro numerico potesse essere la soluzione più equa. È presupposto che chi pubblica di più, su riviste più prestigiose, dovrebbe essere necessariamente più bravo degli altri, dunque meritevole di essere finanziato e supportato.
Per quanto sia il migliore possibile al momento, tale sistema non è esente da conseguenze viziose. Un primo esempio è relativo a quanto già descritto: i ricercatori affermati, con un grande bagaglio di pubblicazioni, si trovano a competere con novizi appena entrati nel mondo della ricerca, e ciò che ne deriva è un monopolio dei finanziamenti che precipitano spesso sempre verso i medesimi “centri gravitazionali”. Piove sempre sul bagnato. Ma ciò che più influisce in maniera negativa è la pressione per la pubblicazione. Tutti sono costretti ad adeguarsi alle regole del gioco e sono spinti a pubblicare il più possibile, mirando alle riviste più prestigiose. Conformismo e conservatorismo sono le conseguenze negative del processo[4], in quanto i giovani sono incoraggiati a inoltrarsi in campi di studio che garantiscono un alto tasso di pubblicazione[5], indipendentemente dalle ricadute sociali, dal reale valore conoscitivo che può comportare un certo approfondimento. Si concentrano le attenzioni in pochi settori, spesso alla moda, evitando di inoltrarsi in terreni poco esplorati o minoritari, proprio perché rischiosi. Viene compromessa così l’esplorazione di settori oggi poco noti, non perché non possano rivelarsi interessanti, ma perché attualmente sconvenienti per un giovane ricercatore. La pubblicazione di un articolo sta diventando un fine in sé, indipendente dagli altri obiettivi che dovrebbe avere una ricerca scientifica.
La somma di queste difficoltà ha spinto alcuni ricercatori a tentare scorciatoie, precipitando in attività disoneste. Sempre su Nature[6] è stata pubblicata un’indagine dalla quale emerge che il 16% dei ricercatori che vi hanno partecipato prende strade poco lecite pur di aggiudicarsi un finanziamento o essere pubblicati. Più del 25% ha pubblicato articoli di cui “non va fiero” e il 15% ha frazionato la propria ricerca in più scritti proprio per ottenere più pubblicazioni. È evidente che queste modalità di valutazione corrompono gli obiettivi e le pratiche dei giovani ricercatori. La quantità di pubblicazioni viene preferita alla qualità. A compromettere ulteriormente la situazione, i sistemi di valutazione nazionale delle università hanno adottato a loro volta tale criterio per giudicare il valore degli atenei, innescando un cortocircuito di tipo competitivo ancor più dannoso: le università si contendono all’interno di un “mercato dei ricercatori” coloro che hanno un più alto numero di pubblicazioni, perché essi permettono di aumentare il ranking dell’università e conseguentemente di ottenere più finanziamenti da investire successivamente su altri ricercatori con tante pubblicazioni.
Tali difficoltà vanno affrontate sotto più punti di vista e varie proposte sono state elaborate al fine di contribuire ad un cambiamento di rotta. Risale a più di un anno fa un articolo propositivo, pubblicato sempre su Nature[7], nel quale si denunciano le storture delle modalità di valutazione basate solo su parametri bibliometrici, e che sintetizza 10 principi prescrittivi utili a uscire dal vicolo cieco nel quale si è finiti. Su questa scia, nello speciale di Nature, due giovani ricercatori olandesi, Rinze Benedictus e Frank Miedema[8] raccontano la loro esperienza all’università di Utrecht, dove è stato elaborato un nuovo metodo di valutazione proprio per evitare le distorsioni legate a un’eccessiva enfasi sui parametri bibliometrici. Tale riforma è stata elaborata attraverso una discussione condivisa tra studenti, giovani ricercatori e scienziati affermati dell’università, quindi una riforma interna elaborata dal basso. Per rivalorizzare i possibili contributi sociali della ricerca scientifica ed emanciparsi dall’ossessione bibliometrica, si è elaborato un metodo di valutazione che tenga conto degli aspetti qualitativi che un progetto di ricerca può comportare. La valutazione dei progetti di ricerca e dei ricercatori viene effettuata tenendo conto di più parametri, oltre a quelli bibliometrici, i quali riguardano le responsabilità accademiche e di insegnamento, le ricadute sociali e l’esperienza reale accumulata. Sono state modificate anche le commissioni giudicatrici, che ora devono essere composte nel modo più variegato possibile per garantire una visione complessiva delle capacità del soggetto e saper valorizzare coloro che hanno avuto difficoltà a quantificare le loro qualità. Questi indicatori semi-qualitativi dovrebbero permettere di allargare l’orizzonte della valutazione.
Con l’idea di trattare i parametri bibliometrici come parte di una valutazione più ampia concorda Mark Ferguson, direttore generale dell’agenzia per i finanziamenti alla ricerca in Irlanda, secondo il quale andrebbero finanziate anche ricerche che non garantiscono un alto tasso di pubblicazione, o alcun tornaconto economico immediato. Si dovrebbe mirare a incentivare la ricerca di alta qualità sul lungo periodo, a discapito di miopi prospettive concentrate sull’alto rendimento in breve tempo. Fondamentale è un cambiamento di abitudini e di regole delle attuali istituzioni: università, enti finanziatori, riviste dovrebbero collaborare a perseguire questo obiettivo. Chris Pickett[9] descrive la sua costernazione nel constatare che molti giovani scienziati, oggi, identificano il successo scientifico con nient’altro che l’ottenimento di una posizione di prestigio nell’accademia.
Nel 2010 è stata fondata la Global Young Academy[10] per dare voce ai giovani scienziati sulle questioni delle politiche della ricerca, e per contribuire ad aumentarne le opportunità di carriera. Altre associazioni sono nate negli ultimi anni per informare, per protestare, per coalizzarsi in un’azione congiunta, per esempio Future for Research[11]. Queste organizzazioni lavorano per migliorare l’ambiente di lavoro dei giovani ricercatori e si fanno portavoce delle loro esigenze. Tra le richieste più comuni vi sono: più addestramento nei laboratori, aiuto tecnico, assistenza amministrativa, più risorse per scrivere progetti. Un’altra esigenza spesso condivisa è quella di poter avere più libertà di iniziativa, proprio per sfuggire al conformismo e per evitare che le pressioni indebite vadano a scapito di scoperte interessanti. In un altro articolo[12] è delineata la possibilità che nel bel mezzo di una ricerca si dischiudano nuovi orizzonti promettenti, ma dal risultato incerto. Spesso cambiare obiettivo a questo punto è scoraggiato dalle istituzioni finanziatrici. In queste situazioni i ricercatori si trovano a un bivio, la loro carriera risulta in bilico e nella maggior parte dei casi sono portati ad annichilire la propria curiosità perché disincentivati. Proprio la mancanza di garanzie per esplorare nuovi sentieri, in questi frangenti, preclude la possibilità di nuove scoperte. I giovani dovrebbero essere al contrario sostenuti e garantiti in tali attività da appositi piani per la ricerca[13]. I valutatori dovrebbero sempre tener presente questa possibilità per non mortificare l’innovazione e il progresso.
Tutte queste difficoltà non fanno bene né agli scienziati né alla scienza. Oggi le nuove generazioni vengono ingabbiate in un sistema iper-competitivo, scoraggiante e molti cominciano a non trovare più così tanto attraente una possibile carriera nella ricerca scientifica, soprattutto se oltre alla passione per la ricerca scientifica si tiene conto anche di altre prerogative: vivere una vita poco stressante, avere una famiglia alla quale dedicare tempo, avere un buono stipendio, prospettive non troppo cupe sul proprio futuro. Nonostante tutte le sfide che si trovano costretti ad affrontare, è pur vero che il 60% dei ricercatori si dicono comunque soddisfatti del proprio lavoro. I più felici risultano essere però gli scienziati più anziani, sopra i 50 anni.
Si deve inoltre riconoscere che la comunità scientifica non è del tutto impermeabile a tali problematiche. L’’European Research Council per esempio ha elaborato una divisione in fasce d’età per coloro che competono per finanziamenti alla ricerca: una per coloro che hanno terminato il PhD da 2 a 7 anni, un’altra per coloro che lo hanno terminato tra 7 e 12 anni, e infine una per chi lo ha completato da più di 12 anni. Questo dovrebbe rendere più equa la competizione per i finanziamenti, ritrovandosi nelle tre categorie persone con più o meno la stessa esperienza, onde evitare di far competere un premio Nobel con un neo dottorato. Negli USA sono stati istituiti premi per giovani ricercatori e altri per ricercatori affermati, anche in questo caso tenendo conto delle differenze generazionali si spera che la torta da spartire sia divisa in modo più equo. In alcuni ambienti è nato un dibattito sul fatto se sia giusto spingere gli scienziati più anziani ad abbandonare la ricerca per dedicarsi all’insegnamento e alla divulgazione[14]. Una soluzione un po’ estrema, visto che alcuni importanti risultati scientifici sono stati ottenuti da scienziati già in là negli anni. Di sicuro non ci si può arrestare a questi pochi “spiccioli” e molti altri cambiamenti dovranno essere introdotti per favorire una trasformazione più profonda. Paradossalmente, una sottile resistenza alla risoluzione di tutte queste crescenti difficoltà deriva dal fatto che il sistema, pur con tutte le sue storture, continua a funzionare.
NOTE
[1] Lo speciale è liberamente accessibile a questo indirizzo http://www.nature.com/news/the-plight-of-young-scientists-1.20870. Alla base vi è un’indagine online la quale ha chiesto a giovani ricercatori quali avversità avessero dovuto affrontare per riuscire a raggiungere qualche risultato rilevante. La convergenza delle risposte si è concentrata su alcuni punti critici, da quasi tutti individuati quali ostacoli principali. Powell K. Young, talented and fed-up: scientists tell their stories. Nature. 2016 Oct 26;538(7626):446-449.
[2] Maher B, Sureda Anfres M. Young scientists under pressure: what the data show. Nature. 2016 Oct 26;538(7626):444.
[3] Risulta che il 20% dei ricercatori si accaparri il 58% dei finanziamenti, secondo i dati ricavati dai finanziamenti elargiti dalla National Institutes of Health statunitense. http://www.nature.com/news/hard-work-little-reward-nature-readers-reveal-working-hours-and-research-challenges-1.20933?WT.mc_id=SFB_NNEWS_1508_RHBox
[4] Bruce Alberts, presidente della National Academy of Sciences statunitense, sostiene che l’atmosfera iper-competitiva sta spingendo gli scienziati a produrre lavori scientifici mediocri (essendo conveniente puntare su lavori sicuri, dal risultato certo, anche se poco interessanti) e a soffocare la loro creatività. Powell K. Young, talented and fed-up: scientists tell their stories. Nature. 2016 Oct 26;538(7626):446-449.
[5] Alcuni ricercatori in medicina hanno raccontato la loro esperienza di ricerca, durante la quale sono stati esplicitamente dissuasi dal concentrarsi su una certa ricerca, finalizzata a pubblicare un articolo che proponeva di risolvere un reale problema medico, e sono stati incitati a dedicarsi a un’altra ricerca che avrebbe garantito più pubblicazioni e citazioni. Questo porta i giovani studenti a ignorare molte questioni poco pubblicabili, a discapito delle possibilità di sviluppo di nuove capacità di cura. Benedictus R, Miedema F, Ferguson MW. Fewer numbers, better science. Nature. 2016 Oct 26;538(7626):453-455.
[6] Questo sondaggio è stato condotto dopo la pubblicazione dello speciale sul numero del 26 ottobre. http://www.nature.com/news/hard-work-little-reward-nature-readers-reveal-working-hours-and-research-challenges-1.20933?WT.mc_id=SFB_NNEWS_1508_RHBox
[7] Hicks D, Wouters P, Waltman L, de Rijcke S, Rafols I. Bibliometrics: The Leiden Manifesto for research metrics. Nature. 2015 Apr 23;520(7548):429-31.
[8] Benedictus R, Miedema F, Ferguson MW. Fewer numbers, better science. Nature. 2016 Oct 26;538(7626):453-455.
[12] Oni T, Sciarrino F, Adesso G, Knight R. Let researchers try new paths. Nature. 2016 Oct 26;538(7626):451-453.
[13] In effetti esistono programmi di finanziamento destinati a promuovere progetti innovativi, ma non sono abbastanza. Per esempio nel 2015 il National Institute of Healt statunitense ha concesso 78 finanziamenti per ricerche “rischiose” e 15000 per ricerche convenzionali.
[14] Scudellari M. The retirement debate: A grand exit. Nature. 2015 May 7;521(7550):20-3.
Fonte: MicroMega online - La Mela di Newton
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