di Josep Fontana
Intorno al 1890 i partiti socialisti europei, organizzati nella Seconda Internazionale, avevano ormai abbandonato le speranze rivoluzionarie e propugnavano una via riformista che avrebbe dovuto portare a una loro integrazione nei parlamenti borghesi, per poi un giorno accedere al potere attraverso le elezioni e, di qui, avviare la trasformazione della società. Pur essendo schierati su questa linea riformista, i partiti socialisti tedesco, italiano, spagnolo, francese (che conservava ancora il nome di sezione francese dell’Internazionale Operaia) e il laburismo inglese mantenevano la retorica rivoluzionaria di tipo marxista per non deludere i loro sostenitori tra gli operai e continuare a fargli credere che i loro partiti lottavano sempre per una trasformazione totale della società.
La contraddizione tra retorica e prassi scoppiò alla vigilia della Grande Guerra del 1914. Nel congresso che l’Internazionale socialista celebrò a Basilea nel novembre del 1912 si proclamò che “era dovere delle classi operaie e dei loro rappresentanti in parlamento (…) realizzare tutti gli sforzi possibili per prevenire l’inizio della guerra” e che, se infine questa avesse avuto luogo, dovevano intervenire affinchè terminasse rapidamente e “utilizzare la crisi economica e politica causata dalla guerra per far sollevare il popolo e accelerare la caduta del governo della classe capitalista”. Il congresso proclamava, inoltre, la sua soddisfazione per “la totale unanimità dei partiti socialisti e dei sindacati di tutti i Paesi nella guerra contro la guerra” e chiamava “i lavoratori di ogni Paese a opporre all’imperialismo capitalista il potere della solidarietà internazionale del proletariato”.
Ma il pomeriggio del 4 agosto 1914 tanto i socialisti tedeschi, che ancora poche settimane prima organizzavano manifestazioni contro la guerra, quanto quelli francesi approvarono entusiasticamente nei rispettivi parlamenti la dichiarazione di guerra e votarono i crediti necessari per iniziarla. Il Partito Socialdemocratico tedesco, inoltre, accettò una politica di tregua sociale, con l’impegno di non criticare il governo e di chiedere agli operai che si astenessero dal fare scioperi per tutto il corso della guerra. Quanto ai laburisti inglesi, non solo approvarono la guerra ma finirono con l’entrare a far parte di un governo di coalizione.
In Russia le cose andarono in un altro modo, poiché qui il Partito socialdemocratico, diviso tra menscevichi e bolscevichi, non solo non era rappresentato in Parlamento, bensì era perseguitato dalla polizia. All’inizio del 1917 alcuni dirigenti bolscevichi, come Stalin e Kamenev, erano confinati in Siberia, mentre altri vivevano in esilio, come Lenin, che si era stabilito a Zurigo, in Svizzera, mentre Trotzky si trovava allora a New York.
Quando, nel febbraio 1917, a Pietrogrado ebbe inizio la rivoluzione, ciò avvenne in assenza di capi dei partiti rivoluzionari in grado di assumerne la direzione e sulla spinta invero di un movimento che fu espressione di un duplice potere, quello dei consigli, o soviet, dei lavoratori e dei soldati da una parte, e quello del Comitato provvisorio del parlamento dall’altro, i quali stabilirono un’intesa per la costituzione immediata di un governo provvisorio e per la successiva elezione per suffragio universale, a novembre, di un’Assemblea costituente, alla quale era delegato il compito di adottare i cambiamenti politici che la situazione richiedeva.
Il 3 marzo il governo provvisorio concesse un’amnistia “per tutti i delitti politici e religiosi, compresi atti terroristici, rivolte militari e crimini agrari”; fu allora che Stalin e Kamenev tornarono dalla Siberia e si misero alla direzione della Pravda, il giornale dei bolscevichi, dalle cui colonne anch’essi sostennero, in sintonia con la maggior parte delle altre forze politiche russe, la necessità della prosecuzione della guerra e la convocazione di un’Assemblea costituente.
Agli inizi di aprile Vladimir Lenin, grazie ai buoni uffici del governo tedesco, interessato alla fuoruscita della Russia dalla guerra, tornava dalla Svizzera, dopo un lungo viaggio in treno fino alla costa del Baltico prima e da lì in Svezia e in Finlandia per poi alla fine giungere, a bordo di un altro treno, a Pietrogrado.
Per comprendere l’operato dei tedeschi bisogna ricordare il tracollo irreversibile dei rapporti tra Germania e Stati Uniti determinatosi nei primi mesi del 1917 (e che infatti avrebbe condotto, il 6 aprile, alla dichiarazione di guerra). Furono proprio i tedeschi che proposero a Lenin il ritorno in Russia, il quale accettò a condizione, tra le altre cose, che con lui potessero viaggiare altri trenta esiliati russi e che il treno fosse protetto dallo status dell’extraterritorialità.
Al comitato dei bolscevichi giunti, il 3 aprile, ad accoglierlo alla stazione Finlandia, Lenin si rivolse con queste parole: “Il popolo ha bisogno di pace, il popolo ha bisogno di pane, il popolo ha bisogno di terra. E gli danno guerra, fame invece di pane, e lasciano la terra ai latifondisti. Dobbiamo lottare per la rivoluzione sociale, lottare fino alla fine, fino alla vittoria totale del proletariato.” Aggiungendo: “Questa guerra tra pirati imperialisti è l’inizio di una guerra civile in tutta Europa. Nei giorni a venire il capitalismo europeo nella sua totalità crollerà. La rivoluzione russa che avete iniziato ha tracciato la strada e una nuova epoca ha avuto inizio. Viva la rivoluzione socialista mondiale!”
Questo discorso fu accolto male dai bolscevichi presenti nella stazione e fu rigettato in occasione delle prime elezioni degli organi del partito. I bolscevichi la pensavano come i partiti socialdemocratici europei, che avevano fatta propria l’idea della necessità di appoggiare una rivoluzione democratica borghese come prima tappa di un lungo percorso verso il socialismo: voler andare oltre, senza soluzioni di continuità, gli sembrava un’avventura condannata al fallimento.
Il programma di Lenin non si limitava allo slogan “pace, terra e pane”, non si trattava solo di uscire subito dalla guerra e consegnare la terra ai contadini. Alla base c’era un’impostazione molto più radicale, che lo portava a sostenere che, stanti le conquiste ottenute nel febbraio e la presenza dei soviet come organi di esercizio del potere, non aveva nessun senso optare per una repubblica parlamentare borghese, bensì si doveva andare direttamente verso un sistema in cui tutte le leve del potere fossero nelle mani dei soviet: a loro sarebbe toccato abolire uno per uno tutti gli organi di oppressione dello Stato – dalla polizia all’esercito alla burocrazia – aprendo così la strada alla dissoluzione dello Stato stesso, cui sarebbe seguita come inevitabile conseguenza l’abolizione della divisione in classi della società.
Lenin riprendeva la critica alla soluzione parlamentare, esposta da Marx nella Critica al programma di Gotha, del 1875, un testo che i socialdemocratici tedeschi avevano volutamente rimosso per molti anni e nel quale veniva respinta l’idea di avanzare verso il socialismo attraverso uno “Stato libero” inteso come una specie di tappa di transizione e in cui si diceva a chiare lettere: “Tra la società capitalista e la società socialista c’è il periodo della trasformazione rivoluzionaria della prima nella seconda. A questo periodo corrisponde anche una fase di transizione in cui lo Stato non può essere assumere altro che la forma della dittatura rivoluzionaria del proletariato”.
Come doveva compiersi questa transizione? Era difficile da dirsi, perché nessun partito socialista si era chiesto veramente cosa fare una volta che si fosse giunti al potere, dato che sembrava lontana la prospettiva stessa di giungervi. L’unico modello esistente era quello della Comune di Parigi del 1871 ed era durato troppo poco per poter dare delle regole orientative.
Ciò che si proponeva Lenin lo sappiamo attraverso quello che scrive in Stato e rivoluzione, in cui denunciava le menzogne del regime parlamentare borghese, nel quale tutto (le regole del suffragio, il controllo della stampa, ecc.) contribuiva a stabilire “una democrazia solo per i ricchi”; quindi prevedeva l’estinzione dello Stato in due fasi: nella prima lo Stato borghese sarebbe stato sostituito da uno Stato socialista imperniato nella dittatura del proletariato.
La seconda fase sarebbe sorta dall’estinzione graduale dello Stato e sarebbe sfociata nella società comunista. Durante questa transizione i socialisti dovevano mantenere il più rigoroso controllo possibile sul lavoro e sul consumo, un controllo che si poteva stabilire solo con l’espropriazione dei capitalisti ma che non doveva condurre alla formazione di un nuovo Stato burocratizzato, perché l’obiettivo finale era precisamente giungere a una società in cui non ci sarebbero stati “né divisioni di classe né potere dello Stato”.
Non è il caso qui di spiegare la storia, abbastanza conosciuta, di come i bolscevichi sono arrivati al potere e di come hanno iniziato a organizzare la transizione verso il nuovo sistema.
Mi preme invece ricordare che il 7 gennaio 1918 Lenin si esprimeva fiducioso nel fatto che, una volta vinta la resistenza borghese, il trionfo della rivoluzione socialista sarebbe stato questione di mesi.
A disilluderlo sopraggiunse la denominata “guerra civile”, nella quale parteciparono, in appoggio a vari nemici della rivoluzione, fino a tredici Paesi diversi, e che rappresentò per il nuovo Stato dei bolscevichi un costo di otto milioni di morti, tra vittime dei combattimenti, della fame e delle malattie, senza contare la distruzione totale dell’economia. Una situazione, questa, che obbligava a rimandare a tempo indefinito l’instaurazione della nuova società.
È in questo momento che, terminata la guerra civile, la storia giunge a un punto di svolta. Fu il capo del governo inglese Lloyd George il primo a propugnare la tesi che voler conquistare la Russia sovietica al fine di liquidare la rivoluzione era, più che insufficiente, inutile. Occorreva passare dallo scenario russo a uno più vasto. Maturò allora la convinzione, nei circoli capitalistici, che, per contrastare l’influenza esercitata dalla rivoluzione e del modello sovietico su gruppi e movimenti che lottavano in ogni angolo del pianeta, bisognava spostare l’azione su un piano globale.
Il nemico che da quel momento in poi si cominciò a combattere non fu più lo Stato sovietico, e nemmeno i partiti comunisti della terza Internazionale, che fino agli anni Trenta erano poco più che gruppetti settari dotati di scarsa influenza. Questo nuovo nemico aveva il nome di comunismo in senso lato, era immenso, indefinito e universale, e nasceva, più che dalla presa d’atto della realtà, dalle paure ossessive di quei politici che intravedevano il comunismo dietro ogni sciopero o protesta collettiva che fosse. Come, per esempio, quando, durante lo sciopero degli scaricatori di porto della costa del Pacifico negli Stati Uniti, il Los Angeles Times si dichiarò convinto che ci si trovava di fronte a “una rivolta organizzata dai comunisti per abbattere il governo”, chiedendo, di conseguenza, l’intervento dell’esercito per reprimerla. Di esempi come questo se ne trovano in gran numero nei più diversi momenti e situazioni.
Da questo punto in poi la lotta contro la rivoluzione comunista diventava qualcosa che riguardava e coinvolgeva tutti. La seconda repubblica spagnola, per esempio, apparsa sulla scena internazionale nel 1931, in un momento in cui le tensioni sociali ricevevano risposta nella maggior parte d’Europa sotto forma di dittature di destra, fu accolta con ostilità dai governi delle grandi potenze. L’ambasciatore statunitense a Madrid, per esempio, il 16 aprile 1931, due giorni dopo la proclamazione della repubblica, informava il Dipartimento di Stato in questi termini: “Il popolo spagnolo, con la sua mentalità da secolo XVII, suggestionato da falsità comunistoidi scorge d’un tratto una inesistente terra promessa. Nel momento in cui giungerà la disillusione, si prostrerà ciecamente di fronte a quanto troverà di più vicino, e, data l’incapacità di questo governo nel porvi argine, potrà diventare facile preda dell’incalzante propaganda bolscevica.”
Poco importava che l’ambasciatore ignorasse, come emerge dai messaggi successivi, persino chi erano i dirigenti repubblicani. In una descrizione del governo spagnolo che egli fa, in quegli stessi giorni, a uso e beneficio di Washington dice, per esempio, di Azaña, ministro della guerra e di lì a poco capo del governo stesso: “Non trovo nessun cenno su di lui da parte dell’ambasciata. L’addetto militare ne parla come di un sodale di Alejandro Lerroux (anch’egli ministro del governo repubblicano, ma su posizioni conservatrici e quindi distanti da Azaña. N.d.T.). Un “repubblicano radicale”, a quanto pare.” L’ambasciatore non sapeva nulla dei repubblicani, ma aveva le idee chiare riguardo all’“influenza bolscevica”.
E nel 1936, quando Francisco Franco si levò in armi contro il governo repubblicano, fu per il timore del contagio comunista (in quel momento assolutamente inesistente) che le potenze europee scelsero di lasciare la repubblica a far fronte da sola all’attacco italo-tedesco, scatenato con una massiccia dotazione di uomini, armi e aerei.
Nel frattempo lo Stato sovietico, allora sotto la direzione di Stalin, viveva costantemente nella paura di una aggressione esterna e per questo allocava copiose risorse in armi destinate alla difesa, risorse che diversamente avrebbero potuto essere impiegate per il miglioramento delle condizioni di vita dei suoi cittadini. Ma la conseguenza peggiore di questa paranoia fu il panico ossessivo che si scatenò verso le congiure che, ordite dall’interno, si presumeva stessero preparandosi per spalancare le porte al nemico esterno e mettere così fine all’esperimento della rivoluzione. Fu questo panico alla base delle settecentomila esecuzioni che si ebbero in Unione Sovietica dal 1936 al 1939. L’ordine 00447 della NKVD, il Commissariato del Popolo per gli affari interni, del 30 luglio 1937, “in merito alla repressione degli ex kulak, di criminali e altri elementi antisovietici” riguardò soprattutto cittadini comuni, contadini e lavoratori che non erano coinvolti in nessuna congiura né rappresentavano nessuna minaccia per lo Stato. E anche se i successori di Stalin non fecero mai ricorso al terrore su grande scala, anche loro dimostrarono una paura continua della dissidenza, tale da frenare sempre ogni qualsiasi spinta di democrazia interna.
Riuscirono in questo modo a salvare lo Stato sovietico, ma al prezzo di rinunciare al cammino verso la costruzione di una società socialista. Il programma nato per eliminare la tirannia dello Stato finì con l’edificare uno Stato oppressore.
Nonostante tutto, fuori dell’Unione Sovietica, nel resto del mondo, le speranze create dal progetto leninista continuarono per molti anni a dare impulso alle lotte dell’altro “comunismo”, obbligando i difensori dell’ordine stabilito a cercare nuove strade per combatterlo.
Finita la seconda guerra mondiale, la coalizione capeggiata e diretta dagli Stati Uniti organizzò la lotta sistematica contro il comunismo, basandosi su quella che era la propria idea di lotta allo stesso, vale a dire mettendo nello stesso sacco qualunque cosa vista come ostacolo al pieno sviluppo della “libera impresa” capitalista, soprattutto di quella statunitense.
La campagna aveva ora due aspetti. Per un verso si basava su una finzione, quella della guerra fredda, che era sbandierata come la difesa del “mondo libero” (fatto per buona parte di dittature) contro l’aggressione – data per sicura – da parte dell’Unione Sovietica. Era tutta una bugia. Affermare che i sovietici avevano pensato a una guerra di conquista mondiale – che da già dagli anni di Lenin avevano ben chiaro che la rivoluzione non si poteva fare se non dall’interno di ogni paese. Come era anche una balla che gli americani si preparassero a distruggere preventivamente l’Unione Sovietica. Ma queste due menzogne convenivano agli USA, la prima per mantenere la disciplina tra gli alleati e la seconda per intimorire e tenere impegnati i sovietici nella propria difesa.
“La cosa peggiore che potrebbe succederci in una guerra globale – diceva Eisenhower in privato – sarebbe vincerla. Che ce ne facciamo poi della Russia se vinciamo?” E Ronald Reagan rimase di stucco quando venne a sapere che i russi avevano davvero paura di essere attaccati di sorpresa, tanto da scrivere sul sul suo diario: “Bisognerebbe fargli sapere che nessuno qui intende fare una cosa del genere. Che cavolo potrebbero avere mai possedere da suscitare gli appetiti di qualcuno?” Si meravigliava che i russi non avessero ancora scoperto il bluff, cosa che fece invece, anche se troppo tardi, Gorbaciov nel 1986, quando volle abbandonare la corsa agli armamenti perché, diceva “nessuno ci attaccherà, quindi disarmiamoci completamente.”
Il secondo versante della crociata globale contro il comunismo consisteva nel contrasto alla diffusione di quelle idee che potessero intralciare il pieno dispiegamento del capitalismo. L’obiettivo non era difendere la democrazia, ma la libera impresa: Mossadeq, in Iran, fu abbattuto non per il pericolo che poteva rappresentare per la democrazia, ma perché così conveniva alle compagnie petrolifere. Lumumba venne assassinato con lo scopo di proteggere non la libertà dei congolesi, ma quella delle compagnie che sfruttavano i giacimenti d’uranio del Catanga: d’altra parte, da dove proveniva il materiale con il quale fu fatta la bomba di Hiroshima?
E quando si combatteva non per difendere interessi specifici e concreti ma in generale per salvare la libertà d’impresa i risultati potevano essere perfino più nefasti. Uno dei peggiori crimini del secolo è stato quello che ha portato a uccidere tre milioni di contadini con l’argomento che si stavano preparando a invadere l’Asia. Non si è andati certo in Vietnam per difendere la democrazia, dato che nel Vietnam del sud quella che c’era era una dittatura militare.
La menzogna fondativa di quella guerra fu denunciata da John Laurence, corrispondente della CBS in Vietnam dal 1965 al 1970, con queste crude parole: “Abbiamo continuato ad ammazzare la gente per cinque lunghi anni con il solo risultato di fare un favore a un pugno di generali vietnamiti ladri che si sono arricchiti con i nostri soldi. Questo è quello che abbiamo fatto veramente. La minaccia comunista? Ma per piacere! (…) Ci siamo infognati a tal punto da non poterne più venire fuori, perché sennò avremmo dato l’impressione di essere stati sconfitti. È una pazzia. Non vinceremo, questo lo sanno tutti. Ma non lo ammetteremo, facendocene ritorno a casa come dovremmo, e così continueremo ad ammazzare le persone a migliaia, tra cui i nostri ragazzi”.
A conferma della confusa natura della lotta anticomunista ci paiono rivelatrici le parole spese di recente da Obama in onore agli uomini caduti in Vietnam, morti, secondo lui, “mentre si facevano largo tra giungle e risaie, nel caldo e nella pioggia, lottando eroicamente per proteggere gli ideali davanti ai quali, come americani, ci inchiniamo”. Ma di quali ideali stiamo parlando?
Neanche nei Paesi dell’America centrale, devastati dalle guerre sporche della CIA, si ravvisavano i segni di una qualche congiura comunista. Lo ha riconosciuto nel 1995 il Senato degli Stati Uniti nel denunciare che i presunti sovversivi che vi erano stati assassinati erano in realtà “organizzatori sindacali, attivisti dei diritti umani, giornalisti, avvocati e insegnanti, la maggior parte dei quali legati ad attività che sarebbero considerate legali in qualunque Paese democratico”. Le guerre sporche continuano ancora oggi, se in Honduras le bande messe in piedi dal governo e dalle multinazionali che hanno interessi nello sfruttamento delle risorse naturali di quel Paese continuano a uccidere, con la complicità e la protezione degli Stati Uniti, dirigenti contadini che difendono la proprietà collettiva delle terre e dell’acqua. Come Berta Cáceres, uccisa il 3 marzo di quest’anno, su istigazione dell’impresa olandese che sta dietro al progetto di Agua Zarca, o come José Angel Flores, presidente del Movimiento Unificado de Campesinos del Aguán, ammazzato il 18 ottobre 2016.
Il silenzio di fronte alla brutalità di tutte queste guerre è stato denunciato da Harold Pinter nel 2005 quando, nel ritirare il premio Nobel per la letteratura, sostenne che gli Stati Uniti, protesi ad assicurarsi il potere in tutto il pianeta, erano riusciti a camuffare i loro crimini presentandosi come una “forza per il bene del mondo”.
Mentre gli Stati Uniti difendevano la libera impresa e mentre i Paesi del “socialismo realmente esistente” negli anni del dopoguerra fallivano nell’intento di costruire una società migliore è stato l’altro “comunismo” nel suo complesso, nella diffusa ancorché vaga accezione creata dalle paure dei suoi nemici, che ha ottenuto su scala globale un successo dal quale tutti abbiamo tratto beneficio.
Il fatto è che la paura che questo comunismo globale suscitava, non certo per una sua inesistente superiorità militare bensì per la capacità dimostrata di permeare con i suoi valori le lotte contro gli abusi del capitalismo in tutto il mondo, unitamente alla constatazione che la semplice repressione non bastava a fermarlo, tutto ciò ha costretto i governi dell’Occidente a promuovere l’attuazione di progetti riformisti che, nel perseguire obiettivi di miglioramento sociale, allontanavano l’uso della violenza rivoluzionaria. È a questa paura che dobbiamo i tre decenni felici succeduti alla seconda guerra mondiale, con lo sviluppo dello Stato del benessere e con il raggiungimento di livelli di uguaglianza, nella ripartizione dei benefici della produzione tra imprenditori e lavoratori, quali non si erano mai visti prima.
Il problema è stato quando il “socialismo realmente esistente” ha mostrato i suoi limiti come progetto rivoluzionario, già dal 1968 quando a Parigi ha preso le distanze dagli scontri in piazza e quando a Praga ha schiacciato il tentativo di realizzare un socialismo dal volto umano, allora è stato quando i comunisti hanno perso quella grande forza che Karl Kraus poneva al di sopra di ogni altra cosa allorchè diceva “Dio conservi per sempre il comunismo, perché questa masnada – quella dei capitalisti – non diventi ancora più sfacciata e affinchè, se non altro, il suo sonno sia popolato di incubi”.
Ma questa masnada dalla metà degli anni settanta di notte fa sonni tranquilli, libera dal timore che i suoi privilegi siano minacciati dalla rivoluzione. Ed è stato proprio questo che l’ha incoraggiata a riprendersi gradualmente non solo quanto aveva concesso negli anni della guerra fredda, ma persino gran parte di quello che le lotte operaie avevano strappato nel secolo e mezzo precedente. Il risultato è il mondo nel quale oggi viviamo, con la disuguaglianza in crescita inarrestabile, e la stagnazione economica come danno collaterale.
In prossimità del centenario della rivoluzione del 1917 prepariamoci a sorbirci, una volta di più, l’abituale litania denigratoria di questo grande passaggio storico. Con le solite condanne che, a una parte, paiono in questo momento quanto mai necessarie se è vero che, stando a un rapporto della Victims of Communism Memorial Foundation datato 17 ottobre 2016, i giovani tra i 16 e i 20 anni, i cosiddetti “millennials”, non solo disconoscono completamente questa storia ma addirittura, e questo sembra più allarmante, si dichiarano disposti, per più della metà, a votare un socialista, e un 21 per cento di loro addirittura un comunista; la metà ritiene che “il sistema ci è contrario” e un 40% di essi auspica un cambiamento totale che assicuri che chi guadagna di più paghi in proporzione alla propria ricchezza. Tutto questo fa sì che la fondazione lanci un appello disperato affinchè ai giovani venga insegnata la storia sinistra del “sistema collettivista”.
Io penso che abbiamo invece bisogno di un altro tipo di commemorazione, che ci consenta, per un verso, di recuperare la storia di quella grande esperienza che è stata frustrata al livello più vasto, comprensivo di tutte le nostre lotte sociali passate. Ma che, al tempo stesso, ci porti a riflettere su alcune lezioni che i fatti del 1917 ci possono offrire in rapporto ai problemi del presente. Perché è interessante vedere che, allorchè uno studioso del capitalismo globale contemporaneo come William Robinson analizza la crisi attuale, giunge per conto suo a delle conclusioni con le quali Lenin sarebbe stato d’accordo: che le riforme non bastano, che la via della socialdemocrazia è obsoleta e quindi esaurita e che uno degli ostacoli che bisogna superare è rappresentato dal potere di quegli Stati oggi al servizio esclusivo degli interessi imprenditoriali. Per finire concludendo che la sola alternativa possibile al capitalismo globale del nostro tempo è un progetto popolare transnazionale, che è praticamente l’equivalente della rivoluzione socialista mondiale auspicata da Lenin ad aprile del 1917 appena sceso dal treno nella stazione Finlandia.
Le forze che dovranno costruire questo progetto saranno sicuramente molto diverse dai partiti tradizionali del passato. Saranno forze come quelle che oggi sorgono dal basso, dall’esperienza quotidiana degli uomini e delle donne. Sul tipo di quelle che si stanno costituendo a partire dalle lotte dei lavoratori del Sudafrica o degli indigeni del Perù contro le grandi compagnie minerarie internazionali, di quelle degli zapatisti che parlano di una ribellione “dal basso e a sinistra”, dei guerriglieri del Kurdistan siriano che vogliono costruire una democrazia senza Stato, dei maestri messicani che si pronunciano in difesa dell’educazione pubblica, dei contadini di tanti Paesi che non militano in partiti ma in associazioni locali come il Movimiento Unificado de Campesinos del Aguán, di cui José Angel Flores fu presidente: associazioni che confluiscono in altre di livello nazionale, quali il Consejo de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras, diretto da Berta Cáceres, le quali a loro volta sono parte di quella grande entità transnazionale che è Vía Campesina. Queste forze non rappresentano ancora, né da sole né tutte insieme, una minaccia per l’ordine stabilito, ma annunciano le possibilità future di un grande risveglio collettivo.
La strada che hanno davanti, se vogliono sfuggire a un avvenire di disuguaglianza e di impoverimento che minaccia tutti noi, è piuttosto complicata. Il fallimento dell’esperienza del 1917 ci dice che grandi sono le difficoltà, ma penso che ci abbia anche insegnato che, nonostante tutto, quella esperienza andava tentata e che, forse, varrà la pena provarci di nuovo.
Dalla rivista comunista spagnola Mundo Obrero pubblichiamo il testo della conferenza che lo storico Josep Fontana ha tenuto nell’Universidad Autónoma de Barcelona (UAB) lo scorso 24 ottobre nel quadro di alcune giornate sulla Rivoluzione russa.
Testo originale: La revolución rusa y nosotros
Traduzione di Luciano Marasca
Fonte: Rifondazione.it
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.