di Niccolò Serri
I termini “corporativismo” e “corporatismo” sono spesso utilizzati in maniera equivalente. La pagina che la versione inglese di Wikipedia dedica al termine li riporta semplicemente come sinonimi, mentre quella italiana si concentra solamente sul primo, limitando la sua analisi alle dottrine economico politiche della prima metà del XX secolo. Il portale della Treccani fornisce molti più spunti definitori; probabilmente troppi, però, per arrivare ad una descrizione univoca di questi termini. l’Enciclopedia, il Dizionario di Economia e Finanza (2012), il Dizionario di Storia (2010), il III supplemento all’Enciclopedia del Novecento (2004), l’Enciclopedia delle scienze sociali (1992), forniscono definizioni diverse di questo binomio concettuale, a tratti sovrapponibili l’una all’altra, a tratti in competizione fra loro.
A seconda che li si consideri sotto l’aspetto della teoria sociale, della pratica politica o della dottrina giuridica, corporativismo e corporatismo sono termini difficili da dirimere.
A seconda che li si consideri sotto l’aspetto della teoria sociale, della pratica politica o della dottrina giuridica, corporativismo e corporatismo sono termini difficili da dirimere.
Le difficoltà nel mettere a fuoco con precisione le caratteristiche del corporativismo non sono nuove. Nell’appendice dell’edizione del 1938 dell’Enciclopedia Italiana, Giuseppe Bottai, principale ideologo del governo fascista delle relazioni industriali, notava come la parola corporativismo “può indurre, e induce, in effetti, a incomprensioni e deviazioni, per i riferimenti molteplici […]”. Nel cercare di distinguere la nuova politica economica fascista dal sistema delle corporazioni medievali, Bottai articolava la sua definizione di corporativismo soprattutto sul piano istituzionale: le corporazioni rappresentavano un’articolazione giuridica dello Stato, capace di “ordinare” le categorie sociali. Esse servivano a mediare le istanze fra imprenditori e lavoratori su base strettamente settoriale, sciogliendo il principio della contrattazione conflittuale nella disciplina delle relazioni industriali fornita dallo Stato totalitario. La formulazione fascista di corporativismo affonda nella Carta del Lavoro del 1927, ma si rifà anche, sotterraneamente, alla dottrina sociale cattolica. Esperimenti di tipo corporativo, del resto, non saranno propri soltanto dell’Italia fascista nel periodo fra le due guerre mondiali. In vario modo, altri regimi autoritari e correnti di estrema destra faranno propria questa pratica di governo delle relazioni di lavoro.
Gli esiti della seconda guerra mondiale e la progressiva polarizzazione del dibattitto economico dell’immediato dopoguerra fra mercato e pianificazione hanno portato alla marginalizzazione del concetto di corporativismo. Il termine ha assunto caratteri negativi ed ha cominciato ad essere usato soprattutto in ambito polemico per designare comportamenti ispirati al prevalere dei propri interessi individuali, di consorteria. Questo particolarmente in Italia, dove una memoria storica ancora fresca ha gettato discredito sulle parola. Nel campo delle relazioni industriali, “corporativismo” è diventato moneta corrente per indicare politiche rivendicative ristrette e di nicchia, in un sistema in cui associazioni industriali e gruppi di lavoratori attuavano accordi al di fuori di regolamentazioni collettive.[1]
È soltanto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta che un rinnovato interesse degli studi storici e della politica comparata ha portato a depurare il concetto dei suoi connotati ideologici, cercando di restituirgli valore come categoria dell’analisi sociale. Autori come Charles S. Maier e Philippe C. Schmitter, in particolare, hanno sottolineato come la fase di capitalismo avanzato che si è aperta a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta è stata caratterizzata dall’affermazione crescente dei grandi gruppi di interesse organizzati capaci di influenzare la formazione delle politiche economiche nazionali. Sulla spinta dell’industrializzazione del dopoguerra, sindacati dei lavoratori ed associazioni datoriali si sono rafforzati dal punto di vista della rappresentanza e delle funzioni. In molti casi, ciò ha portato alla creazione di meccanismi di partecipazione degli attori sociali alla formazione delle politiche pubbliche, in un contesto caratterizzato da un alto grado di formalizzazione delle relazioni e di cooperazione – quello che potrebbe esser definito un “corporativismo liberale”, se tale dicitura non risultasse un ossimoro.
Anche per marcare una distanza terminologica rispetto all’esperienza autoritaria del periodo fra le due guerre, la nuova versione accademica ha preferito optare per “corporatismo”, o “neocorporatismo”, designando con ciò un tipo di accordo sociale attraverso cui sindacato e datori di lavoro possono mediare con la propria controparte attraverso uno scambio politico garantito dallo Stato.[2] Il modello corporatista è stato applicato soprattutto nell’analisi delle relazioni industriali dei paesi del centro e nord Europa, dove la coesione interna del movimento sindacale, l’efficienza delle strutture amministrative di mediazione e la presenza di governi socialdemocratici hanno favorito l’emergere di accordi di questo tipo. In Italia, invece, il pluralismo delle strutture di rappresentanza in ambito sindacale ed imprenditoriale ha reso per lungo tempo difficoltosa l’applicazione di questo concetto. Le divisioni ideologiche all’interno del movimento operaio e la natura conflittuale del sistema nazionale di relazioni industriali – unite ad un contesto di democrazia bloccata che ha attivamente contrastato l’alternanza delle sinistre al potere – hanno impedito l’emergere di forme di scambio politico. Ancora nel 1986, l’economista Ezio Tarantelli collocava l’Italia all’ultimo posto nella sua personale classifica sul grado di corporatismo delle economie avanzate.[3]
Questa lunga premessa teorica in un articolo che vuole essere di storia del lavoro non è un mero esercizio di stile; piuttosto rappresenta il tentativo di fornire una chiave di lettura originale di una delle figure più influenti della storia della sindacalismo Italiano, quella di Luciano Lama, segretario della Confederazione Generale Italiana del Lavoro dal 1970 al 1986. La vicenda umana e politica del “Signor CGIL” – questa la tesi – è largamente riassumibile nella tensione dialettica esistente fra i due termini di corporativismo e corporatismo: nessuno, fatto salvo forse Giuseppe Di Vittorio, è stato più attento di Luciano Lama a tutelare il valore dell’unità sindacale, lottando per il primato confederale e contro una concezione tradeunionistica del sindacato che rischiava di frantumarlo per linee di settore. Allo stesso tempo, nessuno come Lama ha avuto chiara la necessità per il sindacato di farsi soggetto politico per portare le istanze dei lavoratori al cuore della riforma dello stato e della società. Una concezione pragmatica della contrattazione che l’ha portato spesso ad essere “accusato” di riformismo, ma che sottintendeva soprattutto l’idea che l’egemonia del movimento operaio si dà nella sua capacità di influenzare la politica economica, o non si dà.
Nella sua relazione di fronte al Consiglio Generale che l’aveva appena eletto segretario nazionale, nel marzo del 1970, Lama aveva subito messo in chiaro che si sarebbe adoperato per “combattere le sempre presenti tentazioni corporative con l’aiuto dell’insieme delle categorie […] nella CGIL”.[4] Il riferimento, in questo passaggio, era al settore del pubblico impiego, ma risulta particolarmente significativo nel clima di inizio anno. Poco più di un mese prima, l’8 gennaio 1970, era stato siglato il contratto collettivo del settore metalmeccanico che aveva sancito la definitiva affermazione della contrattazione articolata a livello aziendale, dopo la stagione di lotte dell’autunno caldo. Di fronte all’esplosione di conflittualità operaia e al progressivo rafforzamento delle spinte rivendicative nelle grandi fabbriche, Lama sottolineava il pericolo di potenziali fughe in avanti delle categorie organizzativamente più solide, come quelle dei chimici e dei metalmeccanici.
L’attenzione ai rischi dell’autonomismo sindacale resterà una costante nella sua gestione della Confederazione. Nel contesto di un mercato del lavoro caratterizzato da disequilibri geografici e settoriali, il corporativismo categoriale poteva soddisfare dei bisogni immediati, ma portava anche alla sovrapposizione impropria degli interessi di gruppo su quelli generali, frazionando il fronte unito del movimento operaio. Nel 1976, Lama denuncerà con forza “la giungla retributiva e normativa, al cui infittimento non poco ha contribuito l’esasperato e cieco sostegno delle più discutibili […] specificità, dietro cui […] si nasconde l’anima del corporativismo”[5]. Per Lama lo spirito di categoria e “la difesa corporativa” restano una cifra naturale ed ineliminabile della pratica sindacale[6].
Il corporativismo contro cui si scaglia il segretario non è il mito dell’armonia sociale proprio dell’impostazione cattolica, né la dottrina giuridica fascista che voleva dividere il mondo economico in comunità di interessi organizzate su base settoriale. Il corporativismo, per Lama, rappresenta piuttosto una tendenza all’individualismo operaio, che affonda le proprie radici nelle origini tradeunionistiche delle prime strutture sindacali, quando la difesa dei propri interessi aveva portato i lavoratori ad organizzarsi sulla base del proprio mestiere per controllare l’offerta sul mercato di lavoro. Come tali, queste pulsioni corporative vanno attivamente combattute attraverso un’ideologia di classe che sappia mostrare il carattere unitario della condizione dei lavoratori e da strutture di rappresentanza che armonizzino le istanze del lavoro dipendente. Al IX congresso della CGIL del 1977, la lotta al corporativismo è alla base del sostegno di Lama all’esperienza dei consigli di zona. Questi organismi erano frutto dell’integrazione intercategoriale delle strutture rappresentative di tutte le fabbriche di un determinato territorio e, nell’ottica del segretario della CGIL, avrebbero dovuto sostituire le Camere del Lavoro come unità di base del sindacato. Ciò avrebbe consentito di superare la natura fino ad allora aziendale del movimento consiliare, proiettando la forza acquisita dal soggetto operaio sul resto della società.[7]
Si può solo speculare su quanto l’antifascismo di Lama abbia influenzato la sua battaglia contro il corporativismo. Cresciuto nella Romagna dello squadrismo nero, Lama spiegherà in una trasmissione televisiva del 1985 che tanto viscerale era il suo odio per il nazifascismo che esso lo portò persino a dimenticare il tedesco, che pur parlava correntemente. Di certo, a cementare la sua sensibilità per i temi della coesione sindacale è stata una carriera trasversale all’interno della CGIL. In maniera non sempre lineare, Lama ha attraversare in prima persona molte delle categorie del grande sindacato italiano. Dopo essere cresciuto politicamente come responsabile della Camera del Lavoro di Forlì, Lama era divenuto già nel 1948 Vicesegretario Nazionale, sotto l’ala di Giuseppe Di Vittorio. A partire dal 1952 Lama è Segretario della Federazione Italiana Lavoratori Chimici. Nel 1957 passa alla guida della FIOM, proprio nel momento in cui si assiste alla lenta ripresa dell’attività sindacale dopo la sconfitta del sindacato metalmeccanico alla elezioni delle commissioni interne della Fiat nel 1955.[8]
Riflettendo sugli errori di strategia degli anni Cinquanta, lo stesso Lama ammetterà che vi era stata “una rinuncia a utilizzare tutte le potenzialità dei lavoratori sul luogo di lavoro e addirittura la teorizzazione di questa rinuncia di fronte ai pericoli di corporativismo”.[9] Senza voler addentarsi nel particolare, quel che conta qui sottolineare è che le molte e diverse esperienze di Lama all’interno della CGIL l’hanno portato a costruire un’idea plurale e variegata del mondo del lavoro. Il sindacalista romagnolo aveva un concetto ampio del soggetto “lavoratore”, ricomprendendo sotto questa etichetta non solo il lavoro salariato, ma anche le varie forme di occupazione indipendente, di lavoro domestico, dei giovani in cerca di prima occupazione, fino ad arrivare ai disoccupati. È una concezione propria di Lama e prima di Di Vittorio – entrambi sindacalisti “campagnoli” maturati politicamente a contatto con il fluido mondo bracciantile – che può essere letta in controluce rispetto a quella di altri dirigenti della sinistra sindacale, come Vittorio Foa e Bruno Trentin, più legati ad una concezione operaista che vedeva nell’industria la forza motrice del mondo del lavoro.
La scelta di Lama è per un sindacalismo di classe che sappia tenere insieme il variegato universo del lavoro senza cedere a pressioni tradeunionistiche, proprio perché aziendalismo e “aristocrazia operaia” sono concetti del tutto estranei al suo modo di intendere la difesa dei diritti del lavoro. Questa concezione della pratica sindacale non resta fine stessa. La lotta al corporativismo si deve infatti concretare prima di tutto lungo l’asse del rafforzamento organizzativo del sindacato. Dopo aver vissuto in prima persona la frantumazione della CGIL unitaria nel 1948, Lama perseguirà sempre con ostinazione l’obiettivo dell’unità sindacale. Nel 1972, sarà fra i principali fautori della creazione del patto federativo con le altre centrali sindacali, la CISL e UIL. Nel corso di tutta la sua segreteria manterrà sempre la barra dritta sulla salvaguardia della coesione, anche a costo di compromessi mal digeriti dal resto della sua organizzazione. Ancora nel 1984, dopo che il taglio della scala mobile operato dal governo Craxi aveva dato avvio al processo di sfaldamento dell’unità sindacale, Lama continuava a far leggere i propri discorsi, prima di pronunciarli, a Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto, segretari rispettivamente di CISL e UIL.[10]
Proprio nella lotta per l’unità sindacale sono rintracciabili i segni di quella pratica neocorporatista a cui si è accennato: il fronte unito del lavoro – il monopolio della rappresentanza degli interessi, in linguaggio politologico – è infatti per Lama il meccanismo di trasmissione attraverso cui il sindacato può diventare attore riconosciuto della trasformazione sociale ed economica del paese. Un processo di istituzionalizzazione cui la rappresentanza del lavoro deve andare incontro, non per assecondare una deriva burocratica, ma per legittimare il sindacato come controparte diretta delle discussioni di politica economica e gestione della macchina statale. Due attenti studiosi come Mario Regini e Lucio Baccaro hanno sottolineato, da diverse prospettive, come proprio gli anni Settanta coincidano con il primo timido tentativo (sostanzialmente fallito) di instaurare un sistema di tipo corporatista nel destrutturato contesto delle relazioni industriali italiane. L’accordo per la riforma della scala mobile, siglato da Lama e Giovanni Agnelli nel gennaio del 1975, è stato spesso descritto come “un patto fra produttori”, ed è stato seguito da diversi tentativi da parte sindacale di penetrare nel sistema di enti autonomi e commissioni speciali che soprintendeva al caotico processo di formazione delle scelte di politica industriale e sociale.[11]
Una strategia che potremmo definire neocorporativa era già stata delineata da Lama nel congresso della CGIL tenutosi a Bari nell’estate del 1973, in cui il Segretario avevo rilanciato l’impegno sindacale per una politica complessiva di riforme. Secondo Lama, per tutelare le conquiste contrattuali ottenute era necessario “uscire dalla fabbrica”, costituendo il sindacato come soggetto capace di portare avanti una proposta politica che unisse rivendicazioni salariali e lotta per l’occupazione, riforma dell’organizzazione del lavoro e riassetto degli squilibri economici. In sintesi, si trattava di ottenere quelle riforme di struttura che erano naufragate nel compromesso senza riforme degli anni Sessanta. Per fare ciò, però, non era possibile adottare un approccio vertenziale alle trattative con Governo ed imprenditori, sfruttando le lotte operaie per forzare il negoziato istituzionale. Come scrive lo storico Lorenzo Bertuccelli – riportando l’interpretazione di Adolfo Pepe – l’obiettivo di Lama era piuttosto quello di incanalare la ritrovata forza dei lavoratori “lungo l’asse delle trattative e dell’accordo globale con il sistema politico […]”, trasformando la conflittualità in capacità di influenza del policy-making pubblico.[12]
Questo impianto riemergerà, in forma ben più stringente, nel corso del 1977-1978, quando la federazione sindacale si troverà a fare i conti con gli effetti strutturali del rivolgimento economico aperto dalla crisi petrolifera del 1973. Di questo periodo viene sempre citata la famosa intervista concessa da Lama ad Eugenio Scalfari, nel gennaio del 1978, in cui il segretario proponeva “ai lavoratori una politica di sacrifici […] sostanziali”, facendo abiura dell’impostazione sindacale che nel corso degli anni precedenti aveva considerato il salario una variabile indipendente del sistema economico. Quel che meno spesso viene accennato è che Lama concepiva la moderazione salariale come contropartita di uno scambio politico con il blocco Governo-imprenditori che mettesse in primo piano il problema dell’occupazione. Di fronte alla ristrutturazione e al decentramento produttivo – in via di esaurimento la spinta delle mobilitazione nelle grandi fabbriche – la disoccupazione poteva minare alla base le conquiste ottenute dal movimento operaio. Contenimento dei salari e critica all’assistenzialismo improduttivo erano per Lama lo scotto da pagare per ottenere la partecipazione sindacale al governo dei processi innescati dalla crisi, attraverso la programmazione democratica degli investimenti. Malgrado la dialettica interna fra sindacato e Partito Comunista Italiano, è innegabile che il dibattitto economico interno al PCI abbia pesato sulla proposta del segretario. Insieme a Emanuele Macaluso, Giorgio Napolitano ed altri, Lama era parte di quella corrente migliorista del partito attenta a rispettare le compatibilità del sistema economico; un gruppo che proprio in questi anni riceveva con interesse le proposte dell’economista Franco Modigliani per un recupero di produttività del sistema industriale attraverso l’abbattimento del costo del lavoro. Una linea di politica dei redditi, in sostanza, che sarà esplicitamente rivendicata da Lama nella conferenza sindacale tenutasi al Palazzo dei Congressi dell’Eur di Roma, nel febbraio 1978.[13]
Malgrado i caratteri chiaramente neocorporativi di questa strategia, Lama sarà sempre attento ad evitare di parlare esplicitamente di patto sociale, espressione che sarebbe stata mal digerita dai propri iscritti. Per il segretario, la politica dei sacrifici non doveva avvenire sotto ricatto, ma come scelta autonoma del movimento operaio, senza portare all’istituzionalizzazione formale di uno scambio politico con il padronato. Proprio il volontarismo di questa impostazione contribuisce a spiegare i risultati limitati di quella che venne presto ribattezzata “linea dell’Eur”.[14] La moderazione delle rivendicazioni ed una maggiore flessibilità per quanto riguarda la mobilità della manodopera erano state accettate in ambito confederale ma erano molto più difficili da far digerire a livello delle singole categorie, impegnate nella contrattazione settoriale ed aziendale. Soprattutto, il basso grado di formalizzazione di questa proposta di scambio politico richiedeva un impegno superficiale da parte degli imprenditori, che mentre si dimostravano disposti a contrattare a parole, preparavano una controffensiva che si sarebbe materializzata di li a breve nell’annus horribilis del 1980.
Con gli anni Settanta si chiude il primo tentativo di introdurre un sistema di gestione corporatista delle relazioni industriali in Italia. Fra l’ottobre ed il novembre del 1980, la richiesta di cassa integrazione alla Fiat e la fine ufficiale della strategia del compromesso storico mettono fine al contesto di cogestione da cui dipendeva la proposta dell’Eur. Nella prima metà degli anni Ottanta, ormai al crepuscolo della segreteria di Lama, emergeranno nuove forme di concertazione tripartita fra Governo, imprenditori e sindacati per la gestione del problema dell’inflazione. Malgrado esse possano essere considerate parte di una dinamica neocorporativa, avvengono in un mutato contesto di riflusso del movimento operaio, in cui pochi spazi restano aperti per un’autonoma proposta sindacale che non sia di pura e semplice difesa. Se di corporatismo all’italiana di certo non si può parlare, il sostanziale fallimento a disciplinare il conflitto industriale emerso con l’autunno caldo non deve però impedirci di utilizzare alcuni dei concetti chiave della sociologia delle relazioni industriali. L’azione di Luciano Lama segretario della CGIL si è svolta nella direzione di una lotta senza quartiere al corporativismo settoriale ma aveva come idea polare quella di un sindacato corporatista ed organizzativamente solido, capace si assumersi le proprie responsabilità come soggetto e non solo oggetto della politica economica. Lama aveva una forte concezione indirizzata all’unità e la natura di classe del sindacato, contenitore capace di ricomprendere le molte realtà del mondo del lavoro. Aveva, però, anche l’acuto senso della parzialità della prospettiva del movimento operaio, che per essere veramente egemone deve porsi al centro di un sistema di contrattazione con gli altri blocchi della società.
[1] Salvo Leonardi, “Gli anni della concertazione: un excursus storico-politico”, in Alternative per il socialismo, 25, 2013, pp. 1-14.
[2] Si veda la collezione di scritti di Charles S. Maier. In Search of Stability: Explorations in Historical and Political Economy. Cambridge University Press, Cambridge, 1987, e l’articolo Philippe C. Schmitter, “Still the Century of Corporatism?”, in The Review of Politics, 36:1, 1974, pp. 85–131.
[3] Carlo Dell’Aringa and Manuela Samek Lodovici, “Industrial Relations and Economic Performance”, in Tiziano Treu (ed.), Participation in Public Policy-Making. The Role of Trade Unions and Employers’ Associations, De Gruyter, Berlin, 1992, p.33.
[4] “Il compagno Lama segretario generale della CGIL”, in l’Unità, 25 Marzo 1970, p.4.
[5] “Passi avanti per gli statali Oggi assemblea dei ferrovieri”, in l’Unità, 30 settembre 1976, p.6
[6] Lorenzo Bertuccelli, Luciano lama, Sindacato, società e crisi economica (1969-1986), Maurizio Ridolfi (ed.), “Luciano Lama, Sindacato, “Italia del Lavoro” e democrazia repubblicana nel secondo dopoguerra”, Ediesse, Roma, 2006, p.264.
[7] Alessandro Casellato (ed.), “Lavoro e conoscenza” dieci anni dopo, Firenze University Press, 2014, p. 61.
[8] Alexander Hobel, Organizzazione e lotte sindacali (1948-1969), in Maurizio Ridolfi (ed.), “Luciano Lama, Sindacato, “Italia del Lavoro” e democrazia repubblicana nel secondo dopoguerra”, Ediesse, Roma, 2006, p.126.
[9] Unità e autonomia sindacale nel pensiero di Di Vittorio, in L’Unità, 15 dicembre 1977, p.4.
[10] Intervento di Emanuele Macaluso al convegno Luciano Lama, partigiano sindacalista e politico, in “patria indipendente”, 24 luglio 2011, p.33.
[11] Lucio Baccaro, the Construction of “Democratic” Corporatism in Italy, in “Politics and Society”, 30:2, 2002, pp.327-357 and Mario Regini, the conditions for political exchange: how concertation emerged and collapsed in Italy and Great Britain, in John Goldethorpe (ed.), “Order and Conflict in Contemporary Capitalism”, Oxford University Press, New York, 1984, pp.124-142.
[12] Bertuccelli, Op.Cit., 2006, p.281.
[13] Francesco Cattabrini, Franco Modigliani and the Italian Left-Wing: the Debate over Labor Cost (1975-1978), in “History of Economic Thought and Policy”, 0(1), 2012, pp. 75-95.
[14] Bertucelli, Op.Cit., 2006, p.304.
Fonte: quattrocentoquattro.com
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