di Norma Rangeri
La fabbrica del referendum ha lavorato per otto mesi, da maggio a dicembre. Nemmeno l’alambicco di mago Merlino saprebbe distillare un filtro magico capace di neutralizzare l’iniezione di demagogia e cialtroneria che è stata prodotta e iniettata nelle vene del paese. Seppure non è in gioco la democrazia contro la dittatura, è certamente stata la più brutta campagna elettorale della storia repubblicana. Oltre all’enfasi dei comizi, all’occupazione forsennata delle tv, sono scesi in campo i social network con bufale e previsioni apocalittiche da una parte e dall’altra.
Se non fossero in gioco 47 articoli della Costituzione, potremmo anche prenderlo come un grande sondaggio sulla penetrazione del populismo in Italia perché a confrontarsi, l’uno contro l’altro, seppure con una potenza di fuoco sbilanciata, sono stati Renzi e Grillo. Un duello tra chi è il leader più anticasta, tra chi ha la ricetta migliore per rottamare il vecchio sistema.
Solo che, tra i due, una distinzione dobbiamo pur farla, non fosse altro per il fatto che un populismo viene dispensato direttamente dal governo e arriva fin nella nostra buca delle lettere, l’altro invece combatte dall’opposizione. Da una parte c’è il governo che promette di rottamare la casta, dall’altra c’è un movimento che tiene a bada il suo recinto elettorale assicurando di non diventarlo mai.
Ad agitare l’alambicco populista contribuisce sicuramente la forte trasversalità di questo voto. Succede sempre quando la scelta non va a un partito ma veste i panni semplici di un Sì o un No. In questo caso orientati da una forte valenza simbolica tra chi vuol cambiare e chi vuol conservare. Il Sì afferma, il No nega. E una forte corrente trasversale ha diviso il campo della sinistra dove le ragioni del No purtroppo spingeranno molti a votare Sì.
Dal caso più eclatante di Romano Prodi che, dopo aver spiegato perché non si dovrebbe approvare la riforma, si tura il naso e la vota. Ai casi che ciascuno di noi ha incontrato in questi mesi, donne e uomini di sinistra che fanno lo stesso ragionamento prodiano.
Alla base di questo comportamento c’è la convinzione di togliere la bandiera di una eventuale vittoria del No a Grillo e alla destra di Berlusconi, Salvini e Meloni.
Ma questa apparente prova di sennatezza, e non è un trascurabile dettaglio, sorvola del tutto sul merito della scelta, lasciata sfumare in lontananza. Così lo schieramento travalica la questione costituzionale per misurarsi solo con la questione politica.
Il dilemma dei No che diventano Sì in realtà dovrebbe essere sciolto molto semplicemente: con il No la sinistra batte un colpo, con il Si ha tutto da perdere nel merito e in prospettiva. Perché il plebiscitarismo renziano si rafforzerebbe, le minoranze interne verrebbero tacitate e accompagnate all’uscita.
Se la sinistra vuole avere ancora un campo di gioco regolato dalle garanzie costituzionali, nel parlamento, nel capo dello stato, e nelle altre istituzioni repubblicane il No garantisce un habitat democratico e spinge verso una riforma elettorale che torna alle coalizioni. Il minimo indispensabile.
Cosa accadrà oggi non lo sappiamo anche se sulla carta i numeri dicono che il No dovrebbe vincere con largo margine perché somma uno schieramento politico che va da Sel a Fratelli d’Italia, oltre il 60%. A fronte dell’altro fronte in battaglia dove, in teoria, Renzi può contare solo su larga parte del Pd oltre a Ncd e verdiniani. Del resto è stata questa la grancassa risuonata nella forsennata propaganda, accreditata dai sondaggi e alimentata dalla televisione.
Ma, oltre alla trasversalità di chi si recherà al seggio, giocheranno un ruolo importante le astensioni alimentate anche, se non principalmente, dalla difficoltà di orientarsi nel merito. Quando al referendum costituzionale del 2006 gli elettori vennero chiamati a esprimersi sulla riforma di Berlusconi l’astensione fu del 47,6%.
Alla fine se sarà un testa a testa, e il Sì dovesse prevalere con uno scarto minimo (magari grazie alla manna dei voti all’estero), Renzi si sentirà in grado di governare e di replicare il risultato al momento delle elezioni politiche. Mentre la sconfitta nell’urna referendaria provocherebbe uno sconquasso anche nel Pd, con il presidente del consiglio costretto a dimettersi da segretario.
In ogni caso vittoria o sconfitta di un fronte o dell’altro dipenderà molto dagli astenuti che ognuno si porta dietro. È questo l’aspetto interessante perché anche se il quorum non è importante, nel referendum di oggi una partecipazione inferiore del 50% marcherebbe un ulteriore distacco degli italiani dalla politica. O da un certo modo di fare politica.
Fonte: il manifesto
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