La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 18 aprile 2017

Brecht e la dialettica servo-padrone

di Renato Caputo e Rosalinda Renda
“Davvero, vivo in tempi bui!”, così iniziava la celebre poesia di Brecht rivolta nel 1939 A coloro che verranno “quando sarà venuta l'ora che all'uomo un aiuto sia l'uomo”, invitandoli a pensare “a noi” – uomini costretti a vivere in tempi oscuri – “con indulgenza”. Purtroppo da allora tutto è mutato affinché nulla mutasse realmente, i nazi-fascismi sono stati sconfitti dai comunisti e dai loro temporanei alleati, la grande borghesia, che ha finito dopo una lunga “guerra fredda” per riprendere almeno in Occidente il controllo della situazione. In Italia, terra natale del fascismo, e più recentemente del berlusconismo – prodotti doc del made in Italy che si continuano a esportare in tutto il mondo, in particolare in tempi di crisi – siamo di nuovo precipitati in tempi bui.
Il monito lanciato da Brecht poco dopo la sconfitta nel 1945, aggiunto al dramma in cui aveva descritto la resistibile ascesa al potere del nazionalsocialismo, è stato decisamente sottovalutato e la madre sempre gravida dei fascismi ha ripopolato il mondo, di una specie troppo presto data per estinta.
Non è, dunque, un caso che per poterci godere, apprendendo, una grande opera di Brecht a Roma abbiamo dovuto aspettare circa otto anni, se si fa eccezione per un’opera minore come La resistibile ascesa di Arturo Ui, per altro in una cattiva messinscena nel 2011, e per una rappresentazione de La madre, passata per un solo giorno due anni fa grazie alla rassegna Le vie dei festival. Un buon esempio della libertà puramente formale di espressione in un regime imperialista, considerato che quello che da molti critici è considerato il più grande drammaturgo del Novecento torna in scena nella capitale di Italia dopo tanti anni per meno di una settimana.
La grande lezione di Brecht, ottimamente sintetizzata nella locandina del teatro Quirino, dove Mr Puntila è andato in scena, “Non bisogna mai fidarsi dei padroni”, mantiene purtroppo completamente intatta la sua carica rivoluzionaria, in particolare in un paese in cui la maggiore forza della “sinistra” e i sindacati di massa portano avanti da anni una politica di concertativa. In tal modo hanno ridotto al lumicino la coscienza di classe e, con essa, la lotta di classe dal basso, facendosi garanti della pace sociale da parte dei subalterni, in cambio di concessioni sempre più avvelenate da parte del padronato.
La geniale commedia di Brecht è tutta volta a smentire proprio tale logica neocorporativa, mostrando come sia la logica strutturale del modo di produzione capitalistico a imporre un necessario antagonismo fra gli imprenditori, costretti per sopravvivere come tali dall’altrettanto spietata logica della concorrenza, a sfruttare al massimo la forza-lavoro, e quest’ultima costretta per riscattare la propria umanità, negata dall’alienazione del lavoro salariato, a rovesciare il dominio borghese.
Brecht, che proprio nella prima strofa della poesia “A coloro che verranno” scriveva, a proposito di chi vive nei tempi bui, 
“Chi ride,
la notizia atroce
non l'ha saputa ancora”, appena un anno dopo, nell’ancor più tragico 1940, in costante fuga dinanzi al dilagare in Europa delle orde Nazi-fasciste, compone quella che lui stesso definisce nel prologo una farsa dal momento che:
“i tempi son tristi: è saggio chi è in ansia, cretini i vanesi” e, tuttavia, “non vince le angustie chi ha perso del riso il gusto”.
Come aveva chiarito, in un purtroppo altrettanto attualissimo scritto del 1935: “Chi ai nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata; l'arte di renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di divulgarla fra questi ultimi. Tali difficoltà sono grandi per coloro che scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei paesi della libertà borghese”.
Dunque oltre che il coraggio per esprimere la verità – in un mondo in cui se lo fai, pur essendo il maggiore drammaturgo del secolo, rischi la vita e anche post mortem la censura diretta, o la più subdola censura indiretta – è necessaria “l’accortezza di riconoscerla”. A tal proposito, nel geniale Dialoghi di profughi, Brecht chiariva: “Una conoscenza più o meno completa del marxismo costa oggi – mi ha assicurato un collega – dai venti ai venticinquemila marchi-oro, e senza tutte le finezze e i dettagli. Per meno non si ottiene niente di veramente buono, al massimo un marxismo di mezza tacca, senza Hegel o senza Ricardo, ecc. E per di più il mio collega calcola soltanto le spese per libri, tasse universitarie e ore di lavoro, e non quello che uno ci rimette per via delle difficoltà che incontra nella carriera, o per eventuali detenzioni, e tralascia anche il fatto che nelle professioni liberali l’efficienza diminuisce notevolmente, dopo una lettura approfondita di Marx; in determinati campi, come la storia e la filosofia, non si ridiventa mai più veramente “bravi” dopo esser passati attraverso Marx”. Oltre a ciò, è altrettanto necessario per far conoscere la verità, che come ricorda Lenin è sempre rivoluzionaria, “renderla maneggevole come un'arma”, ossia comunicarla nel modo più efficace. Da questo punto di vista, scegliendo per trasmetterla il modo più diretto e immediato dell’arte, è indispensabile che il pubblico possa conoscerla mediante il godimento che quella particolare esperienza estetica provoca. Da qui la necessità – pur in tempi così bui, con i nazisti sempre più alle calcagna – di affrontare e mediare le questioni più complesse, a partire dalla dialettica hegeliana servo-padrone – al centro dell’opera – nel modo più diretto e divertente possibile.
Anche perché per “combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità” è altrettanto indispensabile acquisire “l'avvedutezza di saper individuare coloro nelle cui mani essa diventa efficace”, ossia in primo luogo quel proletariato moderno che, a causa dell’alienazione disumanizzante in cui è costretto a vivere dalla logica spietata del capitalismo, è generalmente privo dei mezzi, culturali ed economici, per comprenderla. A questo proposito osserva provocatoriamente Brecht: “Karl Marx, era freddino assai nel giudicare le qualità morali del proletariato? Gli ha fatto anche dei complimenti, lo riconosco, ma che i proletari siano esseri subumani Goebbels l'ha preso direttamente da Karl Marx”. Tuttavia, Marx non intendeva certo insultare i lavoratori ma denunciare “che da parte della borghesia viene fatto loro un insulto”, ossia al proletariato viene “negata l'umanità, cioè il suo essere uomo, così che è costretto a fare qualcosa, disumanizzato com'è in un mondo dove per lui l'essere umano è particolarmente importante”.
Proprio perciò nel prologo al Puntila Brecht definisce la sua opera non una commedia, ma addirittura una farsa e aggiunte come monito:
“Ma, attenti! signori, 
gli scherzi che udrete non stiamo a pesarli
a grammi, a millesimi; ma a cesti, a quintali!
Pesateli come patate: ed ancora
cercate aiutarvi un po’ con l’accetta”.
Così, in modo di nuovo provocatorio, Brecht denuncia un difetto fondamentale degli intellettuali, in generale necessariamente borghesi, che vorrebbero combattere la menzogna affermando la verità, ma non possono ammettere che solo nelle mani del proletariato moderno, per quanto condannato dalla società capitalista a una condizione “subumana”, tale verità può affermarsi divenendo un’arma di emancipazione per l’intera società. Al contrario tali intellettuali tradizionali tendono a rivolgersi essenzialmente alla loro classe, o al più al ceto medio riflessivo, utilizzando un linguaggio generalmente intellettualistico, viziato di formalismo, che rende i contenuti veritativi delle loro opere scarsamente fruibili dal proletariato e certamente poco maneggevoli, tanto da apparire delle armi spuntate.
Proprio perciò tali intellettuali tradizionali, anche quando non sono affetti da snobismo, e cercano di rivolgersi a un pubblico anche popolare, mancano dell’astuzia necessaria a raggiungerlo. Brecht, al contrario, nel Puntila riesce a mediare a un pubblico anche proletario dei contenuti decisivi per lo sviluppo della coscienza di classe, utilizzando astutamente un genere letterario propriamente popolare come quello della farsa, dal quale gli intellettuali tradizionali tendono a tenersi distanti, per paura di contaminarsi. Infine le opere di Brecht, utilizzano in modo altrettanto astuto, per penetrare nel pubblico proletario gli stilemi del grande cinema americano, arte popolare per eccellenza, nel caso del Puntila richiamandosi esplicitamente al capolavoro Luci della città di Charlie Chaplin, un regista non a caso perseguitato come un pericoloso sovversivo, proprio per la sua capacità di mediare contenuti veritativi e potenzialmente rivoluzionari a un pubblico popolare.
Un po’ come il comunismo, definito da Brecht come “la semplicità che è difficile a farsi”, il suo teatro e nel caso specifico il Puntila, pur essendo così “ragionevole”, che “chiunque lo capisce”, pur essendo così immediato e “facile” per cui se “non sei uno sfruttatore, lo puoi intendere”, è in grado di far riflettere su profondi contenuti filosofici – a partire da una figura chiave della Fenomenologia dello spirito, su aspetti decisivi del socialismo scientifico – e su decisivi psicoanalitici decisivi per la comprensione della società a capitalismo avanzato.
A tal proposito ritroviamo nel Puntila un tema chiave che sarà al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, esponenti di quella Scuola di Francoforte nei confronti della quale Brecht polemizzerà esplicitamente proprio per l’attitudine da Tui, da mandarini in ultima istanza funzionali alla classe dominante, in quanto sviluppano una cultura del tutto elitaria e inaccessibile alle masse popolari. Tanto che i Francofortesi, ad eccezione di Benjamin, per altro non organico alla Scuola, non riusciranno a intendere la grandezza dell’opera di Brecht, confondendo “la semplicità che è difficile a farsi”, con un’arte semplicistica e plebea.
Il tema comune centrale tanto nel Puntila, quanto in altra forma nella Dialettica dell’illuminismo, è quello dell’interna dialettica autodistruttiva della società capitalistica, che cela dietro la sua apparente liberalità, non solo il progressivo dominio di una ristretta oligarchia sul resto dell’umanità, ma il più completoasservimento dell’individuo al sistema sociale. L’individualismo liberale si rovescia, infatti, nel proprio contrario non solo perché la forza-lavoro vivente è completamente asservita al lavoro morto delle macchine e del capitale, ma lo stesso capitalista deve sacrificare completamente la propria libertà individuale alla propria funzione sociale di classe dominante. Il prezzo di tutto ciò non è solo la perdita della libertà individuale, ma anche la negazione della tendenza naturale dell’uomo alla felicità.
Così gli elementi del mito di Ulisse e le sirene, richiamato da Horkheimer e Adorno, per descrivere la logica autodistruttiva della società capitalista, sono altrettanto ben delineati nel Puntila di Brecht. Anche qui abbiamo, rappresentati nel modo più diretto e vivo, il destino dei subalterni, i marinai del mito, che sono ridotti a meri strumenti della produzione e, quindi, non possono nemmeno ascoltare il richiamo delle sirene a quel principio del piacere, inestricabilmente connesso al nostro essere più profondo. D’altra parte anche il ricco borghese, come Ulisse, pur monopolizzando il privilegio di poter udire tale canto, non può cedere all’invito al piacere e alla felicità perché prigioniero del suo alienante e disumano ruolo sociale. Ecco così Puntila costantemente costretto a cercare rifugio in un’altra forma di alienazione, indispensabile a rendere sopportabile la prima, quella dell’alcolismo, in quanto solo quando è ubriaco riesce a riconquistare una parvenza di libertà, felicità e, dunque, di umanità, che perde immediatamente nel momento stesso in cui il diabolico meccanismo sociale di cui è a sua volta divenuto mero strumento, lo costringe a tornare a essere sobrio.

Fonte: lacittafutura.it 

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