La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 9 aprile 2017

Il reddito di base contro la nuova logica dello sfruttamento

di Emanuele Leonardi e Giacomo Pisani 
Nella Presentazione abbiamo sottolineato attualità, eterogeneità e originalità dei materiali contenuti in questo numero monografico di Etica e politica. Qui ci sembra doveroso esplicitare il nostro ruolo di curatori rispetto a essi. Non ci interessava, infatti, proporre un’asettica mappatura delle posizioni in campo, bensì stimolare un dibattito a partire dall’evidente parzialità della nostra prospettiva. Le cinque domande che compongono il questionario, come del resto ci è stato frequentemente fatto notare nelle risposte, tradiscono il luogo da cui vengono enunciate. Questo luogo è la tradizione teorica in cui ci siamo formati e al cui interno formuliamo le nostre ipotesi di ricerca, cioè il neo-operaismo. Va detto immediatamente che, se da un lato tale corrente di pensiero è tutt’altro che monolitica al suo interno, dall’altro la nostra adesione a essa si dà in modi particolari che, speriamo, ci permettono di scorgerne i limiti oltre che le potenzialità – e soprattutto non ci impediscono di instaurare un dialogo fruttuoso con altre linee interpretative.
Nello specifico, dunque, lo sfondo teorico su cui proiettiamo le nostre riflessioni è quello dell’analisi dello sfruttamento contemporaneo, segnato dalla compresenza di due logiche fondamentali, cioè sussunzione e imprinting. La nostra ipotesi è che il reddito di base dovrebbe essere compreso come riconoscimento politico-monetario – imposto per via conflittuale – di quella quota di attività produttiva che subisce lo sfruttamento capitalistico pur non dandosi in forma di lavoro salariato. Proviamo di seguito a sviluppare questa ipotesi in cinque passaggi. Concludiamo con alcune 
considerazioni sui materiali di questo numero monografico, cercando di articolarne affinità e divergenze.
SUSSUNZIONE E LAVORO SALARIATO 
Nel Capitolo VI inedito del Capitale Marx introduce la categoria di sussunzione del lavoro al capitale, sdoppiata in sussunzione formale e sussunzione reale. La nozione è tratta originariamente da Aristotele, poi dalla Critica del Giudizio di Kant, dove la parola (die Subsumtion, dal verbo subsumieren, cioè inquadrare in una classificazione) indica la riconduzione di un termine al rapporto insieme di inclusione e di subordinazione che gli è imposto rispetto a un termine più esteso. Marx utilizza la nozione al di fuori dell’ambito della logica, in cui è stata concepita, riconfigurandola in modo da inquadrarvi i termini, storico-sociali oltre che logici, di capitale e lavoro. I concetti di sussunzione formale e sussunzione reale sono mobilitati da Marx per qualificare, nella loro successione logico-storica (non storicistica), due diversi meccanismi di subordinazione del processo di lavoro da parte del capitale. Laddove la sussunzione formale corrisponde a quel periodo del capitalismo pre-industriale in cui lo sfruttamento del lavoro e la sua sottomissione al capitale si attua sulla base di un processo lavorativo a esso pre-esistente, la sussunzione reale implica che tanto i saperi quanto le capacità lavorative vengano totalmente espropriati e inglobati nel capitale costante. In altre parole: laddove la sussunzione formale opera la colonizzazione di ambiti ancora (almeno parzialmente) non capitalistici, la sussunzione reale produce invece un’intensificazione, un approfondimento del processo di mercificazione. 
La relazione tra le due tipologie di sussunzione ha rappresentato un motivo di dibattito costante nella tradizione marxista. Per i nostri scopi, tuttavia, è sufficiente rilevare come la continuità logica tre le due tipologie di sussunzione sia costituita dal rapporto salariale. Con le parole di Marx: “La ricchezza materiale si trasforma in capitale solo perché l’operaio, per poter campare, vende la propria capacità lavorativa; solo di fronte al lavoro salariato le cose che sono le condizioni oggettive del lavoro, cioè i mezzi di produzione, e le cose che sono le condizioni oggettive del mantenimento dell’operaio, cioè i mezzi di sussistenza, diventano capitale [...] Il lavoro salariato, o il salariato, è perciò una forma sociale necessaria del lavoro per la produzione capitalistica, esattamente come il capitale, il valore potenziato, è una forma sociale necessaria che le condizioni oggettive del lavoro devono assumere affinché il lavoro sia lavoro salariato”.
L’IMPRINTING NELLA CRISI DELLA SOCIETÀ SALARIALE 
Detto con la massima chiarezza: riteniamo che un’analisi della composizione di classe nel capitalismo contemporaneo renda molto problematica la tesi secondo cui il lavoro salariato sarebbe la condizione necessaria ed esclusiva dello sfruttamento capitalistico. Ancora prima di mostrare il perché, vorremmo sottolineare due elementi, a scanso di equivoci: a) sostenere che il salario non sia più l’unico elemento significativo per l’analisi dello sfruttamento non significa che esso sia divenuto residuale o addirittura superfluo. Si tratta, più modestamente, di rilevare la progressiva perdita di esclusività del salario quale condizione ed esito dei processi di valorizzazione: insomma, se per Marx c’è sfruttamento se e solo se c’è salarizzazione, a noi è invece parso ragionevole ipotizzare che parte dello sfruttamento contemporaneo si dia al di fuori del rapporto salariale; b) la nozione di salario non può essere ridotta alla sua pur fondamentale determinazione economica. Nel corso dei cosiddetti Trenta Gloriosi post-bellici, il salario diventa infatti l’architrave istituzionale di un regime di crescita che Robert Castel ha opportunamente definito società salariale. Essa si presenta come “il prodotto della diffusione e dell’incorporazione sociale del rapporto salariale sviluppatosi con la nascita della società industriale. Tale evento segna l’integrazione del salariato nell’ambito della circolazione delle ricchezze prodotte per impulso del capitalismo: da una parte le limitazioni all’accumulazione di capitale hanno aperto nuovi mercati costituiti dall’integrazione dei salariati nei consumi; dall’altra la subordinazione del salariato nella produzione si è normalizzata attraverso la conquista di diritti sociali che danno accesso alla proprietà sociale”.
Alla luce di queste premesse è possibile leggere nel progressivo sgretolarsi della società salariale, iniziato attorno alla metà degli anni Settanta e accelerato dall’ascesa del neoliberalismo come nuova ragione del mondo, una duplice dinamica: un ulteriore giro di vite per quanto riguarda lo sfruttamento per sussunzione, da un lato; dall’altro l’emergere di una nuova logica dello sfruttamento – l’imprinting – volta a espropriare plusvalore prodotto al di fuori del rapporto salariale. Si tratta di una mutazione profonda delle strutture regolative della mediazione sociale – che rimane tuttavia segnata dall’assiomatica del capitale (produrre ed espropriare plusvalore). La sussunzione, infatti, non solo implica un’alterità radicale tra capitale e lavoro, ma racchiude in sé la possibilità di un compromesso quale quello fordista (in buona sostanza, conflitto “controllato” in cambio di integrazione attraverso l’accesso al consumo di massa). Nel fordismo la sussunzione impone un’omogeneità spaziale, temporale e soggettiva invariabilmente fondata sulla “struttura” del lavoro salariato e sulla successione dei suoi “momenti” (formazione – apprendistato – erogazione “normale” di manodopera – pensionamento). La produzione di soggettività che avviene all’interno di questo paradigma è relativamente stabile dal momento che le due figure tendenziali che l’attraversano (salariati venditori di forza lavoro e capitalisti acquirenti di forza lavoro) rappresentano simultaneamente condizioni ed esiti del processo.
Al contrario, l’imprinting incita i soggetti sociali ad assumere la forma-impresa, a rivendicare la competizione individuale come mezzo d’emancipazione, a investire sul proprio capitale umano per realizzarsi. Di qui la doppia ingiunzione dell’imperativo categorico del capitalismo contemporaneo: 
(a) sii ciò che vuoi, agisci la tua autonomia, purché (b) la risultante della tua azione sia traducibile nell’assiomatica del capitale. In altre parole, si tratta di un’inclusione differenziale basata sull’apparente paradosso di un controllo sociale che si esprime attraverso la produzione di libertà, di un dispositivo di governo che organizza la produzione sociale incitando all’autonomia soggettiva. Per questo l’imprinting dischiude uno spazio di sfruttamento al di là della relativa omogeneità necessaria al dispiegarsi della dinamica salariale: esiste una specifica forma di subordinazione che trae linfa dall’indefinitezza, piuttosto che esserne minacciata. 
CENTRALITÀ DELLA RIPRODUZIONE SOCIALE 
Per meglio comprendere le nuove forme dello sfruttamento contemporaneo riteniamo occorra mettere a fuoco i modi attraverso cui il capitale mette a valore la sfera della riproduzione sociale, sia nei sui elementi tradizionalmente legati al salario (ma in ogni caso non perfettamente sovrapponibile ad esso) – cioè consumi e risparmi – sia nelle sue dinamiche un tempo considerate “improduttive” (ambito relazionale/affettivo/comunicativo, ambiente naturale, formazione, ecc.). Da questo punto di vista è fondamentale riagganciarsi agli esiti della critica femminista dell’economia politica. La messa in discussione della subalternità del momento riproduttivo rispetto a quello produttivo è infatti condizione necessaria per l’analisi degli scenari post-salariali che abbiamo di fronte. Si deve dunque parlare di femminilizzazione del lavoro per indicare non tanto “l’aumento quantitativo della popolazione attiva femminile a livello globale”, ma anche e soprattutto per definire “la qualità del lavoro contemporaneo […] il carattere paradigmatico del ruolo che le donne svolgono all’interno dell’economia globale”. Sempre più il lavoro contemporaneo assume la cura come modello di riferimento, tende cioè ad esibire tratti tipicamente “femminili” – affettivi, relazionali, orientati alla condivisione, ecc. 
Questo passaggio, il cui carattere di novità a noi pare evidente, è colto con grande efficacia anche da Alisa del Re: "Nel polimorfismo attuale dei rapporti di lavoro verifichiamo che l’‘industriosità sociale’ è molto più ampia dei rapporti di lavoro salariati normati […] Quando esiste un salario per il lavoro di riproduzione, non registra la novità dei rapporti, esso paga ancora, e in termini spesso minimalistici (assenza di conflitto) solo le ore di lavoro. E qui si presenta un paradosso difficilmente spiegabile: i ‘lavori’ che producono ‘società’ (e cioè riproducono condizioni di vita accettabili) non sono salariati con il criterio necessario al loro tipo ‘speciale’ di produzione. Un lavoro relazionale ‘nuovo’ viene salariato in termini ‘vecchi’ e cioè contando il lavoro e non i bisogni soddisfatti […] Tra le conseguenze, una di carattere squisitamente qualitativo è legata al fatto che soggettività e relazione, passione e affettività, connotati tradizionali della sfera privata e riproduttiva dell’esistenza umana, sono diventate risorse fondamentali nel mondo della produzione di merci." 
Una conseguenza paradossale di questa centralità della riproduzione è che nell’epoca della crisi conclamata del lavoro salariato il tempo di lavoro si dilata a dismisura e finisce col sovrapporsi al tempo di vita fino a rendere le due temporalità pressoché indistinguibili. Salvatore Cominu, che ai processi di lavorizzazione della capacità umana ha dedicato studi fondamentali, lega questa dilatazione all’emergere di una “logica iper-industriale” capace di articolare “lavori relativamente proceduralizzati ed eterodiretti e lavori ‘liberi’, skill neo-artigianali, reti cooperanti apparentemente endo-organizzate e finanche un’ampia gamma di prestazioni extra-salariali (al cui interno occorrerebbe però distinguere tra salariati di fatto, prestazioni remunerate con monete simboliche e attività del tutto desalarizzate che tuttavia ‘danno valore’)”. Ciò che distingue il nostro approccio da quello di Cominu è che mentre a suo avviso lo scenario appena delineato (che ci trova completamente d’accordo) implica “la tendenza verso un grado più avanzato, dal punto di vista capitalistico, di sussunzione della capacità umana”, a noi pare che per comprendere detto scenario sia necessario affiancare alla logica della sussunzione una nuova logica dello sfruttamento, cioè l’imprinting.
DAL SALARIO AL CAPITALE UMANO 
L’imprinting segna dunque a nostro parere una fondamentale riconfigurazione dei rapporti sociali di produzione. Affinché possa darsi, tuttavia, è necessaria una nuova concettualizzazione del lavoro. Ed è sotto quest’aspetto che la teoria del capitale umano – basata su un rapporto individualistico e speculativo alla capacità lavorativa e al sapere pratico- produttivo – diventa centrale. Per capitale umano s’intendono genericamente qualità considerate come esterne al processo economico, quali competenze linguistiche, capacità relazionali, propensioni affettive, attitudine alla cura, ecc. Tuttavia la sua teorizzazione neoliberale, sviluppata dalla Scuola di Chicago (in particolare Theodore Schultz, Gary Becker e Jacob Mincer) negli anni Sessanta e Settanta, ambiva soprattutto a diffondere il cosiddetto imperialismo economico, vale a dire la generalizzazione delle relazioni di mercato alla totalità degli ambiti sociali. Infatti, solo nel momento in cui la razionalità economica letteralmente colonizza tutte le sfere del sociale sarà possibile istituire il parallelo tra investimenti in capitale umano dell’individuo-impresa (formazione) e investimenti in capitale fisso (macchinari) delle aziende propriamente intese. L’unica differenza rilevante riguarda i titoli di proprietà: diversamente dal capitale fisso, il capitale umano appartiene solo all’individuo che lo detiene, è inalienabile e quindi non scambiabile tramite compravendita. 
Ciò che tuttavia occorre sottolineare è che la teoria del capitale umano permette di pensare qualità genericamente sociali come quelle citate poc’anzi  – e quindi anche la capacità lavorativa – come capitale. Il lavoro non rappresenta più (soltanto) l’“altro” del capitale, il suo negativo: si presenta piuttosto come una delle sue forme possibili. 
Com’è possibile questo passaggio? A livello concettuale l’analisi che ci pare più significativa è quella di Michel Foucault. In Nascita della biopolitica, infatti, poco prima di discutere le applicazioni della teoria del capitale umano ai più svariati campi (pena di morte, matrimonio, propensione al crimine, ecc.), Foucault nota che “i neoliberali non discutono praticamente mai con Marx, per ragioni che potremmo forse considerare di snobismo economico”. 
Se l’avessero fatto, tuttavia, si sarebbero probabilmente resi conto che quando Marx esamina il lavoro lo fa a partire dalla forza lavoro, cioè da quella potenza che l’operaio vende “per un certo tempo, e in cambio di un salario stabilito da una data situazione di mercato che corrisponde all’equilibrio tra la domanda e l’offerta di forza lavoro”. Essendo che tale equilibrio cela la sottrazione di una quota del valore prodotto dalla forza lavoro, Marx può concludere che lo sfruttamento rappresenta la logica fondamentale del capitalismo. “Ma in cosa consiste questa logica?”, domanda Foucault; e risponde: “Nel fatto che il lavoro è ‘astratto’ [...] amputato di tutta la sua realtà umana, di tutte le sue variabili qualitative”. Fin qui Marx e i neoliberali sarebbero in sintonia: le strade si separerebbero – a detta del Foucault interprete dei Chicago Boys – a partire dall’individuazione del responsabile di questa astrazione. Per Marx, il colpevole è il capitalismo, tanto come meccanismo logico quanto come realtà storica. Per i neoliberali, invece, si tratterebbe di un errore commesso dagli economisti classici: fino a che l’oggetto specifico dell’economia sarà l’insieme di “processi, capitale, investimento, macchina, prodotto, ecc.”, allora il lavoro non potrà che subire un processo di astrazione. Se invece ci si vorrà cimentare davvero con “l’analisi del lavoro in termini economici”, cioè con il lavoro nella sua dimensione concreta, allora “ci si dovrà mettere nella prospettiva di chi lavora; si dovrà studiare il lavoro come comportamento economico”. Una volta stabilite queste premesse, Foucault può concludere: “Schultz o Becker si chiedono: perché, in fondo, le persone lavorano? Naturalmente, per avere un salario. Ma che cos’è un salario? Dal punto di vista del lavoratore, il salario non è il prezzo di vendita della sua forza lavoro, ma èun reddito. Che cos’è un reddito? È semplicemente il prodotto o il rendimento di un capitale. E, inversamente, si chiamerà ‘capitale’ tutto ciò che può essere, in un modo o nell’altro, fonte di redditi futuri. Di conseguenza, se si ammette che il salario è un reddito, sarà dunque il reddito di un capitale”.
Qui sta a nostro avviso il passaggio cruciale: affinché il capitale umano possa diventare un dispositivo di governo pienamente dispiegato occorre che il salario sia leggibile in termini meramente reddituali, cioè che la sua dimensione istituzionale sia stata cancellata, che la sua capacità di mediare tra acquirente (individuale) e venditore (collettivo) di forza lavoro sia esplosa, venuta meno. È il tramonto del salario come forma egemone della mediazione che permette al capitale umano di innestarsi saldamente nel cuore della razionalità di governo neoliberale, di diventarne l’ancoraggio antropologico. 
Ci pare che l’ipotesi dell’imprinting colga questo elemento e permetta di rimettere al centro dell’analisi il rapporto tra capitale umano e sfruttamento, troppo spesso oscurato dal dibattito tra coloro che enfatizzano l’autonomia della condizione post- o para-salariale e coloro che ritengono il neoliberalismo una macchina ideologica simil-totalitaria. Dire sfruttamento, infatti, vuol dire individuare di un terreno di conflitto, ed è chiaro che la nostra scommessa è che l’analisi dell’imprinting possa giovare alle lotte che attraversano il campo sociale, qui e ora.
Un’ulteriore precisazione ci pare necessaria: l’emergere di una nuova logica dello sfruttamento non implica affatto la scomparsa di quella coeva all’ascesa del capitalismo. Sussunzione e imprinting non sono legate da una rapporto di mutua esclusione (aut aut), bensì da compresenza e reciproca articolazione (e...e). L’egemonia neoliberale, d’altronde, mostra con chiarezza che l’emergere dello sfruttamento attraverso capitale umano – si pensi al lavoro gratuito cui spesso ci si auto-condanna “perché fa curriculum” – può tranquillamente accompagnarsi ad un giro di vite sullo sfruttamento per sussunzione – per esempio l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori operato dal Jobs Act.
L’IMPRINTING E IL REDDITO DI BASE 
Quale ruolo può svolgere, in questo contesto, il reddito di base? Come accennato in precedenza, a nostro avviso il reddito di base dovrebbe essere compreso come riconoscimento politico-monetario – imposto per via conflittuale – di quella quota di attività produttiva che subisce lo sfruttamento attraverso l’imprinting, cioè al di là del rapporto salariale che informa la logica della sussunzione. Come sostiene Davide Gallo Lassere, il reddito sociale garantito “può così costituire il pilastro di una potente ricomposizione di classe, facendo convergere e articolando tra di loro le esigenze differenti di una pluralità di soggettività”.
Liberando l’attività produttiva extra-salariale dallo sfruttamento, esso costituisce la pre-condizione fondamentale per la riappropriazione conflittuale della decisione circa tempi e modi della produzione, nonché per lo sviluppo di nuove forme di mediazione tra capitale e attività riproduttiva nel quadro – tutto da delineare – di un’istituzionalità autonoma. Il reddito di base, insomma, si pone in questo contesto come tutt’altro che un dispositivo “individualistico”: al contrario, esso rompe la relazione fra attivazione “individuale”, tipico della ragione neoliberale fondata sul “capitale umano”, e sopravvivenza, favorendo una riorganizzazione contro-egemonica delle forze produttive. Certamente tale sviluppo non è implicito del reddito come dispositivo isolato, ma nessun processo di ricomposizione e di conflitto è possibile senza la rottura del nesso che lega, nella società postfordista, esistenza e sfruttamento.
ALCUNE CONSIDERAZIONI SUI MATERIALI DI QUESTO NUMERO MONOGRAFICO: AFFINITÀ E DIVERGENZE 
Nei paragrafi precedenti abbiamo esplicitato il nostro specifico punto di vista sul reddito di base e l’impianto teorico su cui poggia. Si tratta quindi di una prospettiva tra le tante che animano il dibattito sul reddito di base – e di conseguenza questo numero monografico. Tuttavia, riteniamo che dall’eterogeneità costitutiva dei materiali che lo compongono non emerga soltanto un salutare scambio di vedute su un tema spinoso ma inaggirabile. Ci pare infatti che, da un lato, sia possibile individuare due punti su cui la totalità dei contributi possa concordare, mentre dall’altro ci sembra che si vada meglio chiarificando la radice profonda del legittimo dissenso sulla questione del reddito di base.
Cominciamo dal primo punto di (potenziale) accordo: in nessun caso il reddito di base può considerarsi una misura auto-sufficiente. Se lo è, allora si riduce a mera misura assistenziale e redistributiva. Si noterà però che non è questa la prospettiva variamente declinata sia nelle dieci risposte al questionario che nei quattro saggi della sezione Approfondimenti. Il rapporto tra welfare “lavorista” e reddito di base non si dà in termini di sostituibilità, bensì in quelli di reciproca articolazione. Come il welfare intende mitigare gli effetti dello sfruttamento per sussunzione attraverso l’erogazione di un salario indiretto, così il reddito di base mira a depotenziare lo sfruttamento per imprinting attraverso una retribuzione diretta della partecipazione – collettiva e non-salariale – alla produzione sociale. È dunque possibile, nel quadro di questo rapporto di addizionalità, pensare a strategie convergenti di lotta per salario e per il reddito.
Il secondo elemento di possibile accordo è il riferimento costitutivo alla composizione qualitativa della produzione, cioè il come, cosa, quando, dove e per chi si produce. Da questo punto di vista l’alleanza tra chi ritiene che tale obiettivo sia raggiungibile solo attraverso un rilancio della contrattazione collettiva sindacale e chi invece suggerisce che sia proprio la logica salariale che struttura tale contrattazione a rendere problematico il passaggio alla dimensione qualitativa è più complicata. Ma non impossibile. In fin dei conti ci pare storicamente acclarato il fatto che le cosiddette rivendicazioni qualitative (si pensi alle lotte contro le nocività) siano emerse negli anni Sessanta in Italia sulla scorta della conflittualità operaia, quindi all’interno del perimetro salariale. La questione semmai è capire se tale modo del conflitto sia il più idoneo non tanto a porre come necessaria la democrazia economica (su questo non dovrebbero esserci dubbi), ma a costruire percorsi di transizione che a essa effettivamente conducano. Si tratta di un passaggio molto complesso, sia teoricamente che dal punto di vista della costruzione di un programma comune di rivendicazioni. È però più che certo che un obiettivo tanto ambizioso beneficerebbe della simultanea presenza di una classe operaia forte e di un quinto stato coeso e organizzato – e, ovviamente, di un’alleanza tra i due. 
Concludiamo segnalando quello che ci pare permanere l’oggetto di maggiore controversia, ovvero la concezione del lavoro che informa le prospettive di sostenitori e critici del reddito di base. Se si accetta la condizione che l’unica attività produttrice di valore nel capitalismo sia il lavoro, allora non si può sfuggire alla conclusione che il reddito di base sia una desiderabile ma certo non fondamentale misura assistenziale di stampo redistributivo, nel migliore dei casi, oppure, nel peggiore, un colpo tremendo alla tenuta del welfare. Se invece si ritiene che si dia valore capitalisticamente inteso anche al di là del lavoro, ecco che il reddito di base appare come un’opzione politicamente decisiva per scardinare il dispositivo di sfruttamento neoliberale per eccellenza, ovvero il capitale umano. Nel punto precedente abbiamo provato a suggerire una via d’uscita all’impasse, cioè una qualificazione del concetto di lavoro all’interno delle tendenze di sviluppo capitalistico: a un certo livello di detto sviluppo il lavoro salariato cessa di essere l’unica fonte di valore (pur rimanendo rilevantissima, con ogni probabilità la principale) e viene affiancato da un altro tipo di lavoro non-salariato (per evitare di confondere si potrebbe dire semplicemente attività produttiva) la cui produzione di valore si dà in termini inediti. Non si tratta quindi di disarticolare il nesso valore-lavoro tout court, ma solo di negare l’esclusività di quello valore-lavoro salariato.
Ci pare vada in questa direzione l’analisi del welfare proposta da Giovanni Mazzetti, il quale mostra come, negli anni Settanta, alla cosiddetta “crisi fiscale dello Stato” si sarebbe potuto – e dovuto – rispondere accettando “la specifica limitatezza della produzione mediata dal denaro”, quindi della forma di vita corrispondente al rapporto espansivo tra spesa pubblica e moltiplicatore che aveva funzionato fino a quel punto, riconoscendo che essa “non avrebbe più potuto assicurare un ulteriore sviluppo senza essere violata”. Sebbene Mazzetti abbia manifestato forte contrarietà riguardo al reddito di base, a noi pare che il suo invito a “trasgredire il principio di equivalenza implicito nel rapporto di valore” sia da accogliere proprio in ragione del fatto che le fonti del valore sono oggi più d’una (almeno due). 
Rimanendo su un piano ipotetico, Mazzetti si chiede retoricamente se, in una situazione in cui lo Stato avesse finanziato il welfare in assenza di una successiva compensazione fiscale (a causa dell’esaurimento del nesso virtuoso spesa pubblica-moltiplicatore), “il lavoro salariato messo in moto dalla spesa pubblica in deficit sarebbe stato inutile e improduttivo o, se opportunamente indirizzato con un programma, avrebbe [invece] potuto produrre proprio ciò di cui la società aveva bisogno, senza farlo sottostare alla condizione che producesse un valore equivalente”. A noi pare che Mazzetti indichi con grande chiarezza il divenire produttivo della riproduzione, cioè precisamente ciò che rende sempre meno necessaria l’esclusività della misura salariale per comprendere il valore. Paradossalmente, quello che lui chiama nell’ultimo passaggio “lavoro salariato” (mobilitato dalla spesa pubblica in deficit) è in realtà attività riproduttiva (eppure fonte di valore) retribuita attraverso una misura reddituale diretta che le avrebbe permesso di non “sottostare alla condizione che producesse un valore equivalente” (cioè misurabile con i parametri del salario-istituzione).
Ci fermiamo qui, senza indulgere nemmeno per un attimo nella presunzione di aver “risolto” un nodo tanto intricato. Ci basta sapere di aver raccolto nel nostro piccolo l’invito di Claudio Napoleoni a cercare ancora, e sparare con questo nostro “lavoro di cura” di aver invogliato altre e altri a fare altrettanto.

Fonte: Etica & Politica 

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