La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 9 aprile 2017

Possiamo fare a meno dei contadini?

di Sergio Cabras 
Circa sessant'anni fa (nemmeno un battito di ciglia sulla scala temporale di un ecosistema-pianeta) prendeva l'avvio la cosiddetta Rivoluzione Verde: l'agricoltura industriale. Questa rivoluzione consisteva in un modello agricolo che non cercava più (com'era stato fino allora) le tecniche giuste per adattarsi all'ambiente naturale, ma, al contrario, modificava l'ambiente secondo le necessità dei propri obiettivi di produzione. Ciò avveniva soprattutto attraverso la potenza meccanica delle macchine, i prodotti della petrolchimica, la creazione in laboratorio e nelle stazioni di ricerca genetica di varietà superselezionate e un fortissimo apporto di acqua per l'irrigazione. 
A ciò si accompagnava una trasformazione complessiva dei sistemi produttivi, sempre più concepiti a fini di profitto, nella prospettiva di una crescente standardizzazione e della costruzione di economie di scala.
I volumi di produzione crescevano in misura spettacolare, convincendo così gli agricoltori della validità del nuovo modello, le macchine aiutavano a ridurre la fatica, la chimica aumentava i redditi e l'aura di sapere scientifico dava una sorta di garanzia (se non di benedizione) a tutto questo processo di trasformazione dell'agricoltura. Oggi sappiamo quanto rozzo fosse tale livello di conoscenza, che non teneva conto della complessità biologica dei contesti sui quali andava a operare. Ma di una tale trasformazione molti furono allora entusiasti: con le nuove tecniche il bisogno di manodopera si riduceva parecchio e in tanti abbandonarono le campagne per spostarsi verso i nascenti poli industriali, verso le città, dove c'era tutto ciò che la modernità ha da offrire.
Il processo, fino a oggi, è andato molto avanti: se l'Italia, da nazione agricola, è diventata una società con un 2% scarso di lavoratori nell'agricoltura, lo stesso percorso avviene, più o meno velocemente, un po' in tutto il mondo. Non è un caso che le istituzioni internazionali classifichino i Paesi come più o meno sviluppati in base al numero dei contadini tradizionali: meno ce ne sono e più alto è il livello di sviluppo raggiunto. Su questa linea dovremmo credere che staremo tutti meglio quando in tutto il mondo passeremo il nostro tempo perlopiù al lavoro in fabbriche e uffici (o nel traffico per raggiungerli) e alla produzione del cibo basteranno pochissimi occupati, molte macchine e molta chimica. Però i fatti non sembra ci mostrino che le cose vadano davvero meglio in questa direzione. 
Qualcuno dice che l'agrochimica diminuirà presto grazie alle nuove varietà create dall'ingegneria genetica, ma è difficile crederci sapendo che, a livello mondiale, sono le stesse tre o quattro aziende multinazionali a detenere il quasi-monopolio sia dei prodotti agrochimici che delle sementi, con tanto di piante progettate per vivere solo in presenza di agenti chimici (anch'essi di loro proprietà) e brevetti esclusivi su organismi viventi, tra cui ora microorganismi biosintetici in grado di diffondersi nell'ambiente molto più che piante e animali.
Le grandi migrazioni dai Paesi poveri che sembrano costituire il principale problema sociale di questi anni hanno un legame a volte indiretto ma decisivo con i mutamenti di lungo periodo innescati dall'industrializzazione dell'agricoltura nei territori rurali di questi stessi Paesi, a cui oggi si aggiunge la nuova forma di colonialismo che consiste nell'accaparramento di enormi superfici di terreni agricoli da parte di multinazionali dell'agroalimentare (Land grabbing). La digregazione sociale e culturale che segue a queste forme di "sviluppo" mina alla base i complessi sistemi tradizionali di cui le comunità rurali avevano vissuto per secoli, sradicandole e spingendole prima ai margini delle città più vicine e poi – non potendo neppure queste assorbirle come forza lavoro – verso il miraggio delle società opulente (peraltro anch'esse ormai in profonda crisi). 
Nell'Italia degli anni '50-'60, mentre tutto un mondo, la civiltà contadina, scompariva, le popolazioni rurali che lasciavano la terra per cercare lavoro in città hanno fatto girare il volano dell'economia del mattone con la loro necessità di alloggi nelle nascenti periferie, costituendo al contempo una riserva di forza lavoro a buon mercato, utile agli industriali per contenere i conflitti sindacali e permettersi i più alti profitti. Questo processo - prima o dopo avvenuto in tutti i Paesi oggi sviluppati - è stato possibile anche perché c'era un Terzo Mondo da sfruttare e da cui ottenere materie prime a basso costo. E le popolazioni di questa parte del mondo vivevano ancora con poco, essendo perlopiù società agricole tradizionali. Ma oggi le cosiddette società "in via di sviluppo" su chi scaricheranno le loro contraddizioni e i propri conflitti? Davvero crediamo che sia possibile (nel senso di sostenibile, che è lo stesso) un mondo dominato da uno "sviluppo" in cui non hanno più posto i contadini?
Dal punto di vista ambientale, un problema di cui si parla troppo poco è quello della perdita dello strato fertile dei suoli, che è quello più superficiale, il più ricco di vita microbiologica, un ecosistema in sé, molto delicato. L'impoverimento microbiologico di questa parte del suolo, provocato dalle frequenti lavorazioni dei macchinari agricoli e dall'immissione di sostanze chimiche di sintesi, comporta al tempo stesso un impoverimento della struttura molecolare del terreno, che lo rende soggetto al dilavamento da parte delle piogge con molteplici effetti collaterali: di anno in anno aumenta la quantità di prodotti agrochimici necessaria per avere lo stesso raccolto; tutte queste sostanze di sintesi finiscono per raggiungere le falde acquifere e infine gli oceani, contribuendo pesantemente al loro depauperamento; i terreni si ammalano e con loro tutto l'ecosistema e, non da ultimo, si riduce la loro naturale capacità di ritenzione del carbonio, con le conseguenze facilmente immaginabili dal punto di vista del cambiamento climatico.
Nel modello contadino di agricoltura, il mantenimento e l'incremento della naturale fertilità del terreno, trattato come complessivo sistema biologico, era al centro delle conoscenze empiriche di generazioni di persone che da questa fertilità traevano la propria sopravvivenza. E tutta una serie di operazioni di manutenzione del territorio erano praticate a questo scopo, pur non producendo direttamente reddito: la cura dei terrazzamenti, l'incanalamento dei corsi d'acqua secondari, la restituzione degli scarti organici al terreno, i sovesci, il mantenimento di siepi e fasce alberate ad alternare gli appezzamenti coltivati, il pascolo degli animali opportunamente dosato... Queste e altre operazioni non solo mantenevano la base di risorse dell'azienda contadina (che aveva come orizzonte un dignitoso sostentamento e non una crescita illimitata sui mercati), ma salvaguardavano beni comuni come il paesaggio e gli equilibri idrogeologici (non occorre ricordare la frequenza con cui ormai, con l'abbandono delle campagne, accadono disastri causati dal loro degrado).
Oggi abbiamo tecnologie e conoscenze che un tempo non erano disponibili, e lo stesso si può dire delle aspettative e delle aspirazioni delle persone, che, è ovvio, non accetterebbero di vivere come i contadini di una volta. Ma è altrettanto vero che le nuove opportunità e competenze possono abbinarsi alla necessità di tornare a prenderci cura dei nostri territori, insieme alla qualità del cibo e della vita in generale: una prospettiva per un futuro del nostro Paese. E ciò, a maggior ragione, pensando alla crisi in atto, che ci indica come inevitabile un cambiamento di modello economico/culturale, non essendo realisticamente immaginabile (e, dal punto di vista ecologico, nemmeno auspicabile) un nuovo boom economico che rilanci la crescita e i consumi.
Non avrebbe senso, allora, dare spazio a chi già (o non ancora) pratica forme attuali e aggiornate di agricoltura contadina? Bisognerebbe in primo luogo riconoscere l'esistenza e le peculiarità di un tale modello di agricoltura, definendolo in termini legali. Ma purtroppo questo in Italia è ben lungi dall'avvenire: il codice civile riconosce solo l'esistenza di "imprenditori agricoli" (quindi figure professionali orientate alla competitività e al mercato) e non di contadini; questi, nel quadro legislativo attuale, con i regolamenti e la burocrazia vigenti, si ritrovano spesso di fatto sul filo dell'illegalità o relegati alla condizione di hobbisti e, in pratica, in condizione di non poter lavorare. La concezione prevalente nelle politiche agricole (italiane ed europee) favorisce solo le aziende più estese, che si presume siano quelle più competitive: per questo il sostegno pubblico dei contributi PAC (Politica Agricola Comune) è dato in buona misura in base al numero di ettari. Ma le aziende più grandi sono anche quelle più adatte alle produzioni su grande scala, standardizzabili, meccanizzabili e con ciò (impatto ambientale a parte) meglio attrezzate per ridurre la manodopera. E destinare proprio a queste la maggior parte dei contributi pubblici in un'Europa con circa 25 milioni di disoccupati non ha forse molto senso. Sarebbe peraltro da verificare se tali aziende sarebbero in grado di reggersi in assenza degli aiuti europei, perché, se così non fosse, sarebbe difficile parlare di competitività.
Sostenere una agricoltura contadina compatibile con gli ecosistemi, localmente centrata, occasione di auto-occupazione per molti giovani, fattore di salvaguardia dei territori rurali, del paesaggio, della biodiversità, fonte di cibo buono e alla portata di tasche "normali", risponderebbe certamente di più agli interessi della maggior parte dei contribuenti. Come lo farebbe una semplificazione delle normative - a partire da quelle igienico-sanitarie - e della burocrazia, in maniera da assicurare uno spazio legale adeguato per questo specifico modello di agricoltura, anziché creare ostacoli a chi vuole impegnarsi in questo tipo di lavoro di cui gran parte dell'umanità ha saputo vivere per molti secoli senza mettere a rischio gli equilibri fondamentali del pianeta. 

Fonte: Adista.it 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.