di Carlo Manfredi
Il Ministro della Salute ha pubblicato l’elenco delle prestazioni di specialistica ambulatoriale giudicate inappropriate che intende tagliare per contenere gli sprechi, migliorare la sanità pubblica e salvare la sostenibilità del sistema sanitario (SSN). Vediamo di capire quale è il senso dell’operazione per comprendere se ha una sua logica, quali conseguenze ci dobbiamo aspettare e, soprattutto, che cosa possiamo fare per salvare la sanità pubblica.
Il SSN italiano non è più costoso di quelli di altre nazioni. In Italia si spendono in media meno euro all’anno per cittadino che in Francia e in Germania e molto meno rispetto agli Stati Uniti. Da noi chi ha bisogno di uno stent coronarico, di un trapianto di fegato o delle cure più avanzate per il cancro non spenda nulla, ma non è così in molte parti del mondo. Anche in alcuni paesi ricchi, i malati si indebitano e, qualche volta, perdono tutto per pagarsi le cure necessarie.
Negli ultimi 20 anni il SSN ha migliorato le possibilità diagnostiche e terapeutiche e le aspettative di salute dei cittadini. Ma la spesa sanitaria è aumentata a dismisura a causa dell’aumento dell’età media, della maggiore prevalenza di malattie croniche e della frequente presenza di più malattie nello stesso individuo.
L’eccessiva medicalizzazione e l’inclusione fra le prestazioni rimborsate dal SSN di nuove tecnologie diagnostiche e terapeutiche che non comportano un reale vantaggio per la salute dei cittadini ha fatto ulteriormente lievitare la spesa e dilatato l’area degli interventi sanitari senza migliorare la salute.
Tutti questi fenomeni sono stati assecondati con responsabilità diverse ma convergenti dalle industrie del settore biomedico, dagli estensori di linee guida e dai clinici, ma anche dai decisori regolatori e politici. Se oggi alcune Regioni hanno un “parco” di apparecchiature per eseguire Risonanze Magnetiche molto superiore al fabbisogno dei cittadini residenti e tale che potrebbero servire anche un’ampia fetta della popolazione delle regioni limitrofe, senza contare il privato convenzionato, sarà anche responsabilità di coloro che hanno deciso di acquistarle.
Se le Asl sono delle aziende, possibile che non sappiano che l’aumento dell’offerta di servizi, indipendentemente dal costo, porta ad un aumento dei consumi. Gli esami di laboratorio e strumentali che non incidono favorevolmente sulla prognosi del paziente, sono stati resi disponibili da chi ci governa. I medici meno attenti che li impiegano possono essere considerati inappropriati, ma i pazienti si sentirebbero defraudati di un diritto, se non ne disponessero.
Se il medico, per il timore di conseguenze medico-legali, è portato a sfruttare acriticamente l’intero “armamentario” a disposizione, ci sarà pure da tenere in considerazione chi lo rifornisce di munizioni. Un accertamento fatto per motivi futili può rendere necessari altri esami e interventi ed esporre a complicazioni che poi generano altri accertamenti e altre spese.
Si stima che la spesa per interventi che non portano alcun beneficio agli ammalati sia pari al 30 percento del budget. Esistono dunque responsabilità diverse, alcune intrinseche alla demografia e alla epidemiologia, altre derivate dal consumismo sanitario, altre ancora dalla necessità di una riappropriazione di una maggiore autonomia e autorevolezza del medico. E’ chiaro dunque che la questione principale sul tappeto è quella di come allocare le risorse affinché siano equamente distribuite sugli obiettivi primari di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione.
Qual è l’equilibrio eticamente accettabile fra le esigenze dei cittadini e il rispetto dei bilanci del SSN. Che cosa si può e si deve tagliare e a chi. A tutte queste domande si può rispondere solo riaffermando che le decisioni professionali, manageriali e politiche che riguardano la salute devono essere guidate dalle conoscenze scientifiche per valutarne in modo accurato efficacia, sicurezza e impatto economico. Sono inaccettabili gli interventi per i quali non ci sia nella letteratura medica prova di efficacia perché non sono giustificati, non solo per ridurre i costi.
Solo così si possono evitare gli sprechi che derivano dal sovrautilizzo di servizi e prestazioni sanitarie inefficaci o inappropriate e al sottoutilizzo di quelli efficaci. Dunque, evitare gli sprechi deve essere un imperativo morale per tutti e la sua finalità etica “universale” deve essere compresa anche dai cittadini che devono sentirsi parte attiva di questa spirale virtuosa, ma soprattutto dai decisori politici. Il medico attento a quanto spende non è in contrasto con l’etica professionale.
Deve correttamente saper distinguere cosa serve realmente agli ammalati, di che cosa si può fare a meno e di cosa invece, per quanto nuovo o più sofisticato, non serve a nulla. E’ necessario inoltre avviare a livello di sanità pubblica un processo di disinvestimento (da sprechi e inefficienze) e di riallocazione delle risorse risparmiate per finanziare servizi, prestazioni e interventi sanitari efficaci, appropriati e dotati di valore aggiunto in termini di salute conseguibile.
La revisione della spesa è un’occasione per rilanciare il SSN partendo proprio dall’eliminazione degli sprechi.
Dato che alla situazione attuale concorrono i vari fattori che abbiamo passato in rassegna, ogni intervento che riguardi solo gli “effettori” finali è improponibile.
Se il medico, quando decide per il bene del paziente, fa scelte appropriate contribuisce a risanare la situazione, ma chi pensa che possa farcela da solo, forse cerca un capro espiatorio per la sua incapacità politica e amministrativa. Se poi prevede anche gravi sanzioni, significa che vuole un medico “braccio armato” acritico del potere politico che assicura l’applicazione rigorosa di ciò che la sanità pubblica ritiene più appropriato e meno costoso. Il rischio è di privarlo della gestione autonoma degli scarti esistenti fra la realtà clinica e il formulario delle prestazioni.
L’applicazione meccanicistica dei criteri di appropriatezza è un condizionamento autoritario della sanità pubblica che lede e deforma il contenuto dell’arte medica a danno del paziente. La variabilità biologica, infatti, si esprime molto spesso in quadri clinici singolari che sfuggono alla rigidità amministrativa. Il paziente potrebbe pensare che, quando gli viene negato un esame diagnostico, non sia perche non è necessario, ma perché il medico non desidera incorrere in disavventure disciplinari e patrimoniali. L’interesse alla difesa della salute viene dunque pesantemente condizionato da elementi estranei al bene della persona.
In conclusione, l’idea del SSN equo e universale quale baluardo del diritto alla salute costituzionalmente tutelato deve essere riaffermata con forza . Le conseguenze del conflitto tra governo e Regioni che hanno indotto ad assumere le decisioni sull’appropriatezza con le condizioni di derogabilità che coinvolgono 208 prestazioni non devono essere scaricate sui medici, i pazienti, le famiglie e le fasce socio-economiche più deboli.
E’ necessario mettere mano al rinnovo di contratti e convenzioni, all’attuazione dei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e degli standard ospedalieri, alla riorganizzazione delle cure primarie, alla definizione delle competenze delle nuove professioni sanitarie, alla legge sulla responsabilità professionale e altro ancora.
Servono certezze sulle risorse e una programmazione sanitaria che abbia come sua prima finalità quella di eliminare gli sprechi e le inefficienze e di reinvestire quanto risparmiato in servizi essenziali e innovazioni.
Si faccia chiarezza sul futuro del SSN pubblico, equo e universalistico perché l’incertezza contribuisce alla sua progressiva demolizione. Si richiami l’articolo 32 della Costituzione che tutela il diritto alla salute dei cittadini italiani, un obiettivo che, per essere raggiunto, non ha bisogno di un accesso illimitato e indiscriminato a tutte le prestazioni sanitarie. E’ necessario però un finanziamento adeguato, se non si vuole che siano le famiglie a caricarsi costi destinati a diventare per loro sempre più insopportabili.
Fonte: Caratteri liberi
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