La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 27 settembre 2015

La Catalogna vota e già si vede indipendente

di Luca Tancredi Barone
Può pia­cere o meno, ma lo slo­gan della lista che secondo le pre­vi­sioni vin­cerà le ele­zioni di oggi, “Junts pel Sí” (Assieme per il sì) è quello che meglio rias­sume il senso della gior­nata elet­to­rale: «Il voto della tua vita». Una grande mag­gio­ranza dei cata­lani vive le ele­zioni di oggi, for­mal­mente solo un voto per eleg­gere il Par­la­ment cata­lano, come la prima occa­sione in cui ci si potrà espri­mere a favore o meno di una Cata­lo­gna indipendente.
In cin­que anni, il pre­si­dente in carica, Artur Mas, del par­tito di cen­tro­de­stra “Con­ver­gèn­cia Demo­crà­tica de Cata­lu­nya” (Cdc), ha tra­ghet­tato il suo par­tito da una posi­zione nazio­na­li­sta “mode­rata” e ten­den­zial­mente pat­teg­gia­trice verso una dichia­rata inten­zione di seces­sione. A sca­te­nare il pro­cesso che ha por­tato le posi­zioni indi­pen­den­ti­ste, tra­di­zio­nal­mente non più di un terzo dei cata­lani, a (pro­ba­bil­mente – e si saprà pro­prio oggi) avvi­ci­narsi al 50%, una serie di fat­tori, tutti legati alla presa di potere del Par­tito popo­lare più ottuso e stantio.
Dap­prima con il ricorso ven­di­ca­tivo con­tro lo Sta­tuto cata­lano, appro­vato nel 2006 dopo anni di fati­cosi com­pro­messi dal Par­la­ment cata­lano, dalle Cor­tes spa­gnole e infine da un refe­ren­dum: la tar­diva rispo­sta del Tri­bu­nale costi­tu­zio­nale (arri­vata solo nel 2010), che can­cel­lava alcuni dei suoi aspetti più sim­bo­lici, venne vista come la fine del ten­ta­tivo di una “terza via”, il patto con lo stato spagnolo.
Men­tre a Madrid pren­deva il potere il pas­sivo Mariano Rajoy, a Bar­cel­lona diventa pre­si­dent Artur Mas che governa in mino­ranza, all’inizio con l’appoggio pro­prio del Par­tito popo­lare, con il quale rompe davanti alle prime mani­fe­sta­zioni mas­sicce in favore dell’indipendenza il giorno della festa cata­lana (11 set­tem­bre) a par­tire dal 2012. Mas capì che poteva caval­care il mal­con­tento, e masche­rare i suoi tagli con il comodo alibi di «Madrid ci ruba». Alleato con gli indi­pen­den­ti­sti di “Esquerra Repu­bli­cana de Cata­lu­nya” (Erc), il suo piano diventa quello di recu­pe­rare una richie­sta sto­rica dell’indipendentismo, il «diritto a deci­dere»: il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano.
Davanti al muro inva­li­ca­bile pro­po­sto dal Pp (in que­sto pie­na­mente in sin­to­nia con il Psoe), che ha impe­dito a tutti i costi la cele­bra­zione del refe­ren­dum, ed è stato inca­pace di fare alcuna pro­po­sta alter­na­tiva, la rab­bia dei cata­lani non ha fatto che cre­scere ogni anno. Il grande merito sto­rico di Artur Mas è stato quello non solo di riu­scire comun­que a cele­brare un refe­ren­dum il 9 novem­bre scorso – anche se il governo di Madrid lo ha osta­co­lato in tutti i modi pri­van­dolo di qual­siasi signi­fi­cato legale – ma di essere riu­scito a tra­sfor­mare, con l’aiuto di Erc e del movi­mento indi­pen­den­ti­sta di sini­stra della Cup, il discorso indi­pen­den­ti­sta nel discorso ege­mo­nico. Rischio­sis­simo oggi non col­lo­carsi sull’asse pro-contro indipendenza.
Cilie­gina sulla torta, con­vo­care per la seconda volta con­se­cu­tiva ele­zioni anti­ci­pate, sta­volta “ple­bi­sci­ta­rie”: un sosti­tuto legale del refe­ren­dum (a cui comun­que par­te­ci­pa­rono più di 2 milioni di per­sone, sui cin­que e mezzo di aventi diritto). Para­dos­sal­mente, anche i par­titi schie­rati fer­ma­mente sul no all’indipendenza, come il Pp o Ciu­ta­da­nos – i con­ser­va­tori dal volto gio­vane e dina­mico – fini­ranno per fare que­sta let­tura dei risultati.
Gli schie­ra­menti del No e del Sì
Il pano­rama poli­tico vede come favo­rita “Junts pel Sí”, il listone che Mas abil­mente è riu­scito a met­tere insieme con pezzi del suo par­tito (altri­menti desti­nato a sicura scon­fitta rima­sto orfano del com­pa­gno dall’inizio della demo­cra­zia, i demo­cri­stiani di Unió, con 15 sedi sotto embargo giu­di­zia­rio per i molti casi di cor­ru­zione, e con il padre sto­rico del par­tito e men­tore di Mas, Jordi Pujol, costretto a chie­dere scusa pub­bli­ca­mente per i conti in Andorra suoi e della sua fami­glia), Erc e orga­niz­za­zioni indi­pen­den­ti­ste. Il tocco da mae­stro è stato quello di met­tere come capo­li­sta un ex euro­de­pu­tato ros­so­verde e di nascon­dersi al numero 4 (le liste sono bloccate).
In que­sto modo, ben­ché sia il vero can­di­dato pre­si­dente, non ha dovuto affron­tare nes­suno sco­modo dibat­tito elet­to­rale. Sul lato indi­pen­den­ti­sta anche la Cup, che vive l’ambiguità di appog­giare il pro­cesso di rot­tura, ma di pre­ten­dere al con­tempo la crea­zione di uno stato for­te­mente sociale, senza paura di uscire da Unione euro­pea o dall’euro (lo spau­rac­chio delle cam­pa­gne del ter­rore che tanto spa­venta la lista di Mas). Sul fronte del No, oltre ai popo­lari gui­dati dall’ex sin­daco xeno­fobo di Bada­lona (scon­fitto a mag­gio nelle ammi­ni­stra­tive), tro­viamo “Ciu­ta­dans”, par­tito cata­lano pro­iet­tato sul piano nazio­nale, che schiera l’unica donna can­di­data pre­si­dente. Alcuni son­daggi li danno come secondo partito.
Per il secondo posto com­batte anche l’unica lista che pur pro­cla­man­dosi a favore del diritto a deci­dere, non si schiera né pro né con­tro l’indipendenza: la lista uni­ta­ria “Cata­lu­nya sí es pot” (Cata­lo­gna, sì, si può), che uni­sce i ros­so­verdi cata­lani di Icv, Izquierda Unida e Pode­mos.
I socia­li­sti cata­lani, un tempo molto forti, scon­tano l’obbedienza ai dik­tat di Madrid e la con­se­guente vaghezza sia sul tema auto­no­mi­sta (par­lano di una riforma costi­tu­zio­nale fede­ra­li­sta cui ormai cre­dono in pochi), sia sui temi sociali. L’unico guizzo del par­tito gliel’ha rega­lato il can­di­dato Miquel Iceta che, pare in maniera del tutto estem­po­ra­nea, si mise a bal­lare sca­te­nato i Queen sotto gli occhi alli­biti del segre­ta­rio gene­rale Pedro Sán­chez: ormai un clas­sico di que­sta cam­pa­gna. Infine rimane la pic­cola Unió, che ha lasciato il par­tito di Mas e che spera di raschiare uno o due seggi spo­sando le tesi tra­di­zio­nali della destra cata­lana: nazio­na­li­ste ma in cerca di patti.
Cam­pa­gna elet­to­rale surreale
La cam­pa­gna elet­to­rale ha rag­giunto vette di sur­rea­li­smo ine­dite. Dall’infantile guerra di ban­diere dai bal­coni del comune di Bar­cel­lona, gio­vedì, durante la festa patro­nale della città, all’inedita minac­cia delle ban­che di lasciare il paese nel caso della crea­zione di una repub­blica cata­lana (pare siano molti i clienti che hanno chiuso i conti per pro­te­sta), alle parole deli­ranti dell’ex pre­mier Felipe Gon­zá­lez, che ha para­go­nato l’autodeterminazione cata­lana ai tra­sfe­ri­menti coatti di Sta­lin, giù giù fino alle minacce di cor­ra­lito della Banca di Spa­gna o di rima­nere fuori dalla Liga per le squa­dre cata­lane. Il Pp ha per­sino tra­sci­nato Sar­kozy a chiu­dere la cam­pa­gna stril­lando con­tro l’indipendenza, dopo un pate­tico spot in cui i lea­der nazio­nali, in un tra­bal­lante cata­lano, venerdì chie­de­vano il voto «per l’unità».
Dall’altra parte, “Junts pel Sí” ha basato una cam­pa­gna priva di pre­vi­sioni eco­no­mi­che solide per un nuovo stato su uno spot pati­nato, in cui si dipinge un futuro idil­lico, alter­nato con l’emissione inte­gra di una pate­tica inter­vi­sta di Rajoy che dimo­strava di non cono­scere nep­pure la costi­tu­zione spa­gnola (che impe­di­sce di pri­vare chiun­que della cit­ta­di­nanza e quindi ipso facto dello sta­tus di cit­ta­dini euro­pei). Tra minacce e super­fi­cia­lità, oggi si vota. E domani, smal­tita la sbor­nia, si torna a fare poli­tica seria. Forse.

Fonte: il manifesto 

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