La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 27 settembre 2015

L’acqua sporca di Tigri e Eufrate

di Rachele Gonnelli 
«No alla guerra, no alla diga». Qual­che cen­ti­naia di per­sone dome­nica scorsa si è ritro­vata in piazza Tahir a Bagh­dad cer­cando con que­sto slo­gan, del tutto incon­sueto, di supe­rare i clac­son e il rumore delle mac­chine. Lo stesso grido ha risuo­nato, più o meno alla stessa ora ma ben più forte, a Hasan­kayef, antico borgo di pastori a mag­gio­ranza kurda del nord dell’Iraq, il luogo che la grande diga di Ilisu sta per som­mer­gere, costrin­gendo i suoi abi­tanti a spo­starsi: tra le 40 e le 80 mila persone.
La que­stione della diga di Ilisu, che la Tur­chia sta costruendo a monte, non è sol­tanto un pro­blema curdo ed è stata scelta da un gruppo di ong — tra cui River­Watch e l’italiana Un Pon­te­Per — per ten­tare di risve­gliare e uni­fi­care la nascente società civile ira­chena su una cam­pa­gna che è insieme ambien­tale, per i beni comuni e per i ser­vizi essen­ziali, oltre che per la pace. Per­ché il pro­getto Ilisu Dam — che il governo Erdo­gan ha deciso di con­ti­nuare con finan­zia­menti uni­ca­mente tur­chi anche dopo l’addio del governo bri­tan­nico e dei part­ner tede­schi, sviz­zeri e austriaci e che, supe­rato lo stop dell’Alta Corte turca, dovrebbe vedere la fine entro il 2015 — ridurrà a tal punto il flusso del fiume Tigri da met­tere a rischio l’approvvigionamento idrico dell’intero paese.
L’Iraq dal punto di vista idrico dipende al 95% dalle acque super­fi­ciali dei fiumi Tigri e Eufrate, che però hanno le pro­prie sor­genti in ter­ri­to­rio turco. E non esi­ste alcun trat­tato bila­te­rale tra Tur­chia e Iraq sulla coo­pe­ra­zione tran­sfron­ta­liera in merito alla que­stione delle for­ni­ture idri­che. La grande diga di Ata­turk, del ’90, ha già ridotto sen­si­bil­mente la por­tata dell’Eufrate sia in Iraq che in Siria.
Ma la rapina delle acque del Tigri pro­vo­cherà un danno molto mag­giore. Già oggi la por­tata scarsa dei due ex grandi fiumi, culla della civiltà meso­po­ta­mica, sta seria­mente met­tendo a rischio le popo­la­zioni meri­dio­nali dell’Iraq. Uno scien­ziato della Nasa, l’idrologo Jay Fami­glietti, ha denun­ciato come il siano state pre­le­vate risorse idri­che pari al Mar Morto (114 chi­lo­me­tri cubici). Nel 2040, una volta che Ankara avrà attuato l’intero pro­getto Gap (acro­nimo turco di Pro­getto Ana­to­lia Sud-Orientale) che oltre alla diga Ilisu ne conta altre 22, Tigri e Eufrate potreb­bero non riu­scire più a sboc­care in mare.
Dal Golfo Per­sico ha ini­ziato a risa­lire acqua salina nello Shatt al Arab. Nelle con­dut­ture della città di Bas­sora — che, dopo la fine del pro­tet­to­rato bri­tan­nico ha visto un forte svi­luppo indu­striale e urba­ni­stico — scorre acqua salata. Non va meglio, almeno per chi non si può per­met­tere un pota­bi­liz­za­tore cinese, nel resto del paese: si cal­cola che il 60% delle case, il 90% di quelle rurali, sia senza acqua pota­bile. Le paludi meri­dio­nali o Marsh Land (nella foto), abi­tate da popo­la­zioni sciite dedite alla pesca e alla pasto­ri­zia, stanno spa­rendo, come deun­cia il rap­porto che le ong inter­na­zio­nali della cam­pa­gna con­tro la diga Ilisu pre­sen­te­ranno in que­sti giorni alle Nazioni Unite.
E que­sto per­ché la Tur­chia non rila­scia l’acqua che dovrebbe per ali­men­tare i fiumi, così vani­fi­cato l’investimento per la rico­stru­zione legato al pro­getto «New Eden» a cui ha par­te­ci­pato anche l’Italia (l’allora mini­stro Altiero Mat­teoli pro­mise 2 miliardi di euro, poi decur­tati a circa la metà, per coo­pe­rare al recu­pero del 50% dell’ecosistema palu­doso entro il 2010). Soldi finiti in gran parte ad ali­men­tare con­ve­gni e ad ingras­sare fan­to­ma­ti­che finanziarie.
La que­stione dell’acqua è intrec­ciata con quella della guerra tanto quanto quella del petro­lio, forse per­sino di più. La man­canza di ser­vizi essen­ziali ha spia­nato la strada, tanto in Siria come in Iraq, all’avanzata del nuovo sedi­cente Stato Isla­mico, come segnala il cen­tro studi Foreign Affairs in un rap­porto della fine di ago­sto. L’Isis ha per­sino pro­te­stato con la Tur­chia per lo scarso rila­scio di acqua nei ter­ri­tori con­trol­lati dal Calif­fato. Ad ago­sto gli abi­tanti di Bagh­dad, Ker­bala, Babel sono scesi in piazza con­tro l’erogazione a sin­ghiozzo dell’energia elet­trica e per l’acqua inqui­nata che esce dai rubinetti.
Mar­tina Pignatti Morano, pre­si­dente di Un Ponte Per, dice che nel 2011 ana­lo­ghe pro­te­ste erano state dura­mente represse, men­tre que­sta volta il governo di Al Abadi, che ha lan­ciato un ambi­zioso pac­chetto di riforme anti-corruzione ancora per altro non attuate, ha rispet­tato le mani­fe­sta­zioni. «L’Iraq è in un momento di tran­si­zione», dice Pignatti e sot­to­li­nea come sia stato varato il primo codice del lavoro che libe­ra­lizza il diritto di scio­pe­roo. «Noi — dice Ismaeel Dawood, italo-iracheno dell’ong Iraqi Civil Society Ini­tia­tive — cre­diamo nella pos­si­bi­lità di creare una piat­ta­forma di asso­cia­zioni che accanto alla que­stione del Tigri si muova per demo­cra­tiz­zare la società ira­chena, gra­zie anche alla rete inter­na­zio­nale di soli­da­rietà del Social Forum».
Per­ciò par­te­ci­pe­ranno al primo “micro” Social Forum ira­cheno, che si terrà a Bagh­dad dall’1 al 3 otto­bre. Spe­rando che superi il rumore quo­ti­diano della guerra.

Fonte: il manifesto 

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