La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 27 settembre 2015

Cina–Russia: un rapporto ritrovato

di Iacopo Adda
Circa un anno fa, Nikolas K. Gvosdev e Christopher Marsh pubblicavano un’opera di analisi dei differenti interessi, vettori e settori della politica estera russa contemporanea. Gvosdev e Marsh sono eminenti professori e specialisti impiegati nell’ambito accademico-militare americano. Tuttavia, entrambi rilevano un punto debole molto importante nella percezione che una folta schiera di politici statunitensi ha ancora della Russia attuale:essa è tuttora idealmente assimilata, se non completamente confusa, con l’Unione Sovietica. Bisogna riconoscere che una simile percezione della Russia non si distanzia sensibilmente da ciò che i media più influenti tendono a trasmettere alla “società occidentale” odierna. In questo senso la crisi Ucraina ha corroborato la necessità di abbozzare l’identikit di un nemico allo stesso tempo vecchio e nuovo. Al fine di evitare di spiegare le ragioni profonde che sottendono i tragici eventi ucraini, ilmainstream dei media occidentali ha spesso adottato un approccio alla Marcel Duchamp, disegnando sul volto pressoché glabro di Putin dei baffoni alla Stalin. Il giochetto ha prodotto velocemente i suoi risultati: “noi” abbiamo ragione e “loro” hanno torto poichè Putin non rappresenterebbe che l’ultima incarnazione di una Russia totalitaria, da sempre in contrapposizione con i nostri “valori democratici”.
LA CINA E IL MAI SOPITO TIMORE DEL “PERICOLO GIALLO” – In un altro affascinante libro pubblicato da poco, Yellow Peril! An Archive of Anti-Asian Fear, John Kuo Wei Tchen e Dylan Yeats tracciano la storia del mito del pericolo giallo nella società americana ed europea dai suoi albori sino ai giorni nostri. Se è vero che oggi tale termine è finalmente percepito anche dalle nostre parti come sostanzialmente razzista e legato ad una concezione del mondo in salsa coloniale, un suo sinonimo, “China’s threat” (“la minaccia cinese”), lo sta largamente rimpiazzando nel discorso giornalistico e politico d’oltreoceano. Scorrendo la ben documentata ricerca di Kuo Wei Tchen e Yeats, si potranno infatti reperire i sempreverdi cliché che ancora oggi infestano la nostra percezione dell’“altro” orientale (in questo caso cinese). In parallelo, ci si prepara al confronto. Il Pivot to Asia, l’ultimo credo geostrategico di Obama, è stato concepito proprio per rispondere ad un’incombente “minaccia cinese” tramite la costruzione di una solida minaccia preventiva. Per il momento una strategia di containment è preferita a una strategia cooperativa. Fra le innumerevoli prove a proposito, si possono citare l’insistenza di Washington per la creazione del TPP (il Partenariato Trans-Pacifico che escluderebbe la Cina) e la sua mancata partecipazione alla neonata AIIB (Banca Asiatica d’Investimento per le infrastrutture). Al contrario, non è raro ormai imbattersi in articoli che affrontano con scioltezza il tema di un probabile confronto militare tra i due pesi massimi dell’economia mondiale. Predire una guerra è diventato un esercizio retorico che si compie con leggerezza. Sono segnali che potrebbero indurre qualche perplessità e preoccupazione.
DA DOVE NASCONO I FANTASMI DI UN “PERICOLO ARANCIONE”? – Già Bobo Lo nel suo celebre “Axis of Convenience” del 2008 aveva sottolineato il fatto che le relazioni sino-russe non erano mai state così buone nel corso della storia. Benchè Andrew C. Kuchins sostenga ragionevolmente che non era poi così difficile fare meglio rispetto al passato, dal 2008 a oggi tale rapporto si è consolidato al di là di ogni più rosea prospettiva. Non era facile immaginarsi un tale sviluppo nel 1992, quando i dirigenti cinesi osservarono agghiacciati la fine dell’agonia dell’URSS e la nascita di una nuova entità statale che non faceva mistero del suo desiderio d’integrarsi con l’Occidente. Tuttavia, i fattori che permisero a Mosca e Pechino di non vanificare i tentativi di riavvicinamento promossi da Gorbachev fin dal 1986, sono stati principalmente due: il primo è l’embargo occidentale, relativo soprattutto alla vendita delle armi, imposto alla Repubblica Popolare Cinese a seguito della repressione delle manifestazioni che ebbero luogo tra l’aprile e il giugno 1989. Il secondo è un mancato piano Marshall destinato alla neonata Federazione Russa, ovvero un pacchetto di aiuti generosi ed efficaci che permettesse a quest’ultima di risollevarsi negli anni successivi al crollo dell’URSS, come premio per la dismissione pacifica della stessa. Questi due fatti sono simbolicamente in netta contraddizione l’uno con l’altro. Se da un lato gli USA, seguiti dai loro alleati, si sono mostrati fermi nel condannare la repressione di dimostrazioni che reclamavano un cambiamento politico in Cina, dall’altro nessun premio concreto e significativo è stato attribuito alla Russia per aver intrapreso il percorso opposto. Questo tipo d’incongruenze sostanzierà fino ai giorni nostri l’idea che l’azione politica statunitense abbia come scopo quello dell’indebolimento di potenziali rivali piuttosto che quello della promozione di valori “universali”. Per ritornare al 1992, l’industria bellica russa non rinunciò all’idea di proporsi come fornitore alternativo di una Cina resa più fragile sul piano internazionale. D’altro canto, permettendo all’industria bellica russa di sopravvivere, Pechino si fece degli amici influenti destinati a diventare i principali sponsor del vettore cinese a Mosca.

Fonte: Il Caffè geopolitico

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