di Giorgio Mariani
In uno degli ultimi pamphlet pubblicati dal Literary Lab di Stanford, creato anni fa da Franco Moretti per applicare allo studio della letteratura gli strumenti informatici, e soprattutto per poter lavorare sui big data – su corpora di centinaia o addirittura migliaia di testi – emerge un dato curioso.
Nel tentativo di costruire un corpus elettronico del romanzo di lingua inglese del Novecento, posti di fronte a una mole enorme di testi, gli autori dello studio (Mark McGurl e Frank Algee-Hewitt) hanno deciso di combinare tra loro un numero di elenchi già in circolazione – per esempio «i 100 migliori romanzi del ventesimo secolo della Modern Library» – per ovviare agli interessi implicitamente o esplicitamente partigiani su cui ognuno di questi cataloghi si basa.
Dall’analisi quantitativa svolta si scopre che un solo testo ricorre in tutti gli elenchi accorpati: questo unico testo, che incontra l’approvazione dei critici di tendenze più disparate (accademici innamorati dello sperimentalismo, critici fedeli al realismo, studiosi delle letterature postcoloniali e «etniche») e che al tempo stesso è stato un enorme successo commerciale, è Furore di John Steinbeck.
Provare a spiegare il perché non rientra tra i compiti dell’analisi di McGurl e Algee-Hewitt, che si limitano a indicare come il romanzo di Steinbeck sia un «caso letterario» meritevole di ulteriori indagini.
Questo dato dovrebbe essere di per sé sufficiente a giustificare l’interesse per i sette articoli di inchiesta e di denuncia civile che Steinbeck scrisse per il «San Francisco News» tra il 5 e il 12 Ottobre del 1936, in piena Grande Depressione, e che rappresentano a tutti gli effetti la premessa ideale e la base concreta di Furore.
Raccolti per la prima volta nel 1938 in un volumetto dal titolo Their Blood is Strong (Hanno il sangue forte), che comprendeva alcune foto di Dorothea Lange (a tutti nota per la sua «Migrant Mother», una delle foto più celebri del secolo scorso), e successivamente ripubblicati col titolo The Harvest Gyspies (I gitani del raccolto) nel 1988, vengono ora per la prima volta resi disponibili al lettore italiano con il titolo I Nomadi, in una eccellente traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi (Il Saggiatore, pp. 113, euro 14,00). L’edizione nella collana Le Silerchie, ottimamente curata, comprende sia le foto di Lange sia altri scatti di fotografi anonimi, ed è corredata dall’interessante introduzione alla edizione dell’88 di Charles Wollenberg, nonché da una più breve ma incisiva postfazione di Cinzia Scarpino.
Chi ha letto Furore ritroverà in questi articoli in primo luogo un’analoga attenzione per le sconvolgenti condizioni sociali e umane nelle quali versano gli okies, i lavoratori migranti giunti in California in cerca di lavoro dal Texas, dall’Arkansas, dal Mississippi e naturalmente dall’Oklahoma: da quelle zone agricole, cioè, che erano state devastate dal Dust Bowl, le terribili tempeste di sabbia degli anni trenta. Come Furore, anche I Nomadi denuncia le pratiche brutali (Steinbeck le etichetta come «fasciste») messe in atto dai latifondisti, interessati solo allo sfruttamento più bieco di una forza lavoro disposta a tutto pur di non morire – letteralmente – di fame e malattie.
Frutto di un’attenta ricerca sul campo e di interviste sia con i migranti sia con assistenti sociali come Tom Collins (che ispirò uno dei personaggi di Furore) impegnati nella creazione di accampamenti statali dove le condizioni di vita fossero perlomeno accettabili, e dove fosse possibile ricevere un minimo di assistenza sanitaria, il volume si situa, come nota Scarpino, «agli albori del libro documentario».
Negli anni a venire, infatti, si moltiplicheranno i photo-essay book, frutto di collaborazioni tra fotografi come Lange o Walker Evans, e scrittori-giornalisti come Steinbeck, Erskine Caldwell e James Agee.
Ciò che accomuna tutti questi testi a un romanzo come Furore è un intento documentario che non resta mai fine a se stesso e che, com’è particolarmente evidente negli articoli di Steinbeck, vuole funzionare da pungolo alla ricerca di soluzioni concrete ai problemi descritti.
Lo scrittore, pur non mancando di lanciare allarmi sui rischi di cancellazione della democrazia in uno stato come quello della California, i cui centri di potere sono manovrati dagli interessi delle lobbies dell’agribusiness monopolistico, sceglie di rivolgersi al buon senso, e al buon cuore, della classe media e medio-alta.
La sua speranza è che essa comprenda come queste migliaia di lavoratori migranti siano non una minaccia, bensì una risorsa indispensabile. Da questa scelta retorica, discendono – come opportunamente sottolinea Scarpino – non solo un certo populismo ma anche le «ambiguità razziali non del tutto trascurabili» che segnano in una certa misura i ragionamenti di Steinbeck.
Lo scrittore non manca certo di ricordare che, per decenni, prima dei migranti del Mid-West, a essere sfruttati in modo se possibile ancora più bestiale, erano stati, a turno, i cinesi, i giapponesi, i messicani e i filippini; ma l’appello che nei suoi articoli rivolge al lettore affinché prenda atto delle disperate situazioni in cui versano questi nuovi migranti «della migliore razza americana» – insistendo sul fatto che «i futuri braccianti saranno bianchi e americani» – appare non solo discutibile nell’implicita invocazione di una solidarietà razziale e nazionalista, ma anche poco sensato politicamente.
Per un verso, difatti, la percezione del migrante come «altro», «sporco» e pericoloso è determinata dalla sua collocazione sociale, indipendentemente dalla sua identità etnica.
Ridotti in condizioni sub-umane (alcune pagine di Steinbeck sono così agghiaccianti da ricordare quelle di Primo Levi, soprattutto quando illustrano come, private di ogni dignità, queste famiglie scivolino inesorabilmente verso una condizione animale), gli okies erano presentati dalla maggior parte della stampa come una minaccia, in quanto supposti portatori di malattie e potenziali elementi di una massa rivoltosa.
Inoltre, la fede un po’ ingenua che Steinbeck nutre nella eventualità che questi migranti pretendano un giorno di essere trattati come i cittadini americani che effettivamente sono, rifiutando il miserrimo tenore di vita cui si piegavano «i lavoratori stranieri a basso costo», non fa i conti con la realtà.
Come scrive Wollenberg nella sua introduzione, «gli okies si dimostrarono meno intenzionati a organizzarsi e aderire ai sindacati rispetto ai messicani e filippini che li avevano preceduti. (…) I migranti della Dust Bowl si consideravano ancora agricoltori indipendenti e trovavano difficile abbandonare il tradizionale individualismo rurale». Ugualmente mal riposta era l’aspettativa di Steinbeck (e di Tom Collins) che a queste famiglie potessero essere concessi piccoli appezzamenti di terra che ripristinassero le condizioni sociali e ambientali dalle quali erano state violentemente sradicate. L’economia agricola californiana era estranea alla tradizione dei piccoli proprietari di stampo jeffersoniano, ed era piuttosto dominata da enormi aziende agricole i cui interessi erano rivolti al mercato internazionale.
Il testo di Steinbeck ci parla, ovviamente, di tempi passati; ma sono fin troppo evidenti le analogie con l’oggi, e ciò che accomuna, per esempio, gli okies di allora e i migranti africani che raccolgono i pomodori nel nostro mezzogiorno per paghe da fame, in condizioni lavorative e abitative indecenti.
Forse è anche per questo che l’importanza del lavoro di Steinbeck è universalmente riconosciuta: perché ci ricorda quella «tradizione degli oppressi» per la quale, come ammoniva Walter Benjamin, lungi dall’essere un’eccezione, lo stato di emergenza era (ed è tuttora) la regola.
Fonte: il manifesto
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