di Giulio D'Errico
Fino alla fine di marzo le esperienze di solidarietà di base sull'isola di Lesbo (Grecia) hanno cercato di porre un rimedio al sistema ufficiale di gestione dei flussi migratori. Ecco la testimonianza di un volontario, prima che il centro di raccolta fosse trasformato in una campo di detenzione.
Raccontare le esperienze di solidarietà che nell'ultimo anno e mezzo hanno visto la luce a Lesbo e in diverse altre zone in Grecia è un compito arduo. Al di fuori e contro i circuiti ufficiali di gestione dell'emergenza rifugiati – Frontex, campi profughi gestiti dall'UNHCR e ONG accreditate a lavorarvi all'interno, per intenderci – si sono sviluppate una miriade di diverse esperienze, in un vastissimo spettro per quel che riguarda dimensioni, caratteristiche, motivazioni, credenze e convinzioni. Queste esperienze hanno un arco di vita molto diverso l'uno dall'altra e anche le loro azioni sono cambiate nel tempo a seconda delle esigenze e delle possibilità.
Lesbo è stato un fortissimo punto d'attrazione per attivisti e volontari da diverse parti del mondo. A migliaia sono giunti sull'isola negli ultimi 12 mesi, chi per qualche settimana, chi per qualche mese, creando gruppi la cui composizione è estremamente fluida e cangiante.
Dall'estate del 2015 Lesbo è diventata il principale punto di arrivo per coloro che cercano di raggiungere l'Europa dal Medio Oriente e non solo. Il conflitto siriano e iracheno ha costretto centinaia di migliaia di persone a lasciare i propri paesi d'origine e raggiungere via terra la Turchia. Tanti percorrono viaggi simili da Afghanistan, Pakistan e Iran. La Turchia è ormai uno scalo quasi obbligato anche per chi cerca migliori possibilità dal Nord Africa. Raggiunte le coste Turche, le isole greche, avamposto della Fortezza Europa, sono ben visibili, e tra queste Lesbo è una delle più vicine.
Proprio a causa di questa vicinanza anche il ruolo degli scafisti, tanto sbandierato dai media, si è modificato. A differenza dei lunghissimi viaggi attraverso il mediterraneo, per raggiungere Lesbo bastano poche ore di navigazione e quindi la conduzione delle barche viene affidata agli stessi migranti, che spesso il mare non l'hanno praticamente mai visto. Per ogni viaggio, che costa dai 700 euro in su a persona, i trafficanti affidano la navigazione a una persona che viaggerà sì gratis, ma accollandosi più o meno consapevolmente la responsabilità delle vite di coloro che viaggiano con lui e rischi penali molto grandi.
Gestione informale e burocrazia
Moria è un piccolo villaggio a pochi chilometri dal principale centro e porto dell'isola: Mitilene.
Qui sorge il centro di accoglienza e detenzione, principale hotspot di Frontex, qui si svolgono le procedure per poter essere registrati come richiedenti asilo e ottenere i documenti necessari a transitare fuori dall'isola e, almeno in teoria, nel resto dell'Europa. Nel corso degli ultimi sei mesi questa possibilità è stata concessa a sempre meno persone e il criterio è puramente geografico. La registrazione è permessa in base alla nazionalità di appartenenza e, col tempo, le nazionalità accettate sono andate diminuendo. Per primi è toccato ai paesi del nord Africa, poi a quelli del Corno D'Africa, poi a Iran e Pakistan e infine all'Afghanistan. Dalla sera alla mattina, numerose persone si sono viste rifiutate; è stata loro negatala possibilità di ottenere qualsivoglia documento di transito, pur essendo già sbarcate da tempo e in coda per la registrazione.
Dai primi mesi del nuovo anno queste procedure sono aperte solo a Siriani e Iracheni.
La capienza di 700 persone dell'hotspot di Moria è stata raggiunta e superata quasi immediatamente. Le prime tende al di fuori del filo spinato del campo ufficiale hanno fatto la loro comparsa fin dalla scorsa estate. Niente cibo, niente acqua, nessun servizio sanitario. Una collina di ulivi in cui accamparsi in attesa di essere passati allo scanner delle procedure di registrazione di Frontex. Solo dopo sono arrivati i volontari.
Con arrivi quotidiani di migliaia di persone, questo campo informale si è presto riempito; soprusi e violenze non si sono fatte attendere, come anche i traffici di acqua, cibo, schede sim e telefoni a prezzi esorbitanti, con ricorrenti visite, non proprio amichevoli, delle forze dell'ordine greche.
Per affrontare la situazione è stata creata un'associazione con il preciso scopo di affittare il campo su cui queste tende sorgevano e garantire così a chi ci viveva la sicurezza di evitare un possibile sgombero, soprattutto data la vicinanza con il campo ufficiale.
Nei mesi successivi Afghan Hill (uno dei nomi con cui è stata chiamata questa collina) si è riempita di persone e situazioni, di strutture di supporto e reti di solidarietà. Attivisti da tutto il mondo hanno fatto dell'isola greca la loro destinazione, creando servizi igienici, cucine,information points, centri di consulenza legale e psicologica, corsi di lingua e giochi per bambini.
Il campo si è formato per “strati”, a seconda delle energie, delle volontà, delle capacità e dei bisogni di chi lo attraversava. Gruppi di attivisti, piccole associazioni dai più svariati connotati hanno saputo e potuto muoversi autonomamente, collaborando, confrontandosi e alle volte scontrandosi tra loro e con le sempre diverse persone che vi arrivavano. L'assenza di una gestione dall'alto ha permesso per lungo tempo a ogni situazione di ritagliarsi il proprio spazio, con le proprie regole e i propri tempi. Il continuo ricambio di gruppi e persone crea situazioni molto diverse le une dalle altre, nelle dinamiche interne come nelle relazioni con l'esterno, che in questo caso è rappresentato dalla municipalità e dalle organizzazioni che lavorano con e per Frontex.
I vari attori in gioco hanno pratiche e orientamenti molto diversi gli uni dagli altri e gli equilibri tra le diverse anime sono spesso fragili. Il maggior attrito si ha tra quelle componenti che puntano puramente sull'ottimizzazione dei “servizi” offerti e quelle più “rivendicative”, che nell'attivismo all'interno di Afghan Hill vedono anche l'occasione per creare reti di solidarietà più stabili che, dove possibile, rompano la barriera volontario/migrante. Le assemblee di coordinamento possono essere lunghe ed estenuanti, ripercorrendo dinamiche non nuove alla gran parte dei luoghi autogestiti, ma esasperate dall'emergenzialità della situazione.
I rapporti con l'UNHCR e le grandi ONG che lavorano all'interno del campo profughi ufficiale cambiano da gruppo a gruppo, ma sono generalmente ridotti al minimo. I lunghi incontri iniziali hanno reso subito evidenti le distanze tra le pratiche burocratiche di gestione dell'emergenza profughi da una parte e il confronto diretto con i fallimenti di questa gestione dall'altra.
I muri e il filo spinato del campo dividono due visioni del mondo completamente differenti. All'interno, le grandi organizzazioni non governative sono impegnate nel supporto alle politiche di Frontex e, perse all'interno di un labirinto di interminabili meeting ufficiali, preventivi di spesa e carte bollate, riescono ad essere nel contempo inumane, inefficienti e dispendiose. All'esterno, la mancanza di mezzi ha dato spazio alla creatività e al desiderio di supportare il bisogno e il diritto al movimento delle persone. Si conta che almeno 500.000 persone siano sbarcate sull'isola nel 2015 e almeno 80.000 nei primi due mesi del 2016, nonostante la neve e l'inverno siano arrivati anche qui.
Le procedure di registrazione spesso comportano giorni di coda e attesa. Le persone in attesa, proprio per quella burocraticità delle ONG multinazionali accreditate dall'Unione Europea, che possono lavorare esclusivamente all'interno del campo ufficiale, sono lasciate senza cibo, acqua o riparo indipendentemente dall'età o dalle condizioni climatiche ad aspettare il loro turno.
Un aspetto particolarmente importante su cui lavorano alcuni dei gruppi di Afghan Hill è quello della condivisione delle informazioni. Nel meccanismo di funzionamento di Frontex, le informazioni hanno un valore particolarmente alto, in particolare la loro mancata comunicazione.
Le comunicazioni ufficiali ai migranti, al momento della registrazione, sono scarse e mutevoli. A seconda del luogo e del momento politico, ai richiedenti asilo vengono consigliate le soluzioni più diverse: vengono suggeriti campi di transito sulla terraferma, che poi risulta quantomeno complicato lasciare, le notizie sulle situazioni ai diversi confini vengono taciute. L'assenza di adeguata informazione ha il solo scopo di aumentare il controllo sui flussi migratori. Le comunità migranti hanno ovviamente i propri canali di informazione e comunicazione, spesso interni ai diversi gruppi nazionali o locali. Queste reti comunicative si affidano però spesso a informazioni datate e raramente confermate. Al loro interno la propagazione di rumors è altissima e riguarda gli argomenti più disparati: dal rischio di vedersi requisiti i propri averi al confine di alcuni stati, all'impossibilità di raggiungere le destinazioni desiderate; dalla possibilità di continuare a praticare le proprie credenze, alle minacce di rimpatrio forzato nel paese di provenienza. Queste reti inoltre sono quelle su cui si innestano le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani.
Una condivisione, la più ampia possibile, delle informazioni è la chiave per permettere a chiunque di fare delle scelte consapevoli, valutando rischi e possibilità delle diverse opzioni a disposizione, legali o illegali. La difficoltà di fornire un quadro puntuale e preciso è alta. Il lavoro degli attivisti è quello di un continuo controllo incrociato delle diverse fonti ufficiali, di una ricerca con i migranti delle voci che hanno sentito e delle notizie in loro possesso, in modo da verificarle e la pubblicazione di continui bollettini multilingue con le informazioni più aggiornate. Il contesto muta quotidianamente: a livello dell'Unione Europea, tra accordi annunciati e poi rinviati, prese di posizione e voci contrastanti si assiste a un continuo braccio di ferro tra i diversi stati e con la Turchia; sempre più paesi europei, prime vittime delle proprie derive securitarie e xenofobe, annunciano la chiusura delle proprie frontiere, costruiscono muri e schierano eserciti; il governo greco sfoggia i muscoli per paura di venir tagliato fuori da Schengen, costruendo sempre più campi di detenzione e accoglienza sul suo territorio, rinforzando i controlli sulle coste e respingendo le barche in arrivo.
L'importanza della solidarietà
Afghan Hill non è l'unica realtà presente a Lesbo. Vi sono altre centinaia di gruppi che lavorano sull'isola. Gruppi di attivisti controllano le coste per avvistare le barche in arrivo e limitare il più possibile nuove tragedie. Altri gruppi si occupano degli spostamenti o dei rifornimenti per i diversi piccoli accampamenti presenti. Altri supportano i minori non accompagnati o le famiglie più bisognose.
Come si diceva all'inizio, raccontare delle esperienze di solidarietà di base espresse sull'isola è un compito arduo. La dinamicità della situazione e la difficoltà di reperire informazioni sono solo parte del problema. Alcune delle attività stesse possono proseguire e funzionare solo in quanto restano all'interno di un cono d'ombra, senza essere sotto i riflettori. Ancora più difficile è però attivarsi, in particolar modo da una prospettiva anarchica e libertaria, in una solidarietà pratica a supporto del diritto di movimento delle persone. Solidarietà che si esplica in un sostegno umano verso persone che si trovano in una situazione di emergenza, ma che - da un altro punto di vista - difficilmente riesce ad essere qualcosa di più di un rimedio agli aspetti più orribili di un sistema inumano come quello della gestione dei flussi migratori di Frontex.
Una scelta difficile, ma l'unica possibile. Si possono immaginare prospettive diverse che sappiano coniugare l'idea di un mondo senza confini e il sostegno concreto a chi attualmente vive una situazione drammatica?
Fonte: A Rivista anarchica
Originale: http://www.arivista.org/?nr=407&pag=27.htm#1
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