di Renata Puleo
L’articolo pubblicato su “Le Monde Diplomatique” di maggio scorso sul lavoro minorile in Sud America, mi offre l’occasione per riaprire una riflessione sul fenomeno dell’occupazione e dello sfruttamento della fascia più debole della popolazione, bambini e adolescenti [1]. Tempo fa ne abbiamo scritto, Piero Castello e io, commentando la relazione annuale presentata dal Presidente dell’INAIL Massimo De Felice al Parlamento il 19 luglio 2014, relativa all’andamento dell’Istituto per l’anno precedente [2]. Eravamo rimasti scandalizzati, per la verità senza che altri lo fossero più di tanto, né i pochi parlamentari presenti alla prolusione di De Felice, né i nostri lettori, da alcune tabelle allegate alla relazione. I grafici statistici ormai affollano qualsiasi documento ufficiale e confermano la convinzione di fondo in base alla quale un dato non è mai veramente tale, mai completamente amorfo nella sua “datità”.
I dati sono costruiti da qualcuno (non semplicemente raccolti) e, come in una fotografia, propongono alcuni particolari di ciò che inquadrano; altri aspetti rimangono oltre il margine, oppure vanno cercati sullo sfondo. Dunque, scorrendo le tabelle allegate alla relazione, avevamo individuato fra le fasce di lavoratori di cui l’Istituto si era dovuto occupare (infortunati, deceduti), quella indicata sotto al dicitura “lavoratori fino a 14 anni”. In Italia la norma stabilisce che si possa iniziare a lavorare non prima dei 16 anni pertanto, nelle pieghe dei dati ufficiali si palesava l’esistenza di un reato, ma né De Felice né qualcuno dei parlamentari sembrò notarne l’evidenza [3].
I dati sono costruiti da qualcuno (non semplicemente raccolti) e, come in una fotografia, propongono alcuni particolari di ciò che inquadrano; altri aspetti rimangono oltre il margine, oppure vanno cercati sullo sfondo. Dunque, scorrendo le tabelle allegate alla relazione, avevamo individuato fra le fasce di lavoratori di cui l’Istituto si era dovuto occupare (infortunati, deceduti), quella indicata sotto al dicitura “lavoratori fino a 14 anni”. In Italia la norma stabilisce che si possa iniziare a lavorare non prima dei 16 anni pertanto, nelle pieghe dei dati ufficiali si palesava l’esistenza di un reato, ma né De Felice né qualcuno dei parlamentari sembrò notarne l’evidenza [3].
Il socio-demografo che firma l’articolo di “Le Monde Diplomatique” riferisce in incipit della decisione assunta dal Presidente boliviano Evo Morales di abbassare l’età minima lavorativa da 14 a 10 anni, in risposta alle proteste di molti minori – e delle loro famiglie – che rivendicano il diritto al lavoro indipendentemente dall’età. Anche in Argentina, Perù, Brasile, Messico, in altri paesi sudamericani il lavoro minorile dilaga. Il fenomeno, oggi determinato dalla profonda crisi economica che torna a squassare il Sud America, malgrado le promesse contenute nelle nuove carte costituzionali e i provvedimenti dei governi post-dittatoriali, socialdemocratici, mostra caratteristiche storicamente stabili [4]. Aldilà delle norme che rispecchiano specificità regionali, ben pochi paesi rispettano le convenzioni internazionali in materia (come abbiamo detto, nemmeno l’Italia).
Ragionare sul lavoro minorile costringe a chiedersi cos’è il lavoro oggi e cosa significa essere bambini e giovani in società neoliberiste, non solo nel sud del mondo [5]. Basta infatti dare un’occhiata alle fasce di impoverimento in USA e nell’Europa dell’Est: la forza lavoro è di nuovo ferocemente privata di diritti. Lavori intellettuali e lavori manuali poca è la differenza nell’ottica capitalista della messa a valore generata dalle contingenti relazioni sociali di produzione.
Se il lavoro minorile interroga il concetto di lavoro in generale, problemi culturali specifici connotano il concetto di minorità, infanzia, genitorialità. Sappiamo che la borghesia nascente inventò il concetto di infanzia, prima di allora piuttosto oscuro, nascosto sotto l’idea di una sorta di animalità dell’infans, pre-umano e pre-linguistico. Con il mutamento del modo di produzione, la lunga neotenia umana e la sua cura cominciarono ad essere declinate come un’opportunità per la conservazione della proprietà e del lignaggio, non solo come un gravame morale e economico per l’adulto. Ambiguamente e ipocritamente il diritto alla formazione disinteressata del minore, il suo speciale diritto alla protezione sotto la mano adulta, sembrò potersi rivolgere in generale a tutte le creature piccole. Sappiamo altresì, quanto fosse impossibile vivere la propria minorità per i figli dei contadini o dei proletari, messi al lavoro precocemente, lavori nelle industrie nascenti, nei campi, a servizio nelle case borghesi, anche dopo le convulsioni rivoluzionarie di fine Settecento e dei due secoli successivi [6].
La stessa ambiguità vale oggi. Gli uffici internazionali del lavoro come quello con sede a Ginevra, le associazioni che si occupano delle fasce deboli della popolazione, stabiliscono le convenzioni, lanciano gli allarmi sugli abusi, ma il fenomeno si estende, si ramifica, prende figurazioni inedite, ne ripropone antiche: 168 milioni di minori dai 7 anni fino ad una imprecisata (fissata culturalmente e legalmente) età adulta, lavorano [7]. Cosa fanno? Come recita il titolo di un’indagine dell’ISTAT del 2002, svolgono “lavori e lavoretti”. Per i primi si intendono occupazioni non saltuarie in luoghi fisici di produzione e di servizi, per i secondi mansioni svolte periodicamente, spesso insieme alla frequenza a scuola, alle dipendenze delle loro stesse famiglie. Lavori domestici, piccoli incarichi di manutenzione casalinga, gravami veri a propri nella cura delle persone anziane, malate, più giovani. Riprendo l’accenno al dato culturale, un accenno solo perché il ragionamento, sia diacronico, storico, che sincronico, è impegnativo, fitto di sfumature, di chiaroscuri. Il socio-demografo autore dell’articolo da cui sono partita ne dà conto quando, parlando della cultura andina, ricorda che nella pedagogia popolare elaborata dalla Teologia della Liberazione, fin dagli anni ’70, si rivendicasse il carattere di educazione politica del lavoro dei minori [8]. Una sorta di gramsciana visione del lavoro manuale come elemento fondamentale per equilibrare la formazione intellettuale, mano e mente, libro e zappa.
A proposito dell’adolescenza, Gérard Lutte, intellettuale belga che da sempre si è occupato di questi temi, ne ha scritto in termini inequivocabili come di un’età fittizia, una sorta di limbo, di vita di mezzo, resa difficile perché ai soggetti usciti dalla pubertà non viene riconosciuta autonomia intellettuale e indipendenza economica. Leggere i suoi testi sulla Rivoluzione in Nicaragua, conclusasi nel 1979 con la fine della dittatura in un nazione oggi nuovamente piegata dalla miseria e dalla violenza, obbliga a confrontarsi con l’utopia che si possano riscrivere, insieme alla politica di un paese, anche le tappe della vita dei suoi abitanti. La ricerca che effettuò agli inizi degli anni ottanta descriveva gli adolescenti nicaraguensi che contribuivano al lavoro materiale e politico, vivevano in comunità autonome dal mondo adulto, studiavano e uscivano così dall’emarginazione e dalla spirale della violenza [9].
Poiché l’età media delle popolazioni andine, di quelle centro e sudamericane è molto bassa, è particolarmente interessante leggere ora di quell’esperienza che Lutte, ancora di recente, ha rivendicato come capace di rivoluzionare strutture economiche e sovrastrutture culturali. Nulla a che vedere con la mediatica lamentazione sulla società senza padri, sui figli perennemente straiati e connessi, con la falsa coscienza di chi ha varato il perverso dispositivo dell’Alternanza Scuola-Lavoro, addestramento precoce alla precarizzazione. Abitudine all’incertezza che la norma delegata dalla legge 107/2015, La Buona Scuola, prevede come esercizio alla vendita dei propri saperi, sussunti dal modello capitalista naturalizzato. Senza che siano più possibili quegli spazi di ribellione e di creatività che di un’età giovane dovrebbero costituire la cifra [10].
Tanto è sottile l’opera dei persuasori sulla necessità di adattarsi presto allo sfruttamento presentato come occasione di inclusione nel mondo adulto del consumo, che anche gli educatori spesso vacillano, incerti, impauriti di fronte ai compiti educativi. La necessità di riaprire una riflessione ampia sul nesso giovani-lavoro fa il paio con quella sull’idea di infanzia e su cosa significa oggi un sistema educativo pubblico. Forse, ripeto, si tratterebbe di partire da un’analisi delle forme del lavoro per capire anche la configurazione delle forme della vita, nelle sue varie tappe.
Il testo scritto dall’Ufficio di Ginevra, così come riportato dall’articolo citato, recita in un passaggio: “[…] i bambini costretti a lavorare non possono esercitare i diritti che sono di tutti i loro coetanei: l’accesso all’istruzione e il diritto a essere al riparo da violenza, abusi e sfruttamento”. Mentre sottolineo in corsivo quel “tutti” per le ragioni su esposte (non tutti, dipende da dove nasci!), mi chiedo perché non venga enunciato il diritto a giocare. Chiunque sappia di infanzia e di processi evolutivi conosce l’importanza del gioco, esperienza a capo della crescita emotiva e cognitiva, di ogni altra futura prassi sociale. Commentando la nuova idea di Mondo veicolata dalle società neoliberiste, Paolo Virno scrive: “[…] l’antidoto alla perturbante puerilità della società dello spettacolo sta nella serietà dell’infanzia”. Infanzia che gioca, che ascolta la stessa favola con identico, ripetuto stupore, che prova a fare di un’attività elementare (di elementi, di tasselli, di basi emotive e intellettuali) come “il fare finta di”, un avvio alla prassi pubblica, a un’etica comunitaria [11].
I dati, le tabelle, le relazioni ci mostrano nella loro asettica evidenza numerica bambini e giovani soggetti a più forme di sfruttamento. Creature minori che descrivono con la messa a valore economico della loro mente, della loro forza lavoro, della loro immagine, la debolezza culturale e materiale degli adulti, nonché il resto diplus-godimento che è nascosto nel potere esercitato da chi impone la mano [12].
Volendo riassumere e concludere possiamo dire che oggi le creature piccole, i bambini e gli adolescenti subiscono almeno due forme di abuso produttivo. La prima è quella che vede l’infanzia e l’età giovane come principale unità di consumo, espressione del desiderio mai appagato di possedere, per lo più oggetti non necessari, futili, deperibili, sempre ancora sostituibili; esse fanno così da specchio all’analogo bisogno di avere e di dilapidare degli adulti, presente trasversalmente in tutte le classi sociali e indipendente dalla effettiva possibilità di accedere al consumo. La seconda riguarda l’uso dei corpi, corpi che seducono, inteneriscono; lo sguardo perverso del mercato ne sfrutta l’immagine per far circolare le merci, i feticci di un apparente benessere.
Nelle sacche più povere, sia delle società mature sia di quelle di più recente formazione economico-politica, il corpo giovane è brutalmente forza-lavoro. A poco prezzo, perché è energia rinnovabile, sempre disponibile, su cui gioca il ricatto famigliare, l’imposizione del gruppo sociale, verso i quali il minore prova un misto di soggezione, di inconsapevolezza, semplicemente di paura.
Note:
[1] R. Cavagnoud, Bambini, al lavoro, in “Le Monde Diplomatique”, maggio 2016.
[2] P. Castello e R. Puleo, I carusi del XXI secolo, in “La città futura”, 7 febbraio 2015.
[3] Alcuni commenti sulla relazione di De Felice e il tema dell’Alternanza Scuola-Lavoro, a cura Di Piero Castello e Fulvio Freschi, si possono trovare sulla rivista “Infopensionati” in uscita sul sito pensionati.cobas.it.
[4] Senza dimenticare il ruolo che di nuovo giocano gli Stati Uniti nella destabilizzazione del “loro cortile”, con maggior evidenza in Argentina, Brasile e Venezuela.
[5] La letteratura in materia è oggi molto vasta, soprattutto sulle nuove forme di lavoro, sul lavoro cognitivo, sul concetto di general intellect e sul ritorno della schiavitù.
[6] Una mostra al MoMa di New York nel 2012, dedicata alla scoperta/invenzione dell’infanzia, faceva risalire la centralità del mondo infantile nell’immaginario collettivo al famoso testo di Ellen Key, Il secolo del bambino, pubblicato, non casualmente, nel 1900.
[7] Ufficio Internazionale del Lavoro di Ginevra, La fin du travail des enfants: un objectif à notre portée, 2006, citato alla nota 8 dell’articolo di R. Cavagnoud; altre informazioni e dati su www.savethechildren.com
[8] A. Cussiánovich, Aprender la condición humana. Ensayo sobre padagogia de la ternura, Ifejant, Lima 2010; citato alla nota 6 dell’articolo di R.Cavagnoud.
[9] G. Lutte, Sopprimere l’adolescenza? I giovani nella società post-industriale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; id, Quando gli adolescenti sono adulti. I giovani in Nicaragua, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984.
[10] Da osservare con grande attenzione la protesta di questi giorni dei giovani francesi contro la legge sul lavoro di Hollande, molto simile al JobsAct italiano.
[11] P. Virno, L’idea di mondo intelletto pubblico e uso della vita, Quodlibet, Macerata 2015.
[12] Il termine plus-godimento, forgiato su quello marxiano di plus-valore, si deve al lavoro psicanalitico di matrice lacaniana a proposito del concetto di merce, oggetto investito, feticcio.
Fonte: La Città futura
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