di Marco Palazzotto
Nel 2015, in questo stesso periodo dell’anno, ci siamo occupati di GREXIT. Anche questa estate, ad un anno dal voto OXI, ci occupiamo di un altro paese che vuole rompere con la politica unitaria europea. Il paragone tra Grecia e Regno Unito è molto improbabile, per via della storia, delle dimensioni e dei diversi gradi di sviluppo dei due paesi. Però alcune analogie si possono rilevare, soprattutto a proposito dei rapporti tra governi nazionali e cittadini, visto che questi ultimi - in entrambi i casi - hanno scelto di contrastare le élites europee. In entrambi gli avvenimenti il ruolo della sinistra è stato molto ambiguo.
Nel caso greco il governo Tsipras si è rivelato inadeguato a rappresentare le istanze di cambiamento provenienti dalle classi lavoratrici che in massa – prima attraverso manifestazioni pubbliche, poi attraverso il voto – hanno rifiutato i memoranda della troika.
Nel caso greco il governo Tsipras si è rivelato inadeguato a rappresentare le istanze di cambiamento provenienti dalle classi lavoratrici che in massa – prima attraverso manifestazioni pubbliche, poi attraverso il voto – hanno rifiutato i memoranda della troika.
Ma andiamo al caso inglese, sulla Grecia abbiamo già scritto abbastanza qui, qui, qui e qui. Non mi soffermerò sulla polemica a sinistra scoppiata in rete tra sostenitori del remain e sostenitori del leave sulla composizione dell’elettorato inglese che è andato a votare al referendum BREXIT. Per questo argomento – si ritiene per ora superfluo - rimandiamo a quest’analisi di Andrea Genovese apparsa su Contropiano qualche giorno fa.
Partirei con l’elencare alcuni punti che hanno scaldato il dibattito tra pro e contro uscita, all’interno di quel che rimane della sinistra italiana. Tra i pro uscita la tesi che va per la maggiore è che gli squilibri tra paesi possono essere risolti solo attraverso la manovra delle leve di politica economica a livello nazionale, considerato che le istituzioni europee oggi non consentono compensazioni tra regioni più sviluppate e regioni in crisi. La rottura dell’unione monetaria e (secondo alcuni) anche dell’unione politica porterebbe dei benefici a quei paesi più in crisi che potrebbero finalmente, attraverso l’ottenimento di maggiore autonomia, riprendere a crescere e a competere con le aree più progredite. Quest’analisi sarebbe inficiata da un problema politico riassumibile nella domanda: quale classe politica - e per gli interessi di quali classi sociali - dovrebbe gestire tale periodo di transizione e quale governo per la riconquista della sovranità nazionale?
Tale soluzione creerebbe problemi per due motivi:
Lo sviluppo degli attuali rapporti di forza in campo, e l’egemonia delle classi dominanti sulle classi lavoratrici, determinerebbero, nel caso di uscita dall’UE gestita da partiti liberali e di estrema destra, un’eventuale recrudescenza delle politiche economiche, che finirebbe per interessare maggiormente proprio i settori più deboli e poveri della società.
La posizione del leave comporterebbe una scarsa considerazione del sistema produttivo internazionale caratterizzato da una centralizzazione del comando produttivo sempre più nelle mani di pochi soggetti che operano in regime monopolistico, ma con una minore concentrazione produttiva. Le reti produttive travalicano i confini nazionali e sempre più spesso i lavoratori - sebbene sotto lo stesso comando - sostengono condizioni di lavoro differenti secondo la nazionalità di provenienza.Tale punto di vista, anche nella sinistra radicale, è sempre più influenzato dalle teorie post-keynesiane che tengono poco conto delle contraddizioni del capitalismo secondo una lettura macrosociale. Per chi identifica però l’Unione Europea come soggetto politico che gestisce una macchina neoliberista immodificabile, e che fa gli interessi del capitalismo internazionale ben rappresentato da alcune aree geografiche, forse una soluzione di rottura, e pertanto una ricomposizione delle lotte da un punto di vista nazionale, sarebbe auspicabile per motivi tattici.
Andiamo ad analizzare le riflessioni dei sostenitori di sinistra del remain. La motivazione prevalente verte sul problema dei rapporti di forza attuali e delle soggettività politiche che dovrebbero rappresentare le classi più deboli. In un momento storico come questo una rottura dell’Unione Europea per un ritorno ai governi nazionali creerebbe un peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Inoltre, un ritorno agli Stati nazionali è impossibile perché i “dispositivi di potere” sono cambiati e gli Stati non esistono più, avendo fatto posto a strutture sovranazionali che controllano un capitale ormai globalizzato e finanziarizzato. Un ritorno agli Stati nazionali sarebbe deleterio non solo perché è impossibile ritornare ad un’economia statuale, ma anche perché assisteremmo ad un peggioramento delle condizioni di vita dovuto al dilagare delle destre populiste, liberali e xenofobe.
Concentrandoci sul caso britannico si nota, dopo il referendum, un pessimismo sostenuto soprattutto dai maggiori quotidiani, per inculcare agli italiani l’idea che una fuoruscita dall’UE porterebbe ad una catastrofe. Si sprecano gli articoli sul potere di acquisto degli inglesi, sulle pensioni, sul welfare e sulle politiche interne che peggiorerebbero le condizioni dei britannici e soprattutto dei non residenti. Tentiamo allora di approfondire il tema che si sviluppa in modo alquanto complicato e sicuramente più complesso rispetto alla fotografia che ne fanno i nostri media.
Intanto premettiamo e sfatiamo il primo luogo comune che viene fuori dalla questione BREXIT secondo il quale il voto porterebbe a una catastrofe per via dell’uscita dall’UE subito dopo il voto. Nella realtà occorre considerare diversi fattori. Il primo è che il Regno Unito è un paese di tradizione imperialista e, quindi, è normale che le proprie classi dirigenti - a parte la volontà di buona parte della working class che ha votato leave - non vogliano sottostare ai diktat di un soggetto che non ritengono superiore politicamente. La concorrenza per la leadership con Germania e Francia ha accentuato questa volontà. In secondo luogo il Regno Unito non uscirà dall’UE molto facilmente, non è detto neanche che ci riesca considerato che i trattati costitutivi dell’UE, come ad esempio il Trattato di Lisbona, prevede all’art 50 la procedura della lunga trattativa, che può durare due anni rinnovabili per altri due, e che dipende sostanzialmente dalla volontà del Consiglio Europeo. Inoltre è già successo, un esempio è la Grecia, che il voto popolare venga completamente disatteso. Insomma nella peggiore delle ipotesi il Regno Unito potrebbe uscire dalla UE tra 4 anni se le parti interessate arrivassero ad un accordo condiviso.
Altro luogo comune che bisognerebbe sfatare è l’isolamento del Regno Unito rispetto alla circolazione non solo di merci e capitali, ma anche di persone. In questo caso molti dei sostenitori del remain, e i quotidiani nostrani, indicano un inasprimento delle istanze reazionarie in relazione alla politiche di immigrazione. In realtà pochi hanno notato che pur restando nell’UE molti paesi hanno disapplicato Schengen e gli accordi sull’immigrazione. Guardiamo il caso della Germania che ha bloccato i flussi in entrata anche per chi chiede asilo politico (una notizia qui); o l’Austria che costruisce muri sul Brennero; o ancora la Francia che blocca i flussi da Ventimiglia e che dopo i fatti di Parigi ha inasprito i controlli di polizia verso chiunque provenga da paesi tacciati di terrorismo. Non ultima proprio la Gran Bretagna che ha ottenuto una sospensione di 7 anni delle regole per quanto riguarda il welfare verso i non residenti (qui una notizia). Tale sospensione dimostra che le procedure europee sono applicabili e sospendibili in qualunque momento. Inoltre, occorre evidenziare che il Regno Unito è di fatto già fuori dalla UE. Infatti, oltre all’autonomia monetaria, il paese gode dell’indipendenza da molti patti europei come il Fiscal Compact o l’unione bancaria, come dimostra la foto seguente.
http://www.truenumbers.it/di-europe-ce-ne-sono-almeno-5/
Le direttive europee incidono sul Regno Unito solo per la libera circolazione di persone, merci e capitali. Proprio questi sono gli aspetti da analizzare per leggere il voto degli inglesi al referendum. Sicuramente illeave, ancorché sostenuto dalla “working class”, è stato un voto contro gli immigrati, motivazione però veicolata dai partiti populisti antieuropei, che è servita per creare consenso elettorale. Ma il vero motivo che ha spinto anche alcune componenti delle classi dirigenti del paese a votare il leave potrebbe riguardare vari aspetti, come gli equilibri interni al sistema politico (un esempio potrebbe essere lo scontro dentro i Tories tra David Cameron e Boris Johnson) e la ricerca di nuovi equilibri con il resto del continente.
Riguardo a quest’ultimo aspetto alcuni economisti – un esempio in Italia è Emiliano Brancaccio - sostengono che la libera circolazione di merci e capitali ha causato nel Regno Unito un forte indebitamento con l’estero. Questo squilibrio eccessivo delle bilance dei pagamenti di parte corrente, potrebbe essere la causa principale della spinta del mondo imprenditoriale inglese a cercare nuovi equilibri dentro l’UE.
Altri studiosi evidenziano che il problema della bilancia dei pagamenti sussiste fin dai tempi dell’Impero e che l’adesione all’UE non modifica tale tendenza. Guglielmo Forges Davanzati sostiene che il voto delleave ha radici – come detto sopra - nelle tendenze del mercato del lavoro ed in particolare nella concorrenza tra lavoratori inglesi ed immigrati (un articolo qui).
In conclusione, non è certo che il voto BREXIT possa fermare la volontà delle classi dirigenti europee nel mantenere lo status quo. Sarà interessante capire come reagiranno le forze centripete del capitalismo anglosassone nel cercare più autonomia per spostare più profitti dal centro Europa verso il Regno Unito. Sarà anche importante capire come reagirà la sinistra socialdemocratica laburista che sostiene Corbyn (oggi in difficoltà con i deputati blairiani che lo accusano di essere stato troppo morbido nella campagna per il remain) e che potrebbe approfittare di questa impasse dentro il Tory alle prese con lotte intestine per la sostituzione di Cameron. Inoltre, la sinistra del Labour e gli altri partiti radicali dovranno essere capaci di ricompattare il blocco sociale che dovrebbero rappresentare e che ha deciso di non restare più in un sistema continuo a quello della Thatcher, che ha causato – e continua a causare – la distruzione dello stato sociale e del sistema produttivo inglese.
Fonte: Palermograd
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