di Natascia Mattucci
La teoria politica si sta interrogando sulla mutazione che interessa alcune categorie politiche moderne e ridisegna il rapporto tra società civile e corpo politico. La fenomenologia della mediazione tra queste due sfere ne è interessata in via principale, come attesta la letteratura fiorita negli ultimi anni su tramonto dei partiti, crisi della rappresentanza, populismo territoriale e virtuale, riemersione periodica di movimenti qualificati come “antipolitici”. Nel complesso scenario contemporaneo stanno assumendo un ruolo determinante movimenti sociopolitici che sono riusciti a coagulare forme di dissenso e conflitti sociali in una piattaforma programmatica inedita capace di questionare il rapporto tra democrazia elettorale-rappresentativa, poteri contro-democratici di vigilanza e funzione del politico, come attività deliberativa destinata a fissare le regole del mondo comune.
Benché tipica della politica moderna, la retorica antipolitica è richiamata nel caso dei più recenti fenomeni politici sorti spontaneamente in alcuni dei paesi più interessati dalla crisi economica al fine di sottolinearne in via quasi esclusiva la natura polemica e oppositiva. Il rischio al quale avvia un’analisi che privilegi l’orizzonte antisistema è quello di distorcere o persino addomesticare una dimensione insopprimibilmente critica della politica moderna e del suo artificio rappresentativo che queste espressioni del potere di sfiducia dei cittadini sembrano intercettare. Per tentare di analizzare alcune caratteristiche di movimenti sociali e fenomeni politici che, nel caso dell’Italia e della Spagna, presentano qualche punto di tangenza e sensibili differenze, può essere utile collocarne il terreno di indagine tra fenomenologia antipolitica e corrosione del legame eletti-elettori (“entropia rappresentativa”), tra crisi della democrazia rappresentativa e mutazione-moltiplicazione delle forme di partecipazione della cittadinanza. Più in dettaglio, si cercherà di situare la riflessione su alcuni movimenti contemporanei tra teoria e politica, mettendo a confronto la periodica denuncia del deficit di rappresentatività che affievolisce la responsabilizzazione dei rappresentanti con il potere negativo di controllo da parte dei rappresentati.
Esplorare alcuni caratteri di queste nuove espressioni politiche implica inoltre interrogarsi sulla funzione sociale e politica della “rete”. In prima battuta, le nuove tecnologie comunicative sono state celebrate come foriere di una democrazia elettronica che avrebbe abbassato i costi delle consultazioni elettorali e moltiplicato le loro occasioni, guardando a un’applicazione di questi strumenti soprattutto in ottica elettorale-rappresentativa. Si è sottovalutata la funzione politica che la rete sta acquisendo in altro senso, come spazio di organizzazione e confronto dei giudizi e delle valutazioni. Alcuni fenomeni politici, che più di altri sembrano porre all’attenzione contraddizioni visibili su scala glocale, hanno colto l’attitudine della rete a farsi spazio di rappresentazione dei conflitti. Occorrerà interrogarsi sulla capacità che questi nuovi soggetti politici hanno di tenere in movimento forza tellurica dei bisogni locali e costruzione di istanze condivise e generali, anche attraverso la rete stessa.
Tra società civile e corpo politico*
Il perdurante scenario di crisi che negli ultimi anni caratterizza una parte delle economie degli Stati europei ha mostrato come il capitalismo finanziario a mercato globale eserciti una governance fattuale nei territori impiegando i governi statali in una funzione inedita rispetto al passato. È stato evidenziato come «di fronte al potere attuale del “finanzcapitalismo”, [occorrerebbe] parlare allora di una lex pecuniaria: una forma di autorità in grado di riarticolare l’operatività dei singoli Stati ridotti al ruolo di “assemblatori” di logiche e razionalità funzionali a poteri che li trascendono»[1]. La progressiva finanziarizzazione dell’economia, nucleo autentico della globalizzazione, si è affermata operando attraverso istituti – banche e agenzie di rating – e talora istituzioni globali – FMI, BM, WTO – che hanno sensibilmente ridotto le autonomie dei singoli Stati nazionali. La crisi è percepita come un cambiamento peggiorativo delle condizioni di vita presenti e delle aspettative future che dall’economia è penetrato rapidamente nella sfera vitale dei singoli individui comprimendone orizzonti prospettici. È in questa direzione che alcuni interpretano quella contemporanea non come una fase ciclica bensì come un modus operandi capace di imporre un rapporto credito-debito agli Stati, come si è visto nel caso greco, e di instaurare nei fatti normazioni tecnocratiche che possono delegittimare e svuotare le norme politiche espressione dei tradizionali istituti di mediazione e rappresentanza nazionali[2].
Nel solco della crisi economica, che ha messo altresì a nudo la carenza di collante politico in un’Europa tenuta insieme da un’esile comunità della moneta, si possono inscrivere le istanze regionaliste post-nazionali che in uno scenario geopolitico incerto si aggrappano a piccole patrie alle quali affidare la difesa dell’identità territoriale e il recupero di un’autonomia decisionale. Le discutibili politiche di austerity adottate dalle istituzioni europee come farmaco per le economie nazionali meno solide sono state il terreno sul quale la contrazione di politiche di welfare e la conseguente “mutazione inegualitaria” si sono coagulate in forma di conflitti sociali che hanno innescato nuovi fenomeni politici o sono stati da essi intercettati[3].
Alcuni dei fenomeni politici che hanno tratto linfa vitale dallo scenario della crisi hanno altresì beneficiato di una sensibile disaffezione nei confronti delle istituzioni rappresentative, in particolare verso le élites oligarchiche che li presiedono. In realtà il pregiudizio nei riguardi di tutto ciò che attiene alla politica non è certo nuovo: Hannah Arendt aveva messo in luce, ben prima che la democrazia si consolidasse in Europa, come «l’idea che la politica in sostanza sia una trama di menzogne e inganni prodotta da interessi meschini e da una ancor più meschina ideologia, e che la politica estera oscilli tra vuota propaganda e nuda violenza, [è assai più antica] dell’invenzione di strumenti che consentono di distruggere tutta la vita organica sulla terra»[4]. Il disincanto contemporaneo, che si è consumato all’ombra di un formalistico trionfo della democrazia in un secolo di autoritarismi e totalitarismi, è il portato di cause differenti e tra di loro certamente connesse che vanno da un’enfasi sull’elettoralismo a spese dello spirito partecipativo fino a un’irrilevanza crescente della cultura ed educazione politica in uno sfondo di disuguaglianze socio-economiche in aumento.
Giovanni Sartori ha ricordato come alla fine dell’Ottocento la classe operaia discutesse con passione di politica nei circoli di partito, mentre oggi prevalgono argomenti di conversazione semplici. La cultura della politica si nutre di un «“pensare per concetti” al quale non siamo più addestrati»[5] che abitui a “disidentificarsi” e mettere in relazione il proprio orizzonte personale con eventi lontani e con individui diversi da quelli con i quali si ha un rapporto di prossimità. La capacità di costruire una trama temporale non consumata nell’istante è alla base di un esercizio attivo della cittadinanza e di una reale comprensione delle dinamiche che agiscono nella sfera pubblica. La memoria politica, componente che radica e dà profondità alla cittadinanza, potrebbe certamente rappresentare una bussola per orientarsi nelle fasi complesse come quella odierna. La politica contemporanea appare invece sottomessa a un registro della “immediatezza”, a una «tirannia del presente» che può manifestarsi tanto in una tecnocrazia dell’efficacia quanto in un populistico governo dei sondaggi e della demoscopia[6]. Non è possibile una “buona democrazia” in senso qualitativo se i cittadini non ricevono un’educazione civica e non sviluppano, al pari dei propri rappresentanti, virtù civiche democratiche quali la cooperazione sociale, la deliberazione pubblica, la solidarietà[7]. Solo lo sviluppo di virtù civiche-cittadine può contribuire alla costruzione di una società decente nella quale la democrazia acquisti sostanza, profondità e prospettiva.
La teoria e la scienza politica hanno assunto questo scenario in divenire per analizzarne, ciascuna con i propri strumenti, le ricadute in termini di riarticolazione del rapporto tra società civile e forma politica. Ancor prima di quella economica, la parola “crisi” è stata massicciamente impiegata nell’ultimo ventennio nell’ambito degli studi politici per descrivere la metamorfosi che sta interessando la fenomenologia mediativa tra sociale e politico in forma di eclissi dei partiti di massa, populismo territoriale o virtuale, autoreferenzialità rappresentativa, rinascita di presunti movimenti “antipolitici”. Il mutamento di questo rapporto può essere messo in prospettiva con l’innesto della recente crisi economica del 2008 in quel complesso crepuscolo della modernità che vede la sovranità statuale ridotta a ruolo di comprimaria nello scenario globale. La sovranità statuale è da tempo al centro di un dibattito complesso che ne ha diagnosticato la compressione, se non addirittura la scomparsa, alla luce della sua incapacità di dare conto di fenomeni economici e politici di portata mondiale, come pure di contenere spinte regionali che ne deflagrano la compattezza territoriale[8]. Ad uno sguardo d’insieme, la “caduta” sovrana sembra legata alla complessa riarticolazione geopolitica e geoeconomica degli assetti di potere che sta precipitando lessici e categorie moderne in un lungo crepuscolo che assume la forma di crisi: uno spartiacque che divide una fase storica da un’altra. Questo lungo finale moderno costituisce l’occasione per un ripensamento fecondo delle categorie e del lessico politico che continuiamo a impiegare, specie dell’istituto rappresentativo deputato a conferire una forma unitaria alla volontà del soggetto collettivo, muovendo da un processo tipicamente moderno di astrazione degli individui. La metamorfosi sovrana non può che avere ricadute sulla rappresentanza, poiché il soggetto collettivo sovrano costituito dalla moltitudine degli individui assume forma e immagine politica attraverso un processo di autorizzazione su base competitiva. Già in seno alla modernità voci critiche nei confronti dell’istituto rappresentativo si erano levate per sottolineare come esso si configurasse nei termini di un’amministrazione burocratica di una élite che inaridiva la libertà e felicità pubblica nel gap governanti-governati[9]. In un orizzonte moderno in piena dissolvenza, in cui categorie del passato coesistono con segnali di cambiamento, l’istanza partecipativa e plurale neutralizzata – a detta di alcuni – dalla delega parrebbe riemergere. Bisogna interrogarsi sulla direzione indicata da questo indebolimento delle tradizionali istanze mediative: se la forza tellurica sociale liberata dalle maglie partitiche conduca alla riattivazione del circolo dialettico-rappresentativa o se invece ne svuoti la logica attraverso una presentificazione di quel popolo costitutivamente assente o introvabile.
Alcuni dei fenomeni che animano la scena politica europea contemporanea e che sono espressione di questa duplice crisi, economica e categoriale, sembrano rimettere in discussione il rapporto tra società e corpo politico e, in modo più specifico, la logica della rappresentanza politica moderna. Il verbo formare è determinante per chiarire in che modo la concettualità politica moderna abbia inteso la rappresentazione della volontà attraverso una mediazione, nell’impossibilità per la volontà (del popolo) di essere immediata. Il pensiero politico moderno ha fatto della rappresentanza un’attività di formazione di una volontà politica unitaria che non è presupposta, né data fuori da un processo che si muove, come ha rimarcato Carl Schmitt, tra impossibilità dell’identità assoluta (popolo presente come unità politica) e necessario richiamo a questa istanza unificatrice ideale[10]. Il rischio che questo processo si risolva nella mera “autorizzazione” degli eletti o che il circolo rappresentativo si inaridisca disseccando le istanze partecipative, dirette e indirette, che ne determinano il carattere democratico è concreto. Nadia Urbinati ha osservato in proposito che la rappresentanza non è solo processo di sanzione e ratifica del voto, ma deve tenere il sovrano in continuo movimento, collegare il dentro e il fuori delle istituzioni, ampliare la volontà politica nella sua manifestazione[11]. Il dibattito sulla crisi della rappresentanza politica sembra essere fortemente condizionato da un’opposizione tra mediazione e immediatezza, tra autorappresentazione e politica della presenza che conduce, il più delle volte, a guardare alla democrazia rappresentativa come a uno svuotamento della partecipazione a vantaggio della procedura o, al contrario, a usare la democrazia diretta come pietra di paragone di quella rappresentativa.
Oltre che in ottica rappresentativa, la fenomenologia politica contemporanea tende, in alcuni casi, ad essere interpretata in chiave antipolitica. La riflessione filosofica sulla politica reca da sempre con sé un’insopprimibile dimensione normativa che si traduce in ciò che la politica dovrebbe essere. Questa dimensione etica non può che apparire distante dalla realtà politica, specie in un’epoca profondamente cinica come quella contemporanea[12]. Un’epoca in cui il pregiudizio verso la politica, che certo poggia sulla cattiva politica, è giunto sino a immaginarne una liquidazione. L’allontanamento della politica dal suo nucleo autentico, ossia l’arendtiano spazio di relazione tra libertà, è spesso il terreno in cui alligna l’antipolitica. La tecnocrazia, l’assimilazione della politica al mercato, la mancanza di memoria, la menzogna rappresentano sentieri antipolitici di progressiva depoliticizzazione delle democrazie[13]. Con antipolitica in alcuni casi si nominano quelle strade che conducono la politica ad auto-negare il suo nucleo. L’intreccio tra antipolitica e dialettica rappresentativa può essere utile per riflettere su alcuni dei fenomeni politici affacciatisi di recente sulla scena politica europea.
I movimenti sociopolitici tra antipolitica, deficit di rappresentatività e comunicazione
«I movimenti di contestazione proliferati nell’Europa del sud per effetto della crisi economica presentano tratti comuni e sensibili differenze tra di loro. Il comune denominatore è il rifiuto della politica economica e della corruzione che hanno caratterizzato i partiti di governo delle ultime decadi, con il conseguente discredito delle loro democrazie rappresentative. [I movimenti] rispondono così a una domanda sociale profondamente sentita: da lì i loro brillanti risultati elettorali. […] il Movimento 5 stelle dell’ex comico Beppe Grillo in Italia e Podemos dell’universitario Pablo Iglesias in Spagna sorgono da processi originali in cui un leader dotato per la comunicazione riempie un vuoto di organizzazione del rifiuto sociale di fronte ai partiti tradizionali, compresa la sinistra. Nei 5 stelle a partire dal successo del blog di Grillo, in Podemos attraverso il canale della videocrazia. Entrambi sostenendo la democrazia delle piazze pubbliche attraverso il ricorso massiccio alle reti sociali»[14]. La crisi economica europea e la crisi di rappresentatività della rappresentanza politica sono pertanto la cornice nella quale si colloca la nascita di movimenti sociopolitici che si pongono come interpreti di profonde istanze di cambiamento da parte dei cittadini. Se guardiamo all’Italia, nelle elezioni politiche del 2013 il Movimento 5 stelle si è affermato come una delle forze politiche egemoniche che ha interpretato l’insofferenza della società civile e ha tradotto la denuncia della logica inegualitaria del sistema in un’istanza politica da rappresentare. Questa nuova formazione ha compiuto un percorso inedito dalla rete al territorio fino alle istituzioni nazionali ed europee. A ridosso della sua consacrazione nelle urne nazionali i mezzi di comunicazione hanno fatto un ampio ricorso al termine “antipolitica” per dare conto di un consenso popolare significativo e in parte inatteso.
È bene ricordare che l’interesse nei confronti del fenomeno antipolitico è aumentato in modo esponenziale in conseguenza di reiterate manifestazioni di disaffezione alla politica da parte di gruppi di cittadini, movimenti o personaggi che hanno fatto di questo registro un ingrediente essenziale delle proposte politiche e degli esiti elettorali[15]. Questi ultimi vanno inquadrati alla luce di una storia della democrazia segnata da una decadenza del corpo politico e da un’implosione del sistema partito che hanno aperto la strada a una nebulosa di forze politiche fortemente connotate da un processo di personalizzazione[16]. Come ricorda Matteo Truffelli, l’antipolitica non è certo una categoria nuova nel panorama politico, benché sia diffusa la tendenza a ridurne lo spettro temporale al processo di trasformazione che ha riguardato alcune democrazie con la fine del bipolarismo[17]. In realtà, sin dalle sue prime manifestazioni, il fenomeno antipolitico si è presentato come una forma di contrapposizione ad una determinata espressione di politica valutata come corrotta o priva di legittimazione popolare. Al di sotto di questa etichetta, che evoca fenomeni fluidi e dai confini incerti, sono stati posti personaggi ed esperienze molto lontani fra di loro, alcuni internazionali ed anti-sistema, altri rivolti contro un professionismo politico reo di essersi sostituito alla voce autentica del popolo, sia quello radicato in un territorio che quello virtuale della rete. L’antipolitica appare come una «filosofía negativa» che accentua il carattere oppositivo e polemico rispetto ad una determinata politica, da qui il suo utilizzo per qualificare fenomeni populisti, anti-statali e retoriche del complotto[18]. Pur nella difficoltà che gli studiosi hanno incontrato nel fare una ricognizione storico-politica del suo impiego, quel che è stato sottolineato è come essa costituisca una peculiarità della politica moderna. Obiettivo polemico principale dei fenomeni identificati come antipolitici è il sistema rappresentativo a base partitica, meccanismo costruito per filtrare e tradurre le istanze sociali in forma politica. Il rifiuto della rappresentanza politica come macchinazione artificiale di impersonamento del popolo è un tratto ricorrente nel pensiero antipolitico e si traduce in una presa di distanza da uno degli istituti politici principali della modernità politica[19].
Le disfunzionalità dell’artificio rappresentativo possono essere molteplici e non tutte immediatamente riconducibili a fenomeni di malcostume che farebbero riemergere la persona naturale dietro la maschera. Le sfide che una società complessa e globale pone oggi alla rappresentanza politica rischiano di essere difficilmente portate a un piano di più alta sintesi contribuendo a rafforzare l’immagine di una macchina costosa e inefficiente. Le critiche degli attuali movimenti nei confronti degli istituti e corpi deputati alla mediazione tra sociale e politico vanno al di là di una loro temporanea disfunzione e sembrano invece appuntarsi sulla logica della messa in forma della volontà politica attraverso la finzione rappresentativa. Lo ha intuito Nadia Urbinati che ha utilizzato un ossimoro per definire quel che, almeno nelle prime fasi della sua esistenza politica, il movimento pentastellato sembrava incarnare: un caso di «democrazia rappresentativa diretta»[20]. Espressione che allude a una forma di democrazia che mantiene un abito rappresentativo ma assume come corpo magmatico, difficile da comporre, la presenza apparentemente immediata del popolo della rete. Essa si alimenta del contatto diretto tra i cittadini-rappresentanti e cittadini-rappresentati reso possibile dalla compressione spazio-temporale che la strumentazione tecnologica oggi consente. Alla mediazione rappresentativa dei partiti tradizionali, considerati espressioni sclerotizzate di una dissocazione ontologica tra politica e sociale, si opporrebbe un’autarchica immediatezza garantita dal flusso delle comunicazioni web. Secondo Marco Revelli, siamo dinanzi a un lungo finale di partito come forma di organizzazione di massa del XX secolo, speculare alla metamorfosi delle dinamiche produttive che vedono un superamento del fordismo e della società industriale[21]. La crisi del partito-massa ideologicizzato e burocratizzato con una base sociale omogenea e l’emersione di partiti capaci di intercettare un consenso trasversale attraverso una componente altamente simbolica di leadership sarebbe il terreno di sviluppo del Movimento 5 stelle, una formazione emancipata dalle grandi affabulazioni ideologiche e intenzionata a rigenerare la democrazia impiegando la rete come un’arena pubblica che propone e controlla[22].
Un’analisi di questa formazione nella sola ottica antipolitica, specie se interpretata come rigetto e tabula rasa del presente, rischia, tuttavia, di essere poco incisiva. Se invece dall’ampia fenomenologia antipolitica si enuclea l’istanza, non certo nuova, di critica all’artificio rappresentativo tipicamente moderno, in essa rintracciamo un elemento che caratterizza il Movimento 5 stelle e che lo accomuna ad altri movimenti sociopolitici sorti a ridosso della crisi economica. È il caso del movimento del 15 maggio – 15-M come sinteticamente indicato dalla stampa spagnola –, vale a dire il fenomeno degli «indignados» lungamente accampati a Puerta del Sol, cuore della capitale spagnola. Secondo Juan Carlos Monedero e Pablo Iglesias, oggi leader della formazione politica Podemos, quello del 15-M ha rappresentato il movimento più consistente della Spagna post-dittatoriale, espressione di una stanchezza verso la strada intrapresa dalla democrazia, come si evince dallo slogan lanciato contro la classe politica: «que no nos representan»[23]. Analizzando la portata del movimento che anticipa la nascita di un partito come Podemos che ha saputo capitalizzare lo spontaneismo degli «indignados», i due leader, politologi dell’Università Complutense di Madrid, puntano il dito contro la presunta irrappresentabilità della volontà generale del popolo, nocciolo intimo della logica rappresentativa moderna, e sollevano dubbi sulla reale democraticità di un sistema in cui il popolo è assente. La crisi economica e i differenti racconti che la rete ha consentito hanno messo in discussione il meccanismo dell’autorizzazione politica[24]. Podemos ha colto nella mobilitazione del 15-M l’opportunità per costruire una nuova narrazione intorno al “popolo” e alla “casta”, di conio italiano e ampiamente utilizzati nel linguaggio dei 5 stelle[25].
Secondo i due leader, 15-M ha operato un cambio politico attraverso la rinascita della sfera pubblica e la messa in movimento della cittadinanza critica. Il movimento di Puerta del Sol sarebbe espressione della “socializzazione politica” di cittadini che avevano dimenticato come la politica ecceda il momento elettorale. La parte conclusiva della riflessione a quattro mani messa a punto dagli attuali volti di Podemos sembra già voler gettare un ponte tra il prima e il dopo, tra il significato politico della rioccupazione dello spazio pubblico da parte dei cittadini indignati e la necessità di mettere a frutto le proposte politiche emerse in seno al movimento. Così, nel tracciare un bilancio dell’occupazione della piazza, essi rimarcano la rottura con il meccanismo dell’autorizzazione politica che svilisce la democrazia a mero elettoralismo e la tematizzazione di contenuti globali quali il diritto al lavoro, a una vita degna, non ultimo alla salute. La rete rappresenta il luogo di coagulo di questa intelligenza collettiva che si preoccupa più di agire che di votare. Riguardo alle proposte, che anticipano la nascita di Podemos, si parla della necessità di una leadership per dare continuità e struttura alle istanze sociali emerse dalle assemblee, nonché del bisogno di moltiplicare le occasioni di democrazia partecipativa accanto alla rappresentanza per evitare tendenze oligarchiche e deresposabilizzazione dei partiti[26]. Sul rapporto tra 15-M e Podemos, il politologo Ramón Cotarelo ha scritto che l’audace rigetto dell’impersonale “si può” con il più personale e plurale “possiamo” indica come la politica abbia implicazioni personali che in questo fenomeno sono ben chiare. Podemos sembra incarnare il meccanismo di articolazione di due settori che spesso non hanno comunicato: i partiti istituzionali della sinistra e i movimenti di auto-organizzazione sociale che hanno caratterizzato il 15-M. Podemos non sarebbe un movimento sociale spontaneo e neppure un partito politico, ma un ponte abitato da questa doppia natura capace di utilizzare a pieno le potenzialità delle rete[27]. Podemos farà suo a livello retorico lo spiraglio di riarticolazione politica apertosi nelle piazze che vede una lotta dei molti (la cittadinanza, il popolo) contro i pochi (l’oligarchia, la casta). «Dietro gli slogan del 15-M e le motivazioni soggiacenti ai partecipanti di queste mobilitazioni si poteva indovinare che l’asse della politica stava spostandosi da sinistra-destra a uno in cui si fronteggiavano cittadinanza e classe politica»[28].
La riarticolazione geopolitica e geoeconomica mondiale, al di là dell’etichetta scelta per nominare questi processi, la contrazione del raggio d’azione degli Stati-nazione, il tramonto dei partiti di massa, la crisi economica, l’aumento della distanza tra le classi sociali in forma di mutazione inegualitaria della democrazia sono alcuni degli elementi di un complesso quadro nel quale il disagio sociale si è coagulato in forma di protesta contro le oligarchie politiche e in taluni casi è stato canalizzato da nuove formazioni politiche come il movimento pentastellato e Podemos. La collocazione del movimentismo sociopolitico tra antipolitica e debolezza della democrazia rappresentativa, oltre che nel solco della crisi economico-finanziaria, interroga anche sulla sua capacità di non disperdere le istanze partecipative, individuare le controparti del conflitto sociale in un mondo globalizzato e tradurle in istanza politica propositiva. Pierre Rosanvallon nominerebbe questo problema in termini di impolitica, cioè di mancanza di comprensione globale delle questioni legate all’organizzazione del mondo comune[29].
Di fatto, queste neoformazioni politiche hanno convertito il disagio sociale in tendenza elettorale attraverso l’impiego di un “centralismo cybercratico” che intreccia l’interattività della rete con i corpi fisici nelle piazze a partire dal vincolo emozionale che una leadership carismatica costruisce con il suo popolo e la sua gente[30]. Come si ricava dagli studi politolinguistici dedicati ai populismi[31], le pratiche politiche si fondano ormai prevalentemente su logiche discorsive, che si tratti di competizione, negoziazione, persuasione. Il linguaggio politico viene così ad avere un carattere costitutivo perché produce effetti sui comportamenti e sulle decisioni politiche, specie in un’epoca dominata dalla dimensione comunicativa e dalle immagini. In quest’ottica, il Movimento 5 stelle reagisce alla mediazione tradizionale partitica e comunicativa attraverso una volontà politica immediata, a trasmissione diretta. Il modo autarchico di intendere rapprentanza e comunicazione è segnato, specie nelle prime fasi della sua esistenza, da un impiego massiccio di messaggi auto-prodotti in stile tecno-pauperistico e dal riferimento al blog di Grillo, reale infrastruttura tecnologica del movimento[32]. Anche Podemos utilizza i mezzi di comunicazione in modo diretto e senza intermediari per attaccare il sistema nel suo cuore ideologico, ossia nella sua capacità di costruire significati dominanti. Più che una lotta per gli interessi, la politica è una lotta per attribuire nome e significato alle cose che strutturano la realtà. È proprio a fronte di questa consapevolezza che Podemos utilizza una forte strategia comunicativa, che combina il potere del video a quello delle reti sociali[33], per allentare l’egemonia di un regime e produrre un cambiamento politico.
Gli strumenti comunicativi odierni, e la rete in particolare, sembrano essere veicolo di una partecipazione effervesciente e di una cittadinanza attiva. Per Rosanvallon i media sono determinanti nel ruolo che hanno i poteri contro-democratici: sono strumenti essenziali in una democrazia di controllo in cui le associazioni della società civile sono parte attiva e vigile[34]. Internet sta diventando uno spazio generalizzato di vigilanza e valutazione del mondo amplificato dai social network, con tutte le sue implicazioni in termini di potenzialità e manipolazioni. Malgrado la tecnologia possa ridurre gli spazi che hanno reso necessaria la rappresentanza, bisogna continuare a riflettere sulla reale praticabilità di una democrazia istantanea in cui si rischia di attribuire alla rete una naturalezza di per sé etica e considerarla come un tribunale del popolo che giudica e controlla imponendo la sua forza reale a istituti mediativi considerati astratti[35].
Il deficit di rappresentatività della rappresentanza politica, dovuto a un affievolimento dell’unione ideale tra politica istituzionale e società civile, può contribuire a dare conto di formazioni che traducono la sfiducia in tendenza politica attraverso una narrazione semplice, misurata sulla gente, che ha scompaginato sistemi polarizzati sullo scontro elettorale tra due forze. Tuttavia, vale la pena ricordare che la funzione di sintesi e disidentificazione che la democrazia rappresentativa e indiretta è chiamata ad attuare ha la funzione di difendere la democrazia stessa dall’impazienza, incertezza e talvolta dall’immaturità dei cittadini, mantenendo un necessario grado di distanza che consenta di svincolarsi dal potere del presente e agire nell’interesse generale[36]. La rappresentatività ha a che vedere con il circolo dialettico che tiene in un contatto almeno prospettico rappresentanti e rappresentati attraverso la sfera pubblica, senza avere la pretesa di annullare lo scarto tra di essi considerandoli sovrapponibili se non identici.
* Alcuni contenuti di questo paragrafo sono presenti nel mio La dialettica rappresentativa tra disidentificazione e rappresentatività, in N. Mattucci, G. Vagnarelli (a cura di), Crisi della politica? Antipolitica, mediazione, rappresentanza, Aracne, Roma, 2014, pp. 107-141.
[1] R. Martini, Crisi come politica della mediazione, in N. Mattucci, G. Vagnarelli (a cura di), Crisi della politica? Antipolitica, mediazione, rappresentanza, cit., p. 84.
[2] Ivi, p. 85.
[3] N. Urbinati, La mutazione antiegualitaria. Intervista sullo stato della democrazia, Laterza, Roma-Bari, 2013.
[4] H. Arendt, Che cos’è la politica?, Edizioni di Comunità, Milano 1995, p. 11.
[5] G. Sartori, Come sta la democrazia?, in M. Bovero, V. Pazé (a cura di), La democrazia in nove lezioni, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 162.
[6] D. Innerarity, Democracia sin política, «Claves de Razón práctica», n. 236, 2014, p. 10.
[7] Cfr. A. Robles Egea, R. Vargas Machuga-Ortega (eds.), La buena democracia. Claves de su calidad, Ed. Univerdidad de Granada, Granada, 2012; inoltre cfr. J.F. Jiménez Diaz, Por una buena democracia, «Claves de Razón práctica», n. 236, 2014, pp. 139-141.
[8] Cfr. B. Badie, Un mondo senza sovranità. Gli stati tra astuzia e responsabilità, Asterios, Trieste, 2000.
[9] Cfr. H. Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino, 2009, p. 274.
[10] Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano,1984, p. 270.
[11] Cfr. N. Urbinati, Lo scettro senza il re: partecipazione e rappresentanza nelle democrazie moderne, Donzelli, Roma, 2009, pp. 13 sgg.
[12] Cfr. J.A. Pérez Tapias, Argumentos contra la antipolítica, Editorial Universidad de Granada, Granada, 2008, p. 15.
[13] Cfr. ivi, p. 17.
[14] A. Elorza, Podemos: la conquista del Estado, «Claves de Razón práctica», n. 236, 2014, p. 54, trad. mia.
[15] Si veda M. Truffelli, L’ombra della politica: saggio sulla storia del pensiero antipolitico, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008.
[16] Si rinvia a M. Calise, Il partito personale. I due corpi del leader, Laterza, Roma-Bari, 2010.
[17] Cfr. M. Truffelli, Antipolitica e trasformazioni della rappresentanza, in N. Mattucci, G. Vagnarelli (a cura di), Crisi della politica? Antipolitica, mediazione, rappresentanza, cit., pp. 23 sgg.
[18] G. Vagnarelli, Sul concetto di antipolitica, in N. Mattucci, G. Vagnarelli (a cura di), Crisi della politica? Antipolitica, mediazione, rappresentanza, cit., p. 47.
[19] Cfr. M. Truffelli, Antipolitica e trasformazioni della rappresentanza, cit., p. 39.
[20] N. Urbinati, Dalla piazza al parlamento, «La repubblica», 5 marzo 2013.
[21] Si veda M. Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino, 2013.
[22] Per un approfondimento del rapporto tra fenomeni antipolitici e rete, anche in ottica populista, si rinvia a: P.A. Taggart, Populism, Open University Press, Philadelphia, 2000; A. Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia. Nuove destre, populismo, antipolitica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005 e al più recente R. Biorcio, Il populismo nella politica italiana. Da Bossi a Berlusconi, da Grillo a Renzi, Mimesis, Milano-Udine, 2015.
[23] P. Iglesias Turrión, J.C. Monedero, ¡Que no nos representan! El debate sobre el sistema electoral español, Editorial Popular, Madrid, 2011, pp. 84-86.
[24] Cfr. ivi, p. 21.
[25] J.I. Torreblanca, Asaltar los cielos. Podemos o la política después de la crisis, Editorial Debate, Barcelona, 2015, pp. 48 sgg.
[26] Cfr. P. Iglesias Turrión, J.C. Monedero, ¡Que no nos representan! El debate sobre el sistema electoral español, cit., pp. 120-121.
[27] R. Cotarelo, Sí, se puede, pero ¿qué?, 6 de febrero de 2014, in <http://cotarelo.blogspot.com.es/2014/02/si-se-puede-pero-que.html>. Sulla scelta del nome, che raccoglie l’eco della campagna di Obama, occorre rimarcare il gioco linguistico a cui si presta («Claro que podemos», «Juntos podemos», «Podemos cambiar las cosas») e la sua funzione identitaria: il “noi” personalizza, costruisce un fronte comune protagonista e si contrappone a un ampio “loro” riferibile a “quelli lassù”, ai partiti altri, N. Girona, Las vueltas del populismo, «Pasajes de pensamiento contemporáneo», invierno 2014-2015, pp. 8-9.
[28] J.I. Torreblanca, Asaltar los cielos. Podemos o la política después de la crisis, cit., p. 121, trad. mia. Muovendo dall’influenza chavista, si può sottolineare come lo spostamento topografico dell’asse destra-sinistra ad alto-basso conduca al altre dicotomie: nuova politica contro vecchi politici, senso comune contro ideologia, gente decente contro casta.
[29] P. Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma, 2012.
[30] Cfr. A. Elorza, Podemos: la conquista del Estado, cit., p. 57 e N. Girona, Las vueltas del populismo, cit., p. 7. Sulla membership graduale dei 5 stelle e sulle sue forme molteplici, Roberto Biorcio ha scritto: «Alcuni iscritti si ritengono soddisfatti della semplice partecipazione online: gli “attivisti solo da tastiera”, in contatto con le attività di uno o più Meetup, che seguono il movimento e il suo leader attraverso il blog, le pagine dei social network (Facebook, Twitter, YouTube), o gli articoli su internet. La grande maggioranza degli attivisti, pur sottolineando l’assoluta originalità ed efficacia dei social network come forma di pratica politica, mette in evidenza la necessità del lavoro sul territorio per essere in grado di collegarsi ai conflitti locali e raccogliere le domande dei cittadini», R. Biorcio, Il populismo nella politica italiana. Da Bossi a Berlusconi, da Grillo a Renzi, cit., p. 104.
[31] Cfr. L. Cedroni, Politolinguistica. L’analisi del discorso politico, Carocci, Roma, 2014, pp. 70 sgg, inoltre si veda E. Laclau, La razón populista, Fondo de Cultura Económica, Buenos Aires, 2005.
[32] Cfr. L. Mosca, C. Vaccari, Il Movimento e la rete, in P. Corbetta, E. Gualmini (a cura di), Il partito di Grillo, il Mulino, Bologna, 2013, pp. 169-196 ; inoltre cfr. R. Vignati, Beppe Grillo: dalla Tv ai palasport, dal blog al Movimento, in P. Corbetta, E. Gualmini (a cura di), Il partito di Grillo, cit., pp. 36 sgg.
[33] Sulla nascita televisiva del laboratorio Podemos, cfr. E. Riobóo De La Vega, La cara oculta de Pablo Iglesias. De canal 33 a Bruselas, ViveLibro, Madrid, 2014.
[34] Cfr. P. Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, cit.
[35] Cfr. M. Revelli, Finale di partito, cit., pp. 114-117.
[36] Cfr. D. Innerarity, Democracia sin política, cit., pp. 16-17.
Fonte: Iconocrazia
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