La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 31 luglio 2016

Il Libano al collasso e la strategia di Israele

di Fulvio Scaglione
Al Qaa. Cos’è? Dov’è? È un piccolo centro del Libano, con popolazione a maggioranza cristiana, nella valle della Bekaa, in una posizione strategica per i contatti (e ancor più per i traffici) tra Libano e Siria. Nel 2014, a pochi chilometri da qui, una vera battaglia scoppiò tra i miliziani dell’Isis e di Al Nusra e l’esercito libanese. Negli scontri 30 soldati e poliziotti libanesi furono rapiti dagli islamisti e solo 16 di loro poterono essere riscattati un anno e mezzo dopo. Da tempo quel confine è controllato da un cordone di soldati dell’esercito governativo siriano su un lato e di quello libanese sull’altro. Ma le infiltrazioni non si sono certo interrotte, tantomeno i traffici di armi e di qualunque altra merce clandestina possa servire alle due parti.
Un mese fa, Al Qaa è stata attaccata da otto kamikaze che, in due ondate successive, si sono fatti saltare tra le case, uccidendo solo un’altra persona oltre a se stessi ma ferendone una trentina. Le autorità libanesi, comunque, sospettano che il vero bersaglio non fosse Al Qaa. Nella loro ricostruzione, i kamikaze dovevano solo radunarsi ad Al Qaa e da lì essere poi forniti di documenti e trasportati altrove: a Baalbek o Hermel, roccaforti di Hezbollah, se non addirittura alla capitale Beirut. Con l’intento, ovviamente, di innescare una specie di bagno di sangue settario tra sciiti e sunniti.
La stessa cosa, anche se su scala ridotta, può dirsi però per Al Qaa e l’area che la circonda. La città è a maggioranza cristiana, ed è divisa, a causa dello sfruttamento dei terreni agricoli, da una fortissima rivalità economica che la oppone alla vicina Arsal, a maggioranza sunnita. I villaggi del circondario, invece, sono quasi tutti sciiti. Aggiungiamo che nella zona si sono installati circa 30 mila rifugiati siriani sunniti e diventa facile capire che la miscela esplosiva è pronta: i cristiani e gli sciiti considerano i rifugiati siriani, quasi tutti anti-Assad, come dei terroristi; i sunniti di Arsal li considerano invece patrioti.
Gli attentati di Al Qaa, puntualmente, hanno innescato un’onda di risentimento anti-rifugiati nella popolazione libanese, anche perché le prime indagini hanno fatto nascere il sospetto che i kamikaze venissero non dalla Siria ma dal campo profughi appunto vicino ad Arsal. Le autorità hanno imposto il coprifuoco ai rifugiati e hanno compiuto quasi 500 arresti nei campi. E almeno un paio di ministri, quello degli Esteri Gebran Bassil e quello del Lavoro Sajaan Azzi, hanno detto chiaro e tondo che i rifugiati siriani non sono più una questione umanitaria ma una minaccia alla sopravvivenza dello Stato.
Con 4,5 milioni di abitanti e 1,3 milioni di profughi, il Libano è sull’orlo del tracollo. Ed è piuttosto evidente che i gruppi islamisti attivi in Siria hanno usato i profughi come un’arma, spingendoli in massa verso il Libano dalle zone occupate nella regione a Nord di Damasco. Anche il prolungarsi della guerra contro l’Isis, a tutti gli effetti una guerra finta e gestita per dare all’Isis il tempo di fare il massimo danno alla Siria di Assad, ha tra i suoi scopi la destabilizzazione del Libano. Se la guerra si trascina, il numero dei profughi in Libano cresce. Aumentano i problemi (per esempio, nelle scuole libanesi ci sono ormai più bambini siriani che libanesi), i costi, i rischi. Il Libano si confronta da decenni con il problema dei profughi palestinesi, circa 500 mila e quasi tutti musulmani sunniti, ai quali non è mai stata concessa la cittadinanza proprio per non turbare il delicato equilibrio tra le religioni che garantisce la sopravvivenza del Paese. Figuriamoci, quindi, la pressione esercitata da 1,3 milioni di siriani (quasi tutti sunniti anche loro) che non hanno, al momento, alcuna speranza di rientrare nel loro Paese devastato da cinque anni di guerra civile.
A questa serie di incognite si aggiunge, per il Libano, la strategia di Israele. Siamo, proprio in questi giorni, nel decennale della guerra del 2006, scoppiata dopo il rapimento di due soldati israeliani lungo la “linea blu” di separazione che fu tracciata nel 2000 dall’Onu dopo il ritiro delle truppe di Israele dal Sud del Libano.
Oggi la situazione del Medio Oriente è perfetta per Israele, almeno dal punto di vista strategico. La Siria del nemico Assad è in fiamme, l’Iraq del regime sciita fedele all’Iran anche. La Turchia dell’amico-nemico Erdogan è piena di problemi. Egitto e Giordania sono Paesi amici e messi sotto pressione dalle questioni interne (l’Egitto) e dai profughi siriani (la Giordania), quindi per nulla inclini a colpi di testa. Le petromonarchie del Golfo Persico sono ormai alleate dello Stato ebraico. Del Libano abbiamo detto. In conclusione, Israele è oggi circondato da Paesi ufficialmente amici, ufficiosamente alleati oppure devastati da guerre e altre calamità. Non rientra nell’una o nell’altra categoria solo l’Iran, che infatti è la priorità assoluta della difesa, della sicurezza e della diplomazia israeliana.
In questi anni di guerra civile in Siria, le forze israeliane non hanno mai colpito i miliziani islamisti, fossero dell’Isis, di Al Nusra o di altre formazioni. Hanno spesso attaccato, invece, i reparti di Hezbollah e dei pasdaran iraniani che operano in Siria, fino all’assassinio mirato di Samir Kuntar, uno dei leader militari di Hezbollah ucciso nei pressi di Damasco. Al di là delle minacce di rito, è chiaro che Hassan Nazrallah e Hezbollah non hanno, oggi, la volontà di scatenare un’altra guerra contro Israele, né la minima possibilità di sostenere un vero scontro.
Al contrario, la tentazione della spallata potrebbe venire proprio a Israele, magari in coincidenza con il cambio di inquilino della Casa Bianca. Il pericolante Libano potrebbe prendere il posto della Siria, la cui guerra civile è soprattutto espressione del desiderio delle monarchie sunnite del Golfo di spezzare l’asse sciita che corre dall’Iran all’Iraq e alla Siria per sfociare in Libano. Il vero obiettivo dell’Isis non è Assad ma quell’asse. Se fallisse l’operazione tra Siria e Iraq, perché non provarci in Libano?
Netanyahu e il suo Governo hanno finora manovrato con grande abilità, soffiando sui fuochi giusti senza farsi trascinare oltre la soglia della convenienza strategica. Ma con un Presidente Usa che magari abrogasse il trattato sul nucleare siglato con l’Iran, certi giochi potrebbero riaprirsi.

Fonte: MicroMega online - blog dell'Autore 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.