La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 3 luglio 2016

Lexit, il passo più difficile

di Dimosthenis Papadatos
Chi ha una certa esperienza di scissioni delle organizzazioni della sinistra, sa che per le loro leadership è impensabile ammetterle: «Scissione? Quelli che sono andati via erano solo degli estremisti che non capiscono. Andiamo avanti». Che in genere vuol dire: andiamo avanti sulla strada che ha provocato la scissione. Le reazioni della burocrazia europea e degli stati fondatori dell’Unione, dopo il referendum britannico, seguono la stessa tradizione. La Gran Bretagna sembrava «too big to exit» e, in ogni caso, «dentro forse non andava bene, ma fuori sarebbe sicuramente peggio». Collaborando con Obama e la City di Londra, gli euroburocrati sono stati i protagonisti di una lotta esistenziale per la vittoria del Bremain: per difendere «la civilizzazione occidentale» (D. Tusk), cioé per salvare il modello mancato di unificazione dell’Europa ed evitare un episodio disastroso di crisi nel contesto della recessione globale. Oggi, hanno fretta di andare «avanti» con i 27. Ma avanti dove?
Le iniziative di Wolfgang Schäuble dopo il risultato del 23 giugno non cambieranno la dottrina che ha prodotto la delegittimazione della UE in Gran Bretagna, dopo averlo fatto in Grecia, Islanda e Francia. Neanche a fronte del fatto che questa stessa dottrina ha dato forza all'estrema destra in tutto il continente. L’ idea più ovvia per continuare dopo la Brexit, sostiene il quotidiano economico tedesco Handesblatt, è quella dell patto di stabilità, della crescita, del commissariamento dei bilanci nazionali, nel caso in cui superino il deficit previsto, e della supervisione di ogni economia nazionale. Cioè la strada che ridicolizza la democrazia parlamentare più di quanto fanno i deputati fascisti e post-fascisti.
Un voto per il Remain in questa UE, nel momento in cui decide di assumersi il rischio di vedere governi di estrema destra anche nel cuore del continente, può essere solo un voto della borghesia. E nel referendum britannico è successo questo. L’avvocato del diavolo, dall'altra parte, direbbe che i poveri non hanno sempre ragione solo perché sono poveri. Questo è vero, ma l’importante rimane in ogni caso l’autonomia politica dai ricchi. Se ogni referendum rappresenta una battaglia fra «popolo» ed «élites», il voto popolare in Gran Bretagna è stato un voto contro il governo di Cameron che sosteneva il Bremain, contro il LabourParty che sosteneva lo stesso. Dunque il voto popolare è stato un voto contro l’UE.
Non c’è dubbio: per molti, fra cui gran parte della base elettorale del Labour Party, si è trattato anche di un voto contro gli immigrati UE e contro i rifiugiati (verso cui, non lo dimentichiamo, l’Unione Europea è più vicina a Farage che alla sinistra). Seguendo il dibattito nei mesi prima del referendum, leggendo i sondaggi e confrontando la distribuzione dei voti con i risultati delle elezioni del 2015 il 96% degli elettori dell'UKIP e il 56% dei conservatori hanno sostenuto la Brexit). È ovvio che parte della destra e la destra estrema avevano dato questo tipo di indicazione di voto al referendum. Ma questa è solo una parte della verita. L’altra è ciò che tutti conoscono al livello di analisi teoretica, ma che poi dimenticano quando arriva l’ora della politica: il consenso delle forze politiche principali al campo del centro, cioè della legalità politica neoliberista, può essere sia contestato dalla sinistra radicale, sia permettere alla destra nazionalista e popoulista di nazionalizzare i dilemmi politici. Siccome il movimento per la Lexit è stato minoritario (ma, per fortuna, non disposto a cambiare opinione sull’ UE secondo la visione mainstream), Farage ha potuto sfruttare delle vittorie del passato contro il Labour Party. Non lo dimentichiamo: il referendum britannico ha confermanto dinamiche e divisioni politiche che esistavano già. Non ne ha create di nuove.
L’avvocato del diavolo insisterebbe dicendo: ma come potrebbe la sinistra difendere gli immigrati dalla minaccia dell'estrema destra? L’ analisi del risultato mostra che le regioni che hanno sostenuto la Brexit non erano le aree dove abitano gli immigrati, ma quelle dove i cittadini britannici soffrono maggiormente paure e timori legati al lavoro, al reddito e al welfare. L’UE non garantisce loro niente e siccome il Labour Party non indica una strada alternativa, l'UKIP impone la terza via del nazionalismo e dell’anti-politica. Lo ripetiamo: l’aumento dell'UKIP è un fenomeno che ha radici che vanno indietro nel tempo, negli anni ’90, nella terza via bleriana. Ed è sicuro che oggi, se le contestazioni dei bleristi contro Corbyn continueranno, queste saranno un gran regalo a Farage.
Non possiamo essere ingenui: la Brexit è solo l’inizio di un processo che potrebbe offrire alla sinistra delle nuove possibilità di fare politica. Ma per ora, la cosa più urgente è di contestare l’egemonia conservaticre. Il movimento per la Lexit lo sa e perciò ha già fatto un appello unitario a tutte le correnti della sinistra per lavorare insieme sulla base del risultato del referendum. La sua lotta contro il nazionalismo non è una lotta solo per la Gran Bretagna, è una lotta europea conto l’universalismo neoliberista. Per quest'ultimo resta difficile spiegare l’ «europeismo» dei capi di governo della Polonia e dell'Ungheria, che hanno sostenuto il Bremain in nome del «diritto di libera circolazione delle personne», seppur con la possibilità di pagare stipendi da fame ai lavoratori dei loro paesi [1]. La lotta per la Lexit è anche la nostra lotta, dell’Europa del Sud, contro i «nostri» riformisti, Renzi e Tsipras, che non riescono a vedere niente fuori dal «dogma» dell'austerità.

[1] Non e a caso il fatto che gli immigrati polachhi si rappresentano come nazionalità da lontano prima nella popolazione immigrata che vive in Gran Bretagna o che G.B e polo di attrazione per gli emmigranti dai paesi di A8, vuol dire quelli dell’Europa dell’ Est, che sono entrati ultimi all’UE.

Fonte: dinamopress.it 

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