La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 10 luglio 2016

Riforma del Terzo settore? Calpestare i più piccoli

di Paolo Cacciari
Le piccole rivoluzioni messe in atto dalle persone che cercano di vivere in modo autonomo e autosufficiente trovano spesso ostacoli invalicabili nelle normative vigenti. Altre volte invece – quando ormai assumono dimensioni impossibili da ignorare – tendono ad essere inglobate dentro il sistema esistente. È questa l’operazione avviata dalla legge quadro di delega al Governo per la riforma del così detto Terzo Settore approvata in via definitiva dalla Camera il 25 maggio scorso. Il suo obiettivo è irretire nella logica del business l’attività degli enti del volontariato non-profit, delle associazioni di promozione sociale, delle cooperative sociali, degli enti di mutuo soccorso, dei gruppi informali della cittadinanza che si occupano di beni comuni e di ambiente.
Ci sono infatti due modi ben diversi di concepire le attività che si svolgono nella sfera dell’economia solidale. Uno la immagina come la terza gamba che puntella il sistema socioeconomico con il compito di alleviare le sofferenze generate dai “fallimenti del mercato” (esclusioni, povertà, precarietà, devastazioni ambientali) e di supplire con servizi a basso costo alla “crisi fiscale” dello Stato (dismissioni di servizi pubblici, inefficienze, ecc.). Centrali del Terzo settore come la Compagna delle Opere o la Lega delle cooperative bene incarnano questa impostazione. Un’altra visione delle attività solidali, invece, è quella portata avanti dalle reti che fanno capo a Ripess (Intercontinental Network for the Promotion of Social Solidarity Economy) che scrive: “L’economia sociale e solidale è un’alternativa al capitalismo e ad altri sistemi economici autoritari dominati dallo stato”. Le loro molteplici attività mirano infatti a costruire trame di relazioni paritarie tra produttori e consumatori – in agricoltura, nei servizi alle persone, nella produzione e distribuzione dell’energia, nell’edilizia e nella mobilità… – tali da creare legami sociali e spazi territorialmente radicati di autogoverno. I loro riferimenti teorici e pratici sono l’economia di comunità di Olivetti, l’economia di permanenza di Gandhi, l’economia di liberazione di Euclides Manche, la commonomics di Raul Zibechi e gli altri modelli di cooperazione sociale diversi da quello dominato dal produttivismo, dalla competitività, dalla ricerca del massimo profitto (leggi C’è vita fuori dal capitalismo).
La nuova legge delega mette mano al Codice civile e ipotizza una tipologia di “impresa sociale” che, pur mantenendo finalità statutarie solidaristiche e d’utilità generale, si apre a forme di raccolta di fondi di investimento privato di rischio. Si tratta di capitali che evidentemente dovranno essere remunerati con gli interessi e per ciò verrà consentito alle “imprese sociali” di fare utili e di impegnare gli avanzi di gestione “prioritariamente” e “prevalentemente” al conseguimento dell’oggetto sociale. Il resto, mancia.

Fonte: comune-info.net 

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