La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 25 settembre 2016

Continuavano a chiamarla globalizzazione

di Marco Palazzotto
Le riflessioni politiche ed economiche sui concetti di neoliberismo e globalizzazione, con le conseguenti interpretazioni teoriche, hanno eliminato dal discorso italiano il problema del Mezzogiorno, ciò che una volta chiamavamo “questione meridionale”. Questa tendenza può essere allargata anche al resto dell’Europa e del mondo, in cui – secondo la vulgata corrente soprattutto a sinistra – grazie ai processi di maggiore liberalizzazione del commercio e della finanza, sviluppo delle tecnologie e unioni monetarie, avremmo assistito ad un superamento delle barriere geografiche per giungere ad un capitalismocontemporaneo postmoderno che supererebbe le categorie del secolo scorso.
Credo piuttosto che il fenomeno indicato con il termine “globalizzazione” rappresenti oggi una forma nuova di imperialismo (Guglielmo Carchedi in IL LAVORO DI DOMANI - Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, BFS 1998) nella quale, secondo le classiche categorie di sfruttamento del modo di produzione capitalistico, non sussiste discontinuità tra ’900 e oggi se non in una diversa e più sviluppata organizzazione del capitale.
Come sappiamo, alla fine degli anni ’70 il capitalismo entrò in una nuova fase. Dopo il superamento delle politiche keynesiane a causa di un periodo di stagflazione, caratterizzato anche da una guerra “del petrolio”, e dopo un ridimensionamento del ruolo dell’URSS che sfociò poi nella crisi definitiva del 1989, il capitale sferrò un attacco importante al mondo del lavoro. L’indirizzo politico ed economico che ne conseguì fu il cosiddetto Neoliberismo degli anni ’80 – dopo un breve periodo monetarista – con l’ascesa al potere di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher. Di liberismo però, soprattutto con la reaganomics, non si può propriamente parlare. Anzi assistemmo ad un aumento della spesa pubblica nel settore militare statunitense e ad una politica monetaria espansiva che non ebbe eguali. La politica estera degli Stati Uniti mutò di conseguenza.
Nel Regno Unito si assistette ad un cambio della struttura produttiva, con un processo di deindustrializzazione. Nel frattempo, dismessa ormai da decenni ogni velleità di leadership mondiale, il Regno Unito restava fedele alleato degli USA, soprattutto nelle campagne militari. Nel disegno thatcheriano, l’Inghilterra andò modellandosi intorno alla centralità dell’industria di servizi finanziari, e a Londra venne affidato il ruolo di succursale europea di Wall Street. Il conflitto di classe s’inasprì causando l’aumento di disoccupazione e precarietà e il ridimensionamento dei servizi sociali. 
Anche in Oriente gli USA cambiarono politica estera. Dopo gli accordi sui tassi di cambio di Plaza – con i quali gli Stati Uniti posero fine al continuo apprezzamento del dollaro, soprattutto nei confronti dello yen giapponese - e dopo la fine del socialismo reale, gli USA cercarono nella Cina, e nel suo capitalismo, l’alleato principale per portare avanti un nuovo modello di sviluppo che vide il trasferimento di impianti produttivi e tecnologia verso oriente, relegando nel contempo il Giappone – fino a quel momento economicamente egemone nell’area – alla stagnazione di lungo periodo. Nel nuovo modello, si aprirono nuove possibilità di accumulazione anche grazie all’immenso “esercito di riserva” che poté offrire la Cina e, poco dopo, l’India.
In Europa, la Germania mantenne un modello di accumulazione basato sulla produzione di beni ad alto valore tecnologico. Fu però necessario contrastare l’Italia, principale concorrente europeo per i suoi “distretti industriali” e le sue svalutazioni competitive. Dopo il fallimento dello SME nei primi anni ’90, il processo d’integrazione europea ricevette un’accelerazione per soddisfare le esigenze del modello imperialistico francese (vedi Joseph Halevi in questo intervento su PalermoGrad). L’unica contropartita atta a coinvolgere la Germania nella costruzione europea consistette nella cessione del controllo delle politiche economiche e fiscali al paese teutonico. La Francia poté così continuare la sua politica imperialista imperniata sull’asse “aeronautico-militarindustriale”. 
In questo modo la Germania riuscì ad imporre il modello di austerità a tutta l’Europa (tranne la Francia, che invece potrà espandere il proprio doppio deficit a suo piacimento).
In Italia il quadro politico ed economico si modifica nettamente a partire dai primi anni ’80. Con il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, il nostro paese s’incamminò su una strada di continui deficit pubblici, caratterizzati però da una diminuzione di spesa pubblica corrente e in conto capitale ed un aumento della quota interessi. Lo SME e il successivo Trattato di Maastricht segnarono la fine del welfare italiano e del modello industriale dei distretti. Lo sviluppo sarà successivamente dipendente dalle bolle speculative che porteranno l’Italia, nel nuovo secolo, ad aumentare i “twin deficit”, ovvero l’indebitamento nel settore privato e pubblico. Questi indebitamenti sfociarono nella crisi del 2008 quando i capitali privati lasciarono la periferia europea.
I “meridioni d’Europa” rimangono pertanto tali, ovvero paesi subordinati in un quadro sempre più centralizzato verticalmente. Come rileva Halevi in questo intervento, non esiste alcun fenomeno di “mezzogiornificazione”: semmai le aree sottosviluppate rimangono tali anche dopo l’integrazione europea (è il caso di Grecia, Spagna, Portogallo). 
Il ruolo del meridione italiano cambia radicalmente dopo la fine dei “Gloriosi Trent’anni”. Come rileva Domenico Moro in Globalizzazione e decadenza industriale (Imprimatur 2015) assistiamo negli ultimi trent’anni alla fine del modello che vedeva ad esempio la Sicilia, come il resto del Meridione, quale destinataria della sovraccumulazione di capitale dei grandi gruppi del Nord Italia. In pratica la fine di un modello di interimperialismo economico in cui il Sud era destinatario kaleckianamente delle eccedenze industriali del Nord Italia. 
Oggi le differenze socioeconomiche tra nord e sud d’Italia (ed Europa) si sono accentuate, e le regioni che ricevevano le eccedenze di capitale del centro-nord Europa sono state sostituite dai paesi in via di sviluppo dell’Est europeo, del Sud America e dell’Asia.
Anche il ruolo delle criminalità è cambiato col mutare del capitalismo. Un modello criminale meridionale, prima strumentale al modello di sviluppo del settentrione, non ha più ragione di esistere in un mondo in cui il nord dell’Italia diventa il sud dell’Europa. Il controllo politico viene sempre più centralizzato in una fase in cui i sistemi elettorali hanno superato il problema della gestione del consenso territoriale.
In conclusione, assistiamo ad una continuità del predominio mondiale della cosiddetta triade, ovvero il centro produttivo e finanziario mondiale suddiviso in tre grandi aree (USA, Europa e Asia orientale). Certo assistiamo a una maggiore internazionalizzazione del capitale produttivo e a una “globalizzazione” – se proprio vogliamo usare questo termine – del settore finanziario. Le catene produttive invece hanno mantenuto ferma la loro base geografica di controllo, mentre possiamo assistere ad una transnazionalizzazione delle catene, con cui parti differenti dello stesso prodotto si possono costruire in paesi diversi. Continua invece il fenomeno di centralizzazione del capitale (Hilferding 1910). Semmai, come rilevano Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi, assistiamo ad una tendenza alla centralizzazione senza concentrazione: sempre più monopoli e sempre più differenze lavorative dentro la stessa azienda, non solo differenze geografiche, ma anche nei contratti dei lavoratori appartenenti alla stessa unità produttiva.
Delle relazioni tra i meridioni e questo nuovo contesto produttivo parleremo il prossimo 28 settembre a Palermo con Joseph Halevi. 

Fonte: palermo-grad.com

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