di Mario Di Vito e Valeria Eufemia
Le lancette degli orologi sono ancora ferme alle 3 e 36 di mercoledì 24 agosto. È passato un mese dalla scossa che ha demolito Amatrice, Arquata del Tronto, Accumoli e svariate frazioni a cavallo tra le Marche e il Lazio, e il popolo che vive nelle tende blu aspetta, non può fare altro. Qui non c’è nessuno che viene ascoltato se alza la voce. Il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, in maniera più o meno interessata, passa le sue giornate a cercare la sparata in grado di regalargli un’apertura in cronaca, perché sa benissimo che il rischio che questo terremoto sia già sul viale del dimenticatoio è più che concreto.
Le sue uscite (dal «Mattè, nun ce lasciate soli» detto a Renzi, all’annunciata querela a Charlie Hebdo) sono ormai un fenomeno di costume che fa quasi tenerezza, malgrado da Roma continuino a ripetere che i sindaci si stanno comportando in maniera eccezionale. Bene, bravi, bis.
Le sue uscite (dal «Mattè, nun ce lasciate soli» detto a Renzi, all’annunciata querela a Charlie Hebdo) sono ormai un fenomeno di costume che fa quasi tenerezza, malgrado da Roma continuino a ripetere che i sindaci si stanno comportando in maniera eccezionale. Bene, bravi, bis.
Il titolo della tre-giorni di diretta Rai (da ieri fino a domani), del resto, è abbastanza eloquente: «3.36 #nondimentichiamoli», a chiarire che, in effetti, i 297 morti, i 388 feriti e le macerie lasciate dal sisma non sono più un argomento così emozionante.
È stato il terremoto dei poveri: qui non c’è il centro storico di L’Aquila da ricostruire, non ci sono le aziende dell’Emilia che devono risorgere, neanche un’inchiesta giudiziaria a fare scintille, perché le procure di Rieti e Ascoli Piceno, per ora, si stanno limitando ad analizzare le migliaia di pagine dei documenti relativi agli appalti e ai lavori degli edifici crollati: che noia, non c’è nemmeno una sfilata in procura, non un volto da immortalare tra i carabinieri e gli avvocati.
È stato il terremoto delle vacanze in montagna, delle «case de nonno», dei centri storici che tutti dicono essere «stupendi» forse senza neanche averli mai visti davvero, dei bucatini all’amatriciana e degli agricoltori che parlano in dialetto. Nei primi giorni l’ondata di solidarietà è stata imponente (quasi 15 milioni di euro di donazioni), ma adesso già non si muove più una paglia. È difficile essere ottimisti: la sensazione è che il territorio stia già morendo, anche se tutti si dicono molto impegnati a salvarlo.
Intanto, si sta procedendo con lo smantellamento delle tendopoli dove sono ancora ospitate circa 2.500 persone, ma dei container non c’è traccia. Ad Acquasanta Terme, dove non si è registrata la presenza di case inagibili, il campo è già stato dismesso, mentre ad Arquata del Tronto l’accampamento verrà tolto entro la fine della settimana. La protezione civile fa sapere che «proprio in questi giorni si stanno accelerando i tempi per la sistemazione dei senzatetto.
Ci sono duecento domande di Cas (contributo di autonoma sistemazione), quaranta sfollati saranno sistemati in albergo mentre gli altri stanno prendendo accordi con l’amministrazione comunale. Nel frattempo procedono i lavori per la messa a punto della Casa del parco, una struttura di ricettività turistica e centro ricreativo che sarà presto adibita all’accoglienza di quanti sono rimasti senza un tetto sulla testa». Anche a Pretare, piccola frazione di Arquata del Tronto ai piedi del monte Vettore, la tendopoli sarà eliminata entro la giornata di domenica. Tuttavia, cresce il malcontento tra la popolazione, alla quale non sono stati concessi container.
Sabrina Di Cesare, da Capodacqua, non vuole saperne di lasciare il suo paese.
«La montagna ci ha temprati – spiega – e non ci arrendiamo, non vogliamo demoralizzarci. Qui abbiamo trascorso tutta la nostra vita, ed è qui che vogliamo che riprenda il suo corso. A Capodacqua sono nata e cresciuta, e non ho alcuna intenzione di andare in hotel, voglio un container per poter trascorrere i mesi invernali vicino alla mia terra, in attesa che arrivino le casette. Inoltre andare altrove sarebbe un problema per le mie figlie, che dovrebbero venire a scuola ad Arquata: sarebbero quasi cento chilometri al giorno tra andata e ritorno».
Anche ad Amatrice l’opera di smantellamento è partita ieri. Pirozzi ha firmato l’ordinanza con la quale il Comune da disposto lo sgombero degli undici accampamenti allestiti dopo il terremoto.
«I container non erano previsti – dicono dal Comune -. Gli sfollati possono optare per il contributo di autonoma sistemazione o aderire al progetto “Amatrice solidale”, che prevede la messa a disposizione di seconde case alla popolazione. Le abitazioni si trovano ad Amatrice e nei dintorni. Un’altra iniziativa che stiamo portando avanti è il progetto “Case Aquila”, che prevede la sistemazione dei senzatetto negli alloggi costruiti in Abruzzo dopo il sisma del 2009. Per i più anziani è prevista la residenza sanitaria. L’obiettivo è quello di liberare le tende il prima possibile, in attesa delle casette, che saranno pronte entro Pasqua».
Eppure, anche qui, erano in molti a desiderare dei container. A fare presente la questione è Lucia Di Carmine, residente a Cornillo Nuovo e ora inquilina in una delle tendopoli. Qui, per la verità, non circolano informazioni precise sulla tempistica degli sgomberi: «Noi, non sappiamo nulla, ad Amatrice smontano perché devono procedere con l’opera di urbanizzazione. Ci sono solo tre tende da noi, oltre a quelle adibite per i volontari. Non sappiamo quando verrà smantellato il nostro campo, non ci è stata data nessuna direttiva. Nel frattempo comincia a fare davvero freddo. Questa mattina il termostato segnava 7 gradi».
E poi c’è la paura. Perché la terra non ha mai smesso di tremare: scosse di notte, scosse di giorno, il rumore della montagna che si muove. È anche per questo che in molti non vogliono rientrare nelle proprie case, anche se sono state dichiarate agibili.
“Amatrice Solidale” qui mostra i suoi limiti. «Sarà anche un’inziativa utile – dice ancora Lucia – ma la gente è spaventata. Casa mia è stata certificata come agibile, ma io proprio non ce la faccio a dormirci».
Tutto intorno le macerie sono state ammucchiate negli angoli, sotto le case sventrate e le insegne crollate. Le strade sono libere, si passa tranquillamente quasi ovunque: le zone rosse sono sempre più ristrette. In giro però non c’è nessuno, nemmeno i temutissimi sciacalli. Gli sfollati preferiscono rimanere a prendere il caldo e il freddo nelle tende, in attesa che succeda qualcosa. Anche qui nella periferia dell’impero.
Fonte: Il manifesto
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