di Benedetto Vecchi
Facebook, Twitter, Amazon, Netflix e Google sono esempi di quel «capitalismo delle piattaforme» considerato la frontiera della produzione della ricchezza. Il loro business è dato dalle informazioni che ogni utente lascia dietro di sé nelle sue navigazioni in Rete. Siti frequentati, contatti attivati, contenuti scaricati. ogni elemento è buono per costruire profili individuali e per accumularli in enormi archivi (i Big Data). All’interno di uno scambio luciferino – uso gratuito di servizi e applicazioni in cambio della cessione della proprietà sui propri dati individuali – è una forma di produzione della ricchezza sfiorata dalla crisi globale.
Finora la discussione è stata un affare per addetti ai lavori o relegata in ambiti di produzione teorica radicali. Ma poi irrompono nella scena mediatica alcune notizie e il nodo del «capitalismo delle piattaforme» torna a turbare i mouse dei «connessi h.24». La prima riguarda Facebook, la seconda Twitter.
Mark Zuckeberg si è presentato davanti alle telecamere con il premier israeliano Benjamin Netanyahu per parlare di un accordo stilato con Israele quasi fosse un capo di stato. La società statunitense e il capo del governo si sono messi d’accordo per monitorare le comunicazioni sul social network, prevenire eventuali propositi di attacco a Israele e «bannare» pagine ostili allo stato israeliano. La seconda notizia si basa su indiscrezioni riguardanti il possibile acquisto di Twitter da parte di Google e di SalesForces. L’effetto dei rumors è stato quasi immediato: il titolo di Twitter ha avuto una impennata a Wall Street.
Sono solo due esempi di come il «capitalismo delle piattaforme» sia qualcosa di più che non una suggestione accademica. Le implicazioni sono molte. Facebook diventa un guardiano dei contenuti veicolati dal social network, con buona pace della privacy e della libertà di espressione. La notizia su Twitter segnala che i cinguettii nella Rete possono smuovere miliardi di dollari.
Una volta attestata la rilevanza di quanto accade in Rete, rimane da chiarire il perché quella delle «piattaforme» sia la nuova frontiera del capitalismo.
Tutto ha avuto origine da un patto luciferino difficile da mettere in discussione. Si arriva in rete e le società garantiscono framework, programmi informatici e applicazioni gratuiti per comunicare, scrivere, fare di conto, leggere libri e vedere filmati. A patto però tutte le informazioni sulla navigazioni, gusto e contenuti possano essere usati da quelle stesse società per fare affari, cioè vendere spazi pubblicitari e per attirare i singoli in siti che propongono applicazioni che gratuite proprio non sono. È una forma questa di «economia della condivisione» che ha portato molti economisti a blaterare di società postcapitalista.
Ma quel che viene omesso è che le informazioni sono cedute altrettanto gratuitamente e che costituiscono le merci essenziali per «il capitalismo delle piattaforme».
Qui siamo in un territorio dai confini porosi e in continuo divenire. Ad esempio, dopo decenni di difesa forsennata e liberticida della proprietà intellettuale, il capitalismo delle piattaforme ha bisogno, invece, di un regime misto tra programmi informatici open source e algoritmi tutelati rigidamente da brevetti, come nel caso di Google.
Tramonta così la possibilità di promuovere una produzione non proprietaria di programmi informatici alternativa a quella dominante. Quel che invece è imposta è una produzione open source subalterna a una stringente logica capitalistica. All’angolo è messa anche l’idea che la libera circolazione della conoscenza metta in discussione le strutture di potere esistente.
La conoscenza deve cioè essere libera di circolare. Guai infatti a limitare il suo incessante movimento, perché si bloccherebbe quella «innovazione dal basso» verso la quale le imprese esprimono una vera e propria bramosia. È la logica «estrattiva» delle imprese che manifesta la sua natura parassitaria: le imprese si appropria ex post di quanto prodotto durante la navigazione in Rete, riservandosi la gestione del coordinamento e di elaborazione dei dati raccolti.
Il mistero del capitalismo delle piattaforme sta in questa appropriazione «a posteriori». Dopo anni di elogi della sharing economy, il lessico registra la critica che è maturata verso di essa. E se attivisti e militanti radicali hanno cominciato a parlare di «platform cooperativism», alludendo alla possibilità di sviluppare attività economiche con una base mutualistica e solidaristica, l’espressione «capitalismo delle piattaforme» segnala che tale possibilità sarà ostacolato con ogni mezzo. Con accordi come quello tra Facebook e lo Stato di Israele. O con monopoli come quello che si verrebbe a creare se Google acquistasse Twitter.
Fonte: Il manifesto
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