di Maurizio Pagliassotti e Marco Vittone
La graziosa stazione di Alpignano, cittadina della periferia torinese piazzata all’imbocco della strategica per eccellenza Val di Susa, ieri mattina debordava di folla. Un luogo solitamente tranquillo nel fine settimana. Un plotone compatto di buongustai attendeva, biglietto in mano, il treno che li portava nel nuovo paradiso della gola, il Salone del gusto di Torino en plen air, fusosi a caldo – da quest’anno – con Terra Madre. Il problema è che quando il treno è arrivato debordava già di folla ammucchiata come acciughe.
Così, si parte e si raggiunge il centro della città che sfiderà la legge dell’impenetrabilità dei corpi: sono attesi 500mila visitatori. Ma, diversamente dagli anni passati, la manifestazione non si concentra in un punto: è disposta su Torino come un arabesco.
Il giro canonico parte dal parco del Valentino, dove platani e tigli cominciano a bordarsi di rosso autunnale. Nei piccoli vialetti si sviluppa un ordito di storie contadine vicine e lontane, mille gazebo in cui trovare artigiani del cibo, dell’agricoltura contadina, di un altro modo di vivere, probabilmente più umano. La presa della folla alla città del gusto inizia presto, alle 10, e termina la sera all’imbrunire, alle 7. Peccato non si possa andare avanti, tirar tardi, perché l’offerta è così ampia da rendere necessario almeno un bis, come in ogni pranzo che si rispetti. Pare che la città abbia ceduto alle pressioni dei locali movida, mal disposti a perdere due serate d’incasso. Si spera che le regoli cambino il prossimo anno, visto il successo e la portata culturale in essere.
Così, la folla che erompe dalla stazione d Porta Nuova, si incammina a stomaco vuoto verso il Po, dove troverà di che soddisfarsi. Volete cibo di strada tradizionale? C’è! Volete fare il giro dei 5 continenti a tavola? Andate dietro «Torino esposizioni», troverete cuochi e cucine provenienti da ogni dove, e magari potrete anche sedervi ad uno dei vari forum di Terra Madre in programma. Di fianco, ecco le comunità indigene – Indigenous Terra Madre – assediate dalla globalizzazione che raccontano la loro resistenza anche attraverso il cibo.
Assedio per Slow Fish e Slow meat che, insieme all’offerta culinaria, affrontano la sostenibilità di tale consumo, in un’epoca di forti geopolitiche derivanti da conflitti sull’accaparramento delle risorse ittiche. Tutto è organizzato nell’ottica del mercato rionale. E qui lo stacco ideologico, rispetto alle edizioni passate, risulta evidente. Si è passati dall’ottica del grande magazzino chiuso e isolato dal mondo, al mercato di strada. Una visione decisamente più interclassista, popolare che, nota non secondaria, porta un vantaggio tangibile: non c’è più il biglietto d’entrata (ma il cibo si paga).
Il cielo torinese non si tira indietro e questo fine settembre pare voglia far la sua parte, così il tour enogastronomico attraversa la città. Dopo il Valentino, ci sono i Murazzi con birra artigianale: birra a fiumi, pare di essere tornati indietro ai gloriosi anni novanta Poi piazza Vittorio, via Po con i gelati. E si arriva in piazza Castello – insieme alla sfilata dei contadini del mondo che venerdì ha percorso le vie storiche – per l’ultimo, prodigioso, sforzo di chi ha ancora posto nella pancia. Lungo di via Roma si affollano 200 eccellenze agro alimentari italiane legate ai presidi di Slow Food. L’allestimento produce un’estetica vagamente di rottura: l’austero salotto è attraversato da nuvole di profumi penetranti che, di nuovo, riportano il contesto a una dimensione popolare.
A ogni stand, se ne contano 140, torna in mente Calvino, perché ogni panino, arrosticino o bicchiere di vino sono quel punto in cui ci si può riconoscere se si vuole resistere «all’inferno dei viventi». Il lento incedere verso Porta Nuova si fa con il cibo nella mano destra e bicchiere in quella sinistra. Un equilibrio precario, perché gli occhi vagano e si posano su altri calori e le narici tendono in senso opposto, verso quel profumo che arriva da chissà dove. Così, si concretizzano le spinte centrifughe che ti portano verso il maracuoccio del Cilento o biscotto salato di Roccalbegna.
Ma i confini di Terra Madre vanno ben oltre la dogana di Chiasso. È forse l’unica occasione per assaggiare cibi di altri mondi, il loro viaggio è spesso complicato e deve rispettare rigide regole e controlli. Per esempio, si può degustare il fonio di Tambacounda e Kolda, in Senegal, coltivato a mano da una comunità di 945 contadini su 1131 ettari di terreno. Le spighe, falciate dagli uomini, sono raccolte in covoni e messe a seccare su piattaforme di legno. I chicchi sono setacciati dalle donne e poi stoccati nei granai. Tra le novità dall’Africa c’è l’igname rampicante, tubero ugandese conosciuto con il nome di balugu: si può mangiare fresco, bollito o fritto.
Dalla Gran Bretagna arriva lo Stichelton a latte crudo, formaggio vaccino blu, di forma rotonda realizzato con il latte crudo secondo la tradizione. Il suo unico produttore è reduce da una battaglia condotta anche con l’aiuto di Slow Food per tentare di modificare il disciplinare dello Stilton (il più celebre formaggio erborinato britannico), che obbliga a pastorizzare il latte e che, quindi, impedisce al Presidio di usare il nome storico. Il Canada porta il salmone sockeye del fiume Okanagan, pescato dalle popolazioni indigene Syilx secondo i sistemi tradizionali e lavorato in modo da utilizzarne ogni parte, come le teste e le lische impiegate per le zuppe. Dalla Macedonia arriva l’uva stanushina, da cui si ricava il vino kominyak, rosso rubino, e il madzun, una bevanda usata tradizionalmente come medicina. Non è stato facile arrivare a Torino per il miele di melipona. «L’Ue considera mieli solo quelli fatti da Ape europea (Apis mellifera) ma in Africa, Asia e America Latina esiste anche la famiglia delle melipone, minuscole api senza pungiglione che producono un miele liquido, aromatico, usato anche nella medicina naturale. Per poter vendere questi mieli è necessario cambiare nome: non miele, ma «crema spalmabile di apicoltura nativa» spiega Slow Food.
Nel centro aulico ci si trova dentro un trimalcionico banchetto ma nulla di quanto si muove confina con il consumismo: le persone, semplicemente, mangiano.
Forse il prossimo Salone del libro potrebbe assomigliare a questo esperimento pop: l’attraversamento di un’esperienza connaturata sul piccolo, che riesce ad attrarre chi non si muove dal divano, riuscendo a creare la comunità, anzi, la società che l’epoca neo liberale nega in nome dell’individuo che mangia solitario e spende tanto per spendere. E la formula che apre al cittadino che vuole anche fare solo un giro senza ticket da pagare, funziona. Moltissimi sono coloro che dicono: non ero mai venuto prima.
Fonte: Il manifesto
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