La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 25 ottobre 2016

Che fine ha fatto il capitalismo italiano?

di Lorenzo Cattani
La fragilità economica del capitalismo italiano è più di un problema, al punto che più che di fragilità bisognerebbe, prima di tutto, parlare di “identità economica” dell’Italia. Quando infatti si discute di questo tema è sempre difficile capire dove posizionare il nostro il paese. Il rapporto fra stato e mercato, fra imprese medio-piccole e grandi rende l’Italia diversa dalla maggior parte dei paesi occidentali. Fare luce su questo tema aiuterebbe a capire cosa bisognerebbe fare per superare una vera e propria “crisi d’identità” da cui scaturiscono molte delle debolezze attuali.
Giuseppe Berta, professore di Storia Contemporanea alla Bocconi, presenta un’analisi molto interessante nel suo libro Che fine ha fatto il capitalismo italiano? L’autore parte da una riflessione sul futuro del capitalismo, descrivendo i cambiamenti nel settore automobilistico, “l’industria delle industrie” secondo Peter Drucker, in cui l’Europa, al contrario degli Stati Uniti, sembra mostrare un netto rifiuto al cambiamento. Berta cita gli esempi di Google ed Apple che, rispettivamente con i progetti SDC (self driving car) e Titan, mirano ad entrare nel settore automobilistico, con implicazioni potenzialmente sconvolgenti per tutti. Non è infatti difficile immaginare la portata del cambiamento introdotto da automobili prodotte da aziende che operano in settori dove il cambiamento tecnologico è radicale, al contrario del tipico settore automobilistico dove l’innovazione è invece incrementale. Fino ad oggi la funzione principale dell’automobile è sempre stata quella del trasporto, del movimento da un punto A ad un punto B; questa situazione potrebbe cambiare se venissero introdotte automobili che si guidano da sole (è il caso della Google SDC non quello della ICar della Apple), senza guidatori ma con solo passeggeri.
In questo scenario il capitalismo europeo sarebbe in difficoltà, uno scenario dove il capitalismo low-cost si unisce all’high tech, che solleva grandi domande su quale sarà il ruolo delle economie che finiranno alla periferia del sistema-mondo. Da qui parte la riflessione di Berta sul ruolo dell’Italia e su ciò che resta del capitalismo italiano. Tuttavia, per poter fare ciò è necessaria una panoramica storica su quella che l’autore definisce “il più originale esperimento di gestione dell’economia condotto nel Novecento”.
L’IRI e la stagione dell’economia mista
Studiare la parabola dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), che, da grande protagonista del miracolo economico è diventato oggetto di collusione con il mondo della politica, significa per Berta mostrare il delicato equilibrio tra pubblico e privato nel capitalismo italiano e una situazione che dopo la liquidazione dell’IRI non sembra essersi risollevata e pare attraversare una sorta di “terra di nessuno”. L’autore afferma infatti che la fine dell’esperienza dell’IRI “non si è accompagnata […] alla rivitalizzazione del tessuto imprenditoriale, che al contrario si è rattrappito e impoverito. Il sistema delle imprese ha smarrito i suoi lineamenti storici, senza acquistarne di nuovi e soprattutto senza raggiungere un assetto inedito abbastanza saldo da far maturare una credibile prospettiva di sviluppo”.
Pur ammettendo che l’IRI non nasca da una precisa progettualità, ma invece dalla necessità di sopravvivenza del regime di Mussolini, Berta afferma che una volta costituito “non ci mise molto a prendere le sembianze di un soggetto determinante per il futuro dell’economia italiana, dotato in un raggio di manovra che nessun altro istituto precedente aveva avuto”. Tramite l’IRI lo stato italiano gestiva un ampio raggruppamento di imprese provenienti da importantissimi settori produttivi come “la siderurgia bellica, la cantieristica navale, la telefonia”1.
L’IRI continuò ad esistere dopo il secondo conflitto mondiale, in quanto realtà imprescindibile, da cui l’Italia sarebbe dovuta partire e durante il boom economico del secondo dopoguerra l’IRI e l’ENI furono i grandi protagonisti dell’economia mista italiana, dove stato e mercato si intrecciavano e formavano addirittura una “relazione d’interdipendenza”. Tuttavia, grosso modo a partire dagli anni ’70 l’IRI entrò in un lento processo di declino, che sarebbe culminato con la liquidazione circa trent’anni più tardi. Berta rintraccia il motivo di questo declino nella mancanza di “un sistema di regole a far da argine e da barriera presso il confine tra politica, economia e imprese, che proprio la militanza di partito induce continuamente a varcare, con rischi che si accentuano man mano che le posizioni e gli interessi, personali e di gruppo, si rafforzano e si estendono”.
A partire dagli anni ’70 quindi l’IRI subì una forte intromissione da parte della classe politica, che vedeva nell’Istituto uno strumento per trainare l’Italia fuori dalla crisi petrolifera dei primi anni ’70 e che doveva approcciarsi anche al raggiungimento di obiettivi economici e sociali. L’espansione del ruolo e degli obiettivi mise in crisi l’IRI che, ritrovandosi sovraccaricato, ha smarrito il suo ruolo primario, innescando un percorso declinante che i tentativi di risanamento di Romano Prodi, diventatone Presidente nel 1982, non riuscirono a fermare. Tuttavia, più che l’output economico era l’assenza di lungimiranza da parte della classe politica di allora che pesò maggiormente. Il rilancio dell’IRI non poteva avvenire per mano di una classe politica affannata, prossima all’inchiesta su Tangentopoli. Ciò che avvenne in quegli anni fece sì che la fine dell’IRI diventasse parte di un processo inevitabile più che di una programmazione razionale. Come afferma Berta “non si delinearono le alternative alle liquidazioni e alle privatizzazioni” proprio per via dell’assenza di una specifica volontà da parte dello Stato.
Finito l’IRI cosa resta dell’Italia?
L’economia mista ha rappresentato un pilastro importante del capitalismo italiano per più di 50 anni, viene quindi naturale chiedersi che cosa resti dopo questa stagione. Per Berta la risposta è purtroppo “non molto”. Nello specifico, possono essere ritrovate due facce del capitalismo italiano. La prima, e la più preoccupante, è quella dell’Italia industriale che sta andando incontro ad un processo di disfacimento. Berta porta infatti gli esempi dell’Ilva di Taranto, un tempo cardine della filiera siderurgica italiana e adesso soffocata da più di 900 milioni di debiti, ma anche del polo dell’acciaio di Piombino, il cui destino è legato ad un processo di acquisizione da parte di un gruppo algerino. Infine, come non citare anche la Pirelli, recentemente acquisita da ChemChina, andando a finire direttamente sotto il controllo dello stato cinese. Anche Fiat rientra in questo elenco poiché, dice Berta, non dobbiamo mai scordare che Fiat Chrysler Automobiles (l’unico caso di “aggregazione che ha preso le mosse dall’esperienza industriale italiana”) aveva tentato la fusione con General Motors, poi respinta dal gruppo di Detroit. Se GM non avesse rifiutato la proposta di FCA, è probabile che il suo percorso sarebbe diventato molto più simile a quello della Pirelli.
Ma la destrutturazione della realtà della “grande impresa” nel capitalismo italiano non si ferma al solo settore industriale. Berta riporta le parole di Alessandro Penati quando afferma che anche importanti gruppi controllati pubblicamente hanno mostrato un netto peggioramento nella propria performance: Eni, Enel e Telecom hanno infatti registrato una diminuzione drastica dei propri utili.
Questa è la prima faccia del capitalismo italiano dopo la stagione dell’economia mista. Tuttavia ne esiste una seconda, meno visibile e maggiormente radicata “in una fascia più opaca della vita quotidiana”, che mostra invece risultati più incoraggianti. È l’Italia delle imprese intermedie, che rappresentano per l’autore “quanto di nuovo e più solido è venuto coagulandosi all’interno dei territori dove è ramificata la presenza dell’imprenditorialità”. Nonostante un forte calo nelle vendite durante il 2009, gli anni successivi hanno segnato comunque un importante aumento nel volume di vendite, in alcuni casi anche del 21% rispetto al 2009, anche se le diverse reazioni all’anno peggiore della crisi hanno introdotto differenze sostanziali. Il chimico-farmaceutico, la produzione di macchine e attrezzature, la metallurgia, le pelli e il cuoio e il tessile sono i settori che meglio hanno reagito alla crisi economica. L’abbigliamento e le costruzioni sono invece quelli che hanno maggiormente accusato il contraccolpo. Infine, il Made in Italy ha saputo fare molto bene, mostrando ottimi risultati anche in alcune imprese del Sud.
Nonostante queste imprese non siano sfuggite alla perdita di competitività che ha coinvolto l’economia italiana negli ultimi anni (4,4% per le medie imprese), questa diminuzione è comunque considerevolmente minore di quella affrontata dalle imprese manifatturiere (13%). Da questi dati, osservandone uno geografico per cui il Nord-Ovest è ancora il capofila dell’economia italiana, Berta si chiede se queste “locomotive” possano bastare per rilanciare l’economia.
“Locomotive” ed economia della conoscenza
Parlando di “locomotive” e di distretti, sorge automatica la domanda su quale sia ancora il ruolo del Nord-Ovest quale motore di crescita per tutto il paese. I dati mostrano come questa regione mantenga un certo primato rispetto alle altre regioni italiane, tuttavia si sta sempre più distanziando dalle altre aree forti d’Europa come, ad esempio, il Baden-Wurttenberg, la Baviera, il Noreste spagnolo, la Bassa Sassonia o il Westosterreich e il Sudosterreich austriaci. Quali sono i problemi a cui il Nord-Ovest sta andando incontro?
Prima della crisi il Nord-Ovest cresceva a un ritmo medio dello 0,5%, contro un 1,4% delle altre regioni. Probabilmente questo è dovuto a tre fattori: il primo è quello della minore predisposizione all’iniziativa imprenditoriale (Berta cita l’eccessiva pressione fiscale, le inefficienze in servizi infrastrutture e nella pubblica amministrazione), il secondo è quello della dimensione delle imprese, mentre il terzo è quello delle competenze della forza lavoro.
Questi ultimi due elementi meritano una spiegazione più approfondita. La dimensione più piccola delle imprese implica una maggiore difficoltà nel gestire, e di conseguenza adattarsi, all’innovazione tecnologica. Inoltre comporta delle conseguenze anche sulla produttività. Per quanto riguarda le competenze della forza lavoro invece la situazione è molto più problematica. Berta parla infatti della cosiddetta “economia della conoscenza” e del fatto che al giorno d’oggi è la conoscenza ciò che permette di far progredire una fabbrica così come le professioni del terziario. Tuttavia, l’Italia ha una percentuale spaventosa di lavoratori sovraqualificati, impiegati in professioni dove le competenze da loro acquisite sono sfruttate, nel migliore dei casi, solo parzialmente, e i loro stipendi sono sottodimensionati alle loro conoscenze. Questo rappresenta un enorme freno al rilancio dell’economia italiana ed è proprio dai “knowledge workers” che dovrà per forza passare qualunque progetto per rivitalizzare il nostro sistema economico.
Quale modello per il capitalismo italiano?
Ad oggi, quale realtà economica può definire il capitalismo italiano? Berta ripropone quella del “modello Nec” evidenziato da Giorgio Fuà. Questo modello indica un fenomeno di industrializzazione basato prevalentemente nel Nord Est e nel Centro, formato da imprese locali, a gestione familiare, diffuse sul territorio e prevalentemente legate alla campagna e alle città medio-piccole. La segmentazione dei mercati accelererebbe “il declino della produzione di massa […] proprio quando l’ampliamento delle interconnessioni degli scambi su scala mondiale […] regala un’inaspettata possibilità alle forme di produzione flessibile su scala locale, che per giunta possono allargare la capacità produttiva attingendo alle sacche del lavoro agricolo”. In questo senso l’Italia si troverebbe in vantaggio rispetto al resto del mondo capitalista, grazie alle forti interconnessioni che legano città e campagne.
Questo modello comporterebbe una semplificazione anche nella sfera delle relazioni industriali, poiché la gestione familiare delle aziende Nec, non incentiverebbe lo scontro di classe. Per dirla con le parole di Berta “le relazioni industriali risultano attutite dalle reti sociali nelle quali sono incorporate”. Tuttavia, al contrario degli auspici di Fuà, il modello Nec, che pure ha reso più simili fra loro Nord e Centro, non è stato in grado di replicare questi risultati sull’asse Nord-Sud, andando ad esacerbare un problema di lunga data dell’Italia, un’altra tematica da cui dovrà forzatamente passare qualunque forma di rilancio economico.
Bisogna quindi allontanare sentimenti nostalgici nei confronti del “secolo manifatturiero”, del triangolo Genova-Milano-Torino e della grande industria, poiché questi sono gli elementi dell’Italia del passato e non del futuro. La dimensione su cui l’Italia dovrà costruire il suo percorso di sviluppo non è quella della grande impresa, tuttavia un percorso incentrato sulle piccole e medie imprese non può avvenire spontaneamente, e non può solo coinvolgere il mondo della politica. È importante capire che senza un superamento degli attuali rapporti tra i gruppi d’interesse, soprattutto tra i sindacati e le associazioni imprenditoriali, non potremo superare questa fase di stagnazione. La politica deve certamente recuperare lungimiranza e soprattutto è fondamentale agire sulla formazione delle competenze, lavorando sul gravissimo fenomeno della “overeducation”, in modo che le imprese possano acquisire a pieno titolo un capitale conoscitivo che permetterà loro di essere nuovamente competitive.

1# Tra le filiali dell’IRI vi sono infatti aziende che hanno fatto la storia e la fortuna dell’economia italiana. Alcune di queste sono l’Alfa Romeo, Finmeccanica, Fincantieri e la RAI.

Fonte: Pandora Rivista 

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