La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 26 ottobre 2016

Gli accordi di pace in Colombia: una situazione paradossale

di Paolo Vignolo
La tabella di marcia per blindare gli accordi di pace con le Farc era stata messo a punto nei minimi dettagli. Il 25 agosto scorso il governo annunciava il cessate al fuoco bilaterale definitivo, dopo 52 anni di conflitto armato. Un mese dopo, il 26 settembre, le delegazioni delle due parti si ritrovavano a Cartagena per la firma dell’accordo, alla presenza di capi di Stato e alti diplomatici di mezzo mondo, compreso il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon.
La solenne cerimonia sarebbe dovuta essere il volano elettorale per garantire la consacrazione popolare attraverso un referendum la settimana seguente, il 2 di ottobre: giusto in tempo per l’annuncio del Nobel della pace previsto il 7 di ottobre, in cui il presidente della Repubblica Juan Manuel Santos e il comandante delle Farc Rodrigo Londoño detto «Timochenko» erano dati per grandi favoriti. L’inizio formale dei negoziati di pace con l’Esercito di liberazione nazionale – l’altra grande guerriglia attiva in Colombia – avrebbe definitivamente spianato la strada al trionfo annunciato della coalizione governativa nelle elezioni presidenziali del 2018, in un Paese finalmente pacificato e agli onori del mondo. Tutto sembrava sotto controllo grazie all’appoggio incondizionato della comunità internazionale e gran parte dei media, una solida maggioranza in Parlamento, il beneplacito delle forze armate e perfino del primo papa latinoamericano.
Oggi invece, a poco più di tre settimane dalla sorprendente vittoria del «no» nel referendum sugli accordi di pace, il Paese è in fibrillazione: grandi manifestazioni di piazza attraversano le principali città al grido di ¡Acuerdo ya! (accordo subito), ed è imminente la risposta di chi osteggia gli accordi, mentre pullulano iniziative civiche per fare pressione sulle parti politiche, che candidamente ammettono di non avere nessun «piano b». Nel frattempo avvocati, giuristi e azzeccagarbugli vari si accapigliano per trovare un’uscita legale a una situazione che nessuno aveva previsto, mentre gli oltre 6.000 guerriglieri delle Farc, in piena smobilitazione, si sono ritirati su postazioni più sicure in attesa del da farsi.
Quello che sembrava una recita secondo copione di un teatrino politico dalla trama scontata si è trasformata in una recita a soggetto, in cui gli attori più diversi improvvisano su canovacci scritti in fretta e furia, in una cacofonia di grande presa emotiva, ma di difficilissima comprensione.
Come spiegare tutto ciò a un pubblico italiano, poco avvezzo ai turbolenti colpi di scena della politica colombiana? In che modo leggere questo contesto senza ricadere nella metafora macondiana del realismo magico, evocativa certo dal punto di vista letterario, ma piuttosto fuorviante per comprendere la Colombia del secolo XXI? Quali scenari e quali prospettive si aprono ora? Per cercare di dare un senso a una situazione davvero ingarbugliata, vale la pena di mettere a fuoco alcuni paradossi.
Un primo paradosso ha a che fare proprio con la nozione di conflitto armato, al cuore degli accordi. In pochi anni il discorso ufficiale dello Stato colombiano è passato dalla negazione dell’esistenza stessa di un conflitto armato (sotto il governo Uribe) alla martellante retorica del post-conflitto dell’attuale governo Santos, senza mai davvero fare i conti con il conflitto in quanto tale. Anche se si può capire lo sforzo di generare speranza nel futuro del Paese, è evidente che l’ossessione nel parlare di post-conflitto da parte non solo di funzionari pubblici e mezzi di comunicazione, ma anche di ampi settori accademici e della società civile, ha finito per occultare gli innumerevoli conflitti che attraversano la società colombiana, con o senza accordi di pace con le Farc.
Basti pensare che nelle differenti regioni del Paese operano decine di eserciti irregolari (le guerriglie dell’Eln e dell’Epl, ma anche le cosiddette Bacrim, bande criminali organizzate di tipo mafioso, in buona parte composte da ex gruppi paramilitari), senza parlare del fatto che negli ultimi quattro anni le coltivazioni di coca sono duplicate rilanciando narcotraffico, vero combustibile della guerra. Questa situazione di stallo, inoltre, fa tornare alla ribalta tutte quelle questioni che non hanno trovato spazio nell’accordo: la giustizia sociale in uno dei Paesi più diseguali del mondo, la questione ambientale, la violenza domestica e di genere, i diritti di minoranze e gruppi etnici, e via dicendo.
Un secondo paradosso ha a che fare con la politica delle emozioni. È piuttosto curioso che le passioni collettive si stiano scatenando dopo (e non prima di) un voto troppe volte definito come storico. Vale la pena ricordare che il referendum non chiedeva di esprimersi a favore o contro la pace, ma riguardava un accordo complesso e assai discutibile, contenuto in un documento di 297 pagine di difficilissima lettura che toccava aspetti diversi come la politica agraria, il narcotraffico, la partecipazione politica della guerriglia.
La campagna elettorale da una parte e dall’altra invece è stata all’insegna della semplificazione arbitraria, il gioco sporco, la demagogia più spudorata. I fautori del «no» hanno puntato sulle paure recondite e sui bassi istinti, agitando lo spettro di una surreale dittatura castro-chavista, chiamando in causa il regime tributario e perfino l’«ideologia di genere». D’altra parte, quelli del «sì» promettevano una pace in cui sarebbero spariti come per incanto la guerra, il narcotraffico e l’estrazione illegale, evocando scenari apocalittici in caso di vittoria avversaria.
La stampa internazionale ha subito collegato il voto colombiano con Brexit. Da un punto di vista elettorale le analogie ci sono, certo. Ma non bisogna dimenticare che il tema della pace muove emozioni viscerali in un Paese che ha oggi oltre 8 milioni di vittime riconosciute, dove la guerra attraversa praticamente ogni famiglia e ha devastato gran parte delle comunità contadine, indigene, afro-discendenti. La regia politica si era incaricata di mettere a punto una trama a orologeria in termini di gestione del potere, ma non ha saputo calare nelle fibre profonde della società, nella micropolitica degli affetti, della ritualità, della vita quotidiana. Questi desideri e queste paure ataviche trasformati in mobilitazione civica occupano adesso la scena, con esiti imprevedibili.
Infine, il paradosso forse più sorprendente: nel momento in cui la Colombia attraversa la più grave crisi politica della sua storia recente, per la prima volta si è placata la violenza che dagli anni Quaranta ha funestato il Paese in maniera ininterrotta. Allo sgomento iniziale per l’esito del plebiscito è subentrata la ricerca affannosa di uno sbocco politico di qualche tipo, che ha portato tutti gli attori a preferire la via negoziata all’uso delle armi. Nessuno può dire quanto duri questa tregua. Ci si muove in equilibrio precario sul baratro di una guerra che in qualsiasi momento pupo riaccendersi più feroce che mai, anche se non è certo questo lo scenario più probabile.
Un rischio concreto è il protrarsi di una situazione di stallo fino alle elezioni del 2018, il che porterebbe il Paese a impelagarsi in una crisi economica sempre più acuta, con la credibilità del governo in caduta libera, un’opposizione di destra arroccata su posizioni oltranziste, le truppe delle Farc allo sbando e il ritorno di narcomafie e bande criminali.
Ma, paradosso dei paradossi, proprio l’emergenza della crisi lascia intravvedere opportunità che fino a qualche giorno fa sembravano impensabili. Lo stesso copione iniziale, seppur stropicciato, pieno di cancellature e refusi, continua a indicare un camino possibile. Il Nobel della pace a Santos (ma non a Timochenko) ha ridato fiato e autorità morale a un governo che qualche giorno fa sembrava moribondo. L’inizio dei negoziati con l’Eln – annunciato il 9 ottobre scorso – lasciano immaginare una costruzione di pace più ampia. Ma soprattutto l’inattesa mobilitazione sociale crea i presupposti di salvare gran parte degli accordi già firmati, una volta accolte alcune modifiche delle opposizioni.
Questo cammino a sua volta si biforca: c’è chi in queste ore predilige una scorciatoia legale (che di fatto svuoterebbe di senso il risultato del plebiscito) e chi considera che un voto popolare può essere ribaltato solo da un’altra forma di manifestazione della volontà popolare, si tratti di un’istituzione di origine coloniale come il cabildo abierto o di un nuovo ricorso alle urne. Su queste incerte premesse si gioca la scommessa della Colombia che verrà.

Fonte: rivistailmulino.it 

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