La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 23 ottobre 2016

Il digitale, i controlli a distanza e… la democrazia!

di Riccardo De Angelis
L’autunno è arrivato sull’onda del dibattito relativo all’impatto dell’era digitale e robotica nel mondo del lavoro, con le ormai abituali previsioni di riduzione di milioni di posti di lavoro. Tralasciando ora la questione che la riduzione non è legata all’innovazione ma alle scelte di sfruttamento che il capitale adotta, vogliamo concentrarci invece sulle capacità di controllo della produzione e dei “produttori” che il digitale consente in assenza di una adeguata regolamentazione o meglio ancora concezione dell’organizzazione del lavoro.
Dopo le modifiche operate di fatto sull’Art.4 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/70) dal Jobs Act e al portone aperto dall’accordo del 2011 tra Confindustria e Sindacati, ratificato da una norma inserita dall’ultima Finanziaria di Berlusconi dello stesso anno, le aziende private e pubbliche stanno operando un affondo deciso per conquistare questo baluardo della rigidità sindacale. Il divieto di controllo a distanza, già eluso negli anni precedenti con diversi accordi aziendali che con la scusa della sicurezza cedevano quote di questo diritto alla riservatezza, subisce un destino in controtendenza rispetto a quanto stabilito dalle nuove normative sulla privacy che avrebbero potuto blindare tale divieto anche dentro i luoghi di lavoro. Come è facile capire, la politica della sicurezza imperante, ha fatto invece cedere il passo al “diritto” dei lavoratori e lavoratrici di poter essere liberamente spiati durante l’orario di lavoro.
Se è vero che i precedenti accordi venivano molto spesso trincerati dietro la postilla per cui le informazioni raccolte tramite i sistemi di controllo non potevano essere in alcun modo utilizzate per provvedimenti disciplinari, è altrettanto vero che si introduceva il monitoraggio costante e ripetuto dei comportamenti abituali dei lavoratori, potendo in ogni caso definire meglio i profili di attivisti, agitatori, o contestatori di diverso ordine e grado.
Oggi, invece, il contesto normativo legato anche alle molteplici attività digitali ha creato i presupposti per un appetito più ampio per il datore di lavoro. La battaglia, che nel ciclo di lotta di conquista era contro l’aumento della produttività a scapito di salute e occupazione, si è trasferita nell’era contemporanea (già pregna di lotte di retroguardia) nella battaglia contro la produttività individuale a favore della più volte reiterata condivisione dei sindacati per la produttività collettiva. Quindi cessa di avere una qualsivoglia capacità di resistenza nel momento in cui il datore di lavoro può misurare costantemente e sistematicamente l’attività di ogni suo singolo dipendente nel momento stesso che sta operando. Ciò permette di esercitare una pressione concreta e psicologica sul singolo, tanto più con un modello salariale sempre più legata alla produttività, che avrà ripercussioni psico-fisiche ben note già da 40 anni.
Ma se tutto ciò non fosse abbastanza, in queste settimane la voracità di Confindustria e dei suoi più agguerriti assaltatori non si esaurisce negli strumenti coercitivi legati al semplice aumento della produttività individuale ma al controllo stesso del singolo lavoratore, con particolare attenzione al profilo che può innescare la contestazione anche in quelli sopiti.
Il cambio normativo sollecitato per contrastare le inevitabili e oggettive resistenze che l’appiattimento dei salari sta determinando ha bisogno di un “salto di qualità” nella capacità di isolare e rendere inoffensive quelle avanguardie che non si arrendono e continuano a seminare conflitto o semplicemente a svelare la natura antiumana del capitalismo in ogni loro contesto.
Questa affermazione che forse molti troveranno abnorme, si rafforza nei ragionamenti e nelle richieste ingiustificate di aziende “pubbliche” o private che non si accontentano di controllare l’attività di produzione di ogni singolo dipendente, ma sempre più ne vogliono controllare la sfera personale, di relazioni, di pensieri che grazie alla sempre più coinvolgente digitalizzazione della comunicazione passa attraverso strumenti promiscui come le mail, i social, il web ecc ecc. Gli algoritmi che permettono a un Facebook qualsiasi di proporci beni di consumo in base alle ricerche o ai “like” inseriti in esso, devono diventare l’abituale controllo giornaliero del datore di lavoro nei confronti del lavoratore.
Cosi, se l’Università di Chieti installa dei software di controllo individuale per conoscere preferenze, discussioni, ricerche e letture on line dei tecnici-amministrativi e dei docenti con la scusa della sicurezza, per fortuna (ribadiamo pura fortuna!) il Garante della privacy, a seguito dell’inchiesta istituita su sollecitazione dei dipendenti, ha vietato tale utilizzo perché il software raccoglieva dati sensibili in nessun modo utili alla sicurezza o all’interesse dell’Università.
Almaviva, invece, preferisce chiudere 2 sedi (Roma e Napoli) dove guarda caso l’accordo sul controllo a distanza era stato rigettato dalle assemblee in maniera netta, preferendo mettere per strada 2000 persone circa. Ree non solo di non acconsentire all’abbattimento del costo del lavoro ma che pretendono “impunemente” di lavorare senza essere trattati come si fa in un campo di concentramento. Perciò la capacità di “rieducazione” di tale gruppo di lavoratori è talmente scarsa che Almaviva non ritiene opportuno cercare strade alternative alla chiusura delle sedi ribelli e lasciare in piedi la sola sede dichiaratasi più pronta a farsi stuprare la dignità.
Telecom Italia, dal canto suo, nella trattativa per il rinnovo del contratto integrativo richiede non solo il controllo nei luoghi produttivi dove operano circa 50mila dipendenti, ma anche di tutti gli strumenti messi a disposizione dalla stessa azienda che non vengono considerati legati all’attività lavorativa come web, mail, social, ecc- Ora, ammesso che non siano legati all’attività lavorativa, ci chiediamo perché l’azienda spende soldi per mettere a disposizione tali strumenti, e ancora qual è il bramoso interesse per conoscere usi e costumi di ogni singolo dipendente se ciò non è strettamente connesso all’attività lavorativa?
La verità è che la cospicua giurisprudenza considera tali strumenti per loro natura promiscui in quanto utili alla comunicazione di ognuno di noi che, come noto, non è univoca ma afferente alla sfera di relazioni che abbiamo e che per la maggior parte degli esseri umani spazia da quella lavorativa a quella affettiva fino ad arrivare oggi ad ambiti quali l’e-commerce. Ancora il 15 settembre di quest’anno il Garante per la protezione dei dati personali nel pronunciarsi sull’ateneo di Chieti ha specificato quali siano gli strumenti per i quali è possibile trovare un’intesa sindacale per il controllo a distanza e quali, invece, siano fuori dalla portata di questi accordi in quanto riguardanti diritti GARANTITI costituzionalmente. Il Garante della privacy esclude quindi il monitoraggio costante e sistematico di mail, instant messagging, registrazione di indirizzi IP e dati personali, ma questo non pare fermare l’appetito padronale.
Un sistema di annientamento personale che, certificato dalla legge, mina la tenuta democratica del paese. Parliamo del controllo totale di una persona che ha la sola sfortuna di lavorare sotto padrone! Di una società in cui il datore di lavoro, per il fatto stesso che “ti concede” di lavorare per lui, ha diritto di sapere ogni cosa dei propri dipendenti e quindi, volenti o nolenti, di costruire il proprio giudizio su una serie di questioni che esulano dall’ambito lavorativo. Si potrebbe obiettare che tali strumenti basta non usarli ma l’era digitale ormai impone l’utilizzo quasi giornaliero di strumenti come quelli citati, ed ove anche fosse possibile l’auto-coercizione del proprio pensiero, ciò risulta abbastanza spaventoso.
Non è un caso che il Garante si esprima in contrasto con tali utilizzi non solo rispetto alle norme sulla privacy ma anche in riferimento agli aspetti costituzionali relativi al divieto di discriminazione delle persone in base al sesso, razza, religione, ideologia . E non è un caso che personaggi come Briatore, Squinzi e simili affianchino il governo Renzi nell’azione di destrutturazione della carta costituzionale ultimo relitto di una legislazione costruita nel conflitto e nella mediazione di classe, a favore un nuovo sistema di regole totalmente sbilanciato per il Capitale e i fruitori dei suoi privilegi.

Fonte: La Città futura

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