di Max Ajl
Probabilmente, in nessuna altro luogo la violenza limita l’orizzonte quanto nel mondo arabo. Le guerre imperiali hanno demolito lo stato libico e trasformato la Siria in un carnaio. Lo Yemen, il paese più povero della regione, ha fatto da poligono di tiro per i droni USA prima che l’Arabia Saudita, la satrapia regionale in capo per conto degli Stati Uniti, lo attaccasse, precipitandolo nella spirale della carestia. L’Iraq scosso dalle autobombe dell’ISIS dopo decenni di sanzioni e guerra. E la Palestina che continua a sanguinare sotto il giogo del colonialismo israeliano.
In un simile clima di violenza imperiale – in effetti, una vera e propria guerra allo sviluppo – in pochi hanno tenuto salda la propria posizione. La Striscia di Gaza soffre a causa di quello che l’economista politica Sara Roy definisce “de-sviluppo” indotto da Israele [1]. La Siria ha subito un arretramento di oltre mezzo secolo, con un crollo dell’aspettativa di vita e una generazione di giovani uomini perduta [2]. Qual è il motivo di tanta violenza? I mercenari accademici degli studi sulla controinsurrezione si concentrano sul terrorismo come responso a un’istanza materiale, e sulla guerra occidentale quale risposta [3]. Altri ascrivono il sottosviluppo di quest’area a un misto di inadeguatezza istituzionale e deficit democratico, rimediabile attraverso l’applicazione della potenza USA.
Contro tale rappresentazione, Ali Kadri in Arab Development Denied fornisce un brillante e intelligente resoconto di come gli Stati Uniti hanno negato lo sviluppo arabo. Tramite le guerre, il colonialismo e le sanzioni, si e cercato per decenni di prevenire la sovranità della classe lavoratrice nella regione. In alcuni casi, Kadri assume un tono polemico, ma ciò non deve trarre in inganno. L’argomentazione del suo libro è costruita su una conoscenza enciclopedica dei meccanismi della politica macroeconomica, delle interazioni tra scambi di valuta, apertura e chiusura del conto capitale e ruolo dell’investimento pubblico e privato nel mettere in moto ciò che Gunnar Myrdal definiva “circoli virtuosi” dello sviluppo. Il tutto inserito in una lettura ad amplissimo raggio della storia dell’area in questione, alla quale Kadri fa riferimento con una sin troppo agevole fluidità.
Cosa forse più cruciale, è il recupero compiuto da Kadri del concetto di sovranità, e la sostanza che vi infonde. Egli intende la sovranità come “il diritto da parte dei lavoratori a determinare le proprie condizioni di sussistenza”, chiarendone immediatamente le basi di classe (3). La guerra costituisce il solvente primario della sovranità: a ogni invasione imperiale, a ogni stato avviluppato dall’ombrello di sicurezza statunitense, la sovranità diviene un carapace sempre più essiccato. Inoltre, qualsiasi apparato politico che sfidi il controllo USA, “qualunque piattaforma sociale dalla quale la classe lavoratrice” possa, anche solo potenzialmente, “mettere alla prova la tenuta dell’imperialismo a guida statunitense”finiscono per essere smantellati (7). Ne danno testimonianza la distruzione della Libia, la tentata devastazione della Siria e l’attacco continuo all’Iran da parte degli Stati Uniti. Come scrive Kadri, “le guerre dislocano i lavoratori e i contadini e rimuovono le risorse nazionali dal controllo politico, anche potenziale, delle classi lavoratrici nazionali” (7). Egli mette in chiaro come la distruzione dello stato e delle sue istituzioni precluda anche la possibilità dello sviluppo. I capitoli successivi ampliano questa problematica di base.
La premessa è una devastante e involutiva dialettica tra imperialismo e classi dirigenti locali. Dopo gli esperimenti populistici degli anni Sessanta e Settanta, sostiene Kadri, la regione assiste al “graduale disimpegno del capitale industriale nazionale rispetto al capitale mercantile”, con quest’ultimo che diviene lentamente “la modalità dominante” (16). Il capitale, muovendosi rapidamente dentro e fuori da quegli aggregati statistici chiamati economie nazionali, decompone i tessuti produttivi, conducendo la classe “capitalista-mercantile”, legata agli investimenti a breve termine, a fondersi ancor più profondamente col “capitale finanziario internazionale” in un’incandescente lega di interazioni (16).
Il problema, quindi, non è tanto che lo sviluppo arabo elude da responsabili politici seri ancorché confusi. Al contrario, questi ultimi “riplasmano lo sviluppo come un obiettivo sfuggente” (16). Inoltre, gli asset fuoriescono da falle istituzionali e strutturali tra loro connesse, e il capitale fluisce fuori dalle contabilità nazionali. Frattanto, lo “spettro della guerra”, costantemente, “giustifica l’ascesa della classe al potere e degli apparati di sicurezza che sorreggono i regimi arabi”, portando a svariate forme di contenimento sociale e stabilizzazione in luogo di investimenti produttivi di lungo termine (30).
Tutto ciò non è dovuto a una mancanza di conoscenze circa i rimedi politici necessari. Kadri ci ricorda che i regimi arabi nazionalisti e populisti “controllavano i conti capitale e adeguavano i tassi di interesse e di cambio al fine di equilibrare risparmio e investimenti, proteggendo il paniere del consumo di base, il quale costituiva parte integrante della sicurezza nazionale” (45). I prezzi venivano regolati in modo da garantire l’accumulazione locale e prevenire la fuga di conoscenze. Come risultato, fino al 1977, il reddito reale pro capite era equivalente a quello delle economie dell’Asia orientale, veri e propri esemplari di sviluppo capitalistico.
Da allora, con la costante perdita di sovranità della regione e le risorse sociali sempre più frequentemente dirottate, al fine di rafforzare i paesi dell’area per la guerra con Israele, o fra di loro, le politiche procicliche – il neoliberismo – hanno fissato la regione nel suo corso attuale. Da una parte, i proventi del petrolio hanno parzialmente mascherato tale processo. Dall’altra, il petrolio ha costituito la principale ragione delle guerre infinite che tutt’ora affliggono l’area, “col ciclo economico [del mondo arabo] che ne esemplifica ‘uno determinato imperialisticamente’, o quantomeno uno guidato da pressioni esterne” (47). Tra gli effetti distruttivi e disgreganti della guerra – ai quali sarebbe doveroso aggiungere la spietata propaganda settaria del Consiglio di cooperazione del Golfo – vi è il fatto che le classi lavoratrici arabe hanno iniziato a dividersi su linee settarie. Non solo, come afferma Kadri, non è stata la politica ad arenarsi. “Le trasgressioni del periodo socialista arabo”, scrive, non erano in alcun modo rappresentate dalle “politiche macroeconomiche di sinistra”, bensì da quelle della “classe incaricata dello sviluppo”, avendo “le classi dirigenti arabe utilizzato lo stato come mezzo di accumulazione privata”. A sua volta, “la quota di ricchezza totale della borghesia di stato è aumentata” (175). Alla fine, tutto ciò ha condotto a quella forma di rapina nota come privatizzazione.
La guerra ha fornito anche un altro meccanismo per il disimpegno del capitale dallo sviluppo della capacità produttiva nazionale. Il risultato è stato un crescente elemento di incognita: laddove il capitale privato poteva seguire fiduciosamente gli investimenti di stato durante il periodo delle economie pianificate, la guerra ormai restringe l’orizzonte della pianificazione: “non vi è granché futuro per pianificare nel momento in cui lo stato può crollare brutalmente”, nota Kadri, modificando i calcoli degli investitori e rendendo gli investimenti commerciali a breve termine, o quelli nel settore dei servizi, più allettanti (65-66).
Kadri, inoltre, dà un’eccellente esposizione di come l’industrializzazione per sostituzione delle importazioni (ISI) giunga ad esaurimento, come parte della sua trattazione del periodo della pianificazione. Le politiche ISI includevano molteplici tassi di interesse e di scambio al fine di garantire risparmi e investimenti adeguati, e il loro corollario, ossia, deflussi di capitale controllati, con titoli fluttuanti allo scopo di espandere la massa monetaria e gli investimenti finanziari. Sotto il neoliberismo questi conti capitale sono stati aperti, e la miriade di tassi di scambio e interesse sono collassati in uno solo. La valuta ha iniziato a fluttuare a livello internazionale. Gli stati petroliferi poveri si sono trovati a fronteggiare problemi di bilancia dei pagamenti nel momento in cui i loro conti si sono scoperti vuoti, mentre il tasso di interesse è aumentato in modo da prevenire fughe di capitale. Circolarmente, tale processo ha portato a ritardi negli investimenti, e gli stati non hanno potuto emettere moneta a causa della riduzione delle entrate di valuta estera, o al mantenimento di quest’ultima nelle riserve al fine di proteggere il tasso di cambio. Infine, negli “stati con scarsa capacità petrolifera, lo spazio monetario apertosi come risultato della diminuzione della valuta nazionale è stato colmato dal dollaro, e un’implicita o esplicita dollarizzazione ha sommerso gradualmente i mercati monetari” (54).
Sembrerebbe, tuttavia, esserci una sorta di tensione tra l’argomento secondo il quale il ciclo economico interno è stato subordinato al controllo imperiale, e la successiva affermazione, da parte di Kadri, in base alla quale le politiche interne producono i loro stessi ostacoli e contraddizioni. Ciò potrebbe essere più un effetto dell’esposizione che dell’analisi compiuta da Kadri. Sebbene la sua unità analitica sia il sistema-mondo, col “mondo arabo” innestato nella geopolitica imperiale, a volte esso figura solo vagamente nella sua analisi. Egli osserva come nel centro stesso, il conflitto militare esterno è anche conflitto di classe interno, con la militarizzazione dell’industria USA che porta alla “spartizione del valore in favore del capitale a guida statunitense, imponendo misure di austerità alle classi lavoratrici del centro” (91). Ma il sottosviluppo del mondo arabo – in altri termini, il deficit di sovranità delle classi lavoratrici arabe – è, a detta di Kadri, “una conseguenza delle necessità dell’imperialismo a guida USA”, “col petrolio e le guerre locali arabe” come fondamentali “requisiti del capitale, rientrante nell’ambito di competenza” del potere degli Stati Uniti (218). La chiave di volta qui è stata “il fattore israeliano… [il quale] ha impresso uno stato di disfatta”, e che ha aiutato lo spostamento dell’equilibrio di potere, dopo il quale la controrivoluzione ha iniziato gradualmente a trionfare a livello regionale (212).
Cosa sarebbe potuto accadere in caso di mancata vittoria militare israeliana, controinsurrezione saudita in Yemen, o della guerra-lampo Oman-britannica contro la rivoluzione in Dhofar, non si può sapere. Ma gli ostacoli cui allude Kadri, per quanto riguarda gli stati petroliferi poveri, non erano semplicemente costituiti da conti prossimi allo zero matematico, quanto da forze sociali che perdevano l’abilità di strappare ulteriore capitale ai ricchi da reinvestire in capacità locali. I deficit delle partite correnti sono collegati ai limiti delle capacità estrattive dello stato, sopratutto dalle classi medie e alte. No sono, dunque, processi naturali bensì politici, connessi all’equilibrio dei poteri sociali, un bilanciamento che non è mai esclusivamente nazionale, ma regionale e internazionale.
E qui ha origine un mio duplice disagio rispetto al libro. Kadri avrebbe bisogno di storicizzare maggiormente, e di essere più didattico. Infatti, come egli ben sa, ma non dice abbastanza esplicitamente, le politiche ISI e il loro epilogo si inseriscono in un più vasto processo di cambiamento sociale, una rivoluzione globale, comprendente lo spazio per una lotta anti-sistemica aperto dall’URSS.
A sua volta, Kadri sollecita una rimessa alla prova di quelle politiche macroeconomiche che hanno dato una spinta al mondo arabo negli anni Sessanta e Settanta. Sono necessarie, sostiene, “modalità per arginare l’evaporarsi delle risorse, che rimettano in circolo il valore a livello nazionale, rivalorizzino il lavoro e redistribuiscano il valore attraverso le politiche sociali” (69). Fondamentalmente, ciò significa, prima di tutto, riforma agraria, e rinazionalizzazione delle attività “precedentemente rapinate tramite il consorzio composto di stato repressivo e mercantile” (699. Per pretendere che svolga il proprio ruolo nei circoli produttivi, al popolo vanno dati i mezzi per rivendicare. Inoltre, tutto ciò significa “una gestione multi-stratificata dei prezzi” al fine di riorganizzare le politiche dei tassi di interesse e di scambio, così da preservare “le risorse della regione”, comprese le persone e il capitale (201). In aggiunta alla riforma agraria, questo comporta “garanzie per la produzione agricola e finanziamenti per l’industria e l’agricoltura a tassi agevolati, nonché l’integrazione dell’agricoltura attraverso un aumento degli investimenti nell’economia” (201).
Innanzitutto, raggiungere un simile obiettivo significa individuare il piano di lotta più appropriato. Kadri afferma la centralità dell’antimperialismo, notando, con una formulazione che non mancherà di infastidire la miriade di utili idioti che vedono le milizie destrorse equipaggiate dal’imperialismo come “rivoluzionarie”, che “nelle formazioni in via di sviluppo costantemente soggette agli assalti imperialisti, la lotta di classe è primariamente antimperialista e condizionata dalla sicurezza delle classi lavoratrici nazionali” (85). Implicitamente, prosegue nell’argomentare che “la piena sicurezza espande la sovranità” (86). A dire il vero, questo punto rischia di irritare doppiamente gli apologisti imperiali, i quali pretendono di parlare in nome dei lavoratori laddove giustificano la scomparsa degli stati nei quali i lavoratori vivono le loro vite, il tutto accompagnato da un flusso costante di luoghi comuni neocoloniali sulla necessità di rompere le uova per fare la frittata, sulle rivoluzioni che non sono ricevimenti, e altre lagne simili.
In una nota di precisazione, Kadri commenta poi sulla debolezza dell’internazionalismo globale. Nel mezzo della diffusione della corrosiva ideologia wahhabta, “il fronte antimperialista è sciita”. Ciò significa che “come ogni seta che costituisce una qualche forma di organizzazione sociale [esso è] capitalista”. D’altra parte, “il problema con un fronte settario… è che anche se vince la guerra a livello militare, la perde dal punto di vista sociale, a meno che le lotte quotidiane della sinistra non imprimano il loro marchio al corso della storia” (180). Naturalmente, un simile giudizio omette il supporto militare dell’Iran a organizzazioni sunnite nella Palestina storica. Il termine “settario”, in tal modo, appare tropo forte, sia empiricamente che concettualmente, in quest’ultimo caso implicando un’equivalenza concettuale tra il settarismo dell’imperialismo saudita-USA, e quello di forze sociali, le quali potrebbero dispiegare l’identificazione comunitaria come uno dei legami atti a cementare la loro solidarietà e antimperialismo. Nondimeno, la necessità di un’enfasi di classe sul fronte della resistenza è importante, e ovviamente, deve provenire da forze dal basso dell’area in questione.
Il mio secondo disagio deriva dalla distinzione proposta da Kadri fra capitale mercantile e industriale. Sia nella regione che a un livello più generale, l’industria pesante ha sempre beneficiato di garanzie statali. In effetti, percepita come non redditizia nel mondo arabo e altrove, è stata spesso figlia dello stato, con l’investimento privato a rimorchio o ad approfittarne in modo parassitario. Questo perché le élite statali hanno spesso visto nell’industrializzazione la via per fornire assistenza sociale alla popolazione, costruendo però contemporaneamente un’armatura per gli investimenti privati nell’industria. Il capitale si radica nei processi industriali quando ciò è vantaggioso, e le condizioni di redditività sono simultaneamente politiche e sociali. Mi preoccupa che in una simile tipologia sia implicito un percorso di sviluppo idealtipico dal mercantile all’industriale. Ma persino gli stati europei hanno saturato la propria base produttiva domestica nell’industria in reazione alle guerre e rivoluzioni, con le loro mobilitazioni di massa, compresa l’Unione Sovietica e altri [4]. (questa non è la sede adatta per esaminare il feticcio dell’industrializzazione). Il reflusso della paura di quel vecchio spettro potrebbe spiegare la volontà di varie élite di optare simultaneamente per forme di accumulazione del capitale globalizzate – la transizione, nel mondo arabo, da quello che Kadri definisce capitale industriale a quello mercantile.
Peraltro, sembra comunque difficile identificare cosa sia capitale mercantile o industriale in un era di conglomerati – ammesso sia mai stato possibile. Le grandi corporation o i gruppi di affari sono oggi, allo stesso tempo, sia mercantili che industriali. Quello in corso è un processo molto più elusivo di dissociazione, e non sono sicuro che la divisione mercantile-industriale ne agevoli la teorizzazione. Ma questa è un questione concettuale di vecchia data, e l’argomentazione di Kadri non è certo imperniata sulla difendibilità di una simile tipologia. In poche parole, Arab Development Denied è uno dei più importanti libri sulla politica economica araba apparsi negli ultimi anni, e merita di essere letto da tutti coloro che nutrono interesse per questa regione.
Note
Sara Roy,The Gaza Strip: The Political Economy of De-development (Institute of Palestine Studies, 2001).
Syrian Center for Policy Research, “Confronting Fragmentation”, febbraio 2016,http://scpr-syria.org.
Sayres S. Rudy, “Pros and Cons: Americanism against Islamism in the ‘War on Terror,’”The Muslim World 97, no. 1 (2007): 33–78.
Sandra Halperin,War and Social Change in Modern Europe: The Great Transformation Revisited(Cambridge, UK: Cambridge University Press, 2004).
Max Ajl è dottorando in sociologia a Cornell, redattore di Jadaliyya e membro dell’International Jewish Anti-Zionist Network.
Link all’articolo originale in inglese Monthly Review
Fonte: Traduzioni Marxiste
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