di Giovanni Mazzitelli
Impatto. Questa parola negli ultimi anni compare un po’ ovunque riferita a molti aspetti della nostra vita: l’impatto dell’uomo sull’ambiente, l’impatto delle nuove tecnologie su lavoro ed economia, l’impatto dei finanziamenti pubblici sulla società, ecc., come se fossimo costantemente alla ricerca, nel bene o nel male, di qualcosa che stravolga lo scenario. Atteggiamento curioso che vede una società tanto restia ai cambiamenti usare un termine cosi forte per indicare il più delle volte l’innovazione di qualcosa di esistente, e non veri e propri cambiamenti di paradigma come la forza della parola suggerirebbe.
A fine luglio ho partecipato alla prima conferenza internazionale sull’Impatto della Scienza nella Società, SIS2016, organizzata a Barcellona all’interno di un progetto europeo su questo tema (1). Occupandomi da diverso tempo di diffusione della cultura scientifica, ho deciso di condividere questa settimana con ricercatori, studenti, sociologi, psicologi e pedagoghi: esperienza formativa e divertente. Tra i partecipanti c’erano ricercatori di varie discipline, fra cui tre premi Nobel, testimoni di progetti e metodologie di successo, e sociologi, interessati a capire come individuare e definire degli indicatori di attività scientifiche che abbiano grande impatto nella società. Si è discusso a lungo anche di come comunicare la scienza, tema fondamentale nell’era del facile accesso alle informazioni, così come delle sue mistificazioni.
La società ha nei confronti della scienza grandi aspettative, auspicando che le ricerche nelle varie discipline producano un impatto sostanziale sulla vita delle persone, riducendo malattie, carestie, fame, migrazioni, guerre, ecc.,
Ma se è corretto affermare che scienza e tecnologia hanno avuto un ruolo rilevante nella nostra evoluzione, in particolare negli ultimi 200 anni (2), aspettative così incalzanti si scontrano con i limiti stessi della scienza e del metodo scientifico, e con la loro intrinseca lentezza e rigorosità. La comunicazione diventa dunque un importante strumento per far comprendere l’impatto reale della scienza, anche se nel merito di ruoli e modalità per realizzarlo è parso chiaro che sia ricercatori che comunicatori scientifici, sociologi, psicologi e formatori non hanno ancora trovato una chiara sintesi. Alla conferenza sono stati presentati interessantissimi progetti di ricercatori che fanno i comunicatori scientifici, di comunicatori scientifici pronti ad insegnare agli scienziati come comunicare in modo più efficace e di sociologi e psicologi che vorrebbero rendere la scienza più efficace per la società.
Personalmente ritengo che il compito dello scienziato sia di condividere i risultati del proprio lavoro, del comunicatore di renderli accessibili al pubblico, del sociologo di condividerli per aspirare a una società migliore, abbattendo limiti e differenze sociali fra tutti gli attori. Se vogliamo trasformare gli scienziati in divulgatori scientifici, stravolgiamo l’obiettivo della ricerca. Certo noi ricercatori abbiamo un ruolo nella comunicazione scientifica, ed è nostra responsabilità svolgerlo al meglio. Ma ritengo che se vogliamo che la comunicazione scientifica abbia un reale impatto nella società, si debba lavorare assieme, ognuno con le proprie competenze, magari interrogandosi sul perché, lì dove funziona bene, più che di comunicazione si parla di outreach, parola intraducibile in italiano ma che rappresenta bene il concetto di superamento di un traguardo, di ricaduta, nonché di accessibilità, di popolarizzazione… Tutto ciò per dire che forse l’impatto della scienza, oltre che dei suoi prodotti tangibili e intangibili, ha anche bisogno di un interlocutore inteso come una cultura che va probabilmente ancora sviluppata.
Oltre a valutare come comunicare in modo efficace la scienza, c’è il problema di individuare quale scienza riesca a creare un reale impatto nella società. Un tema complesso con il quale noi ricercatori ci troviamo a disagio perché è per noi scontato ritenere che la creatività e la passione che guidano la ricerca scientifica non siano effettivamente quantificabili e misurabili. Ma è corretto che ci si ponga la domanda su quali siano i parametri oggettivi di valutazione dell’impatto della scienza nella società. Tema che in generale può non essere per nulla correlato con la valutazione del ricercatore e dei lavori scientifici basati sulla peer review, con cui noi veniamo valutati e valutiamo a nostra volta il lavoro di colleghi, attraverso il riferimento ai loro articoli, creando così un indice di affidabilità dello scienziato e delle sue ricerche. Di fatto non necessariamente una ricerca molto citata genera un grande impatto tanto nella scienza quanto nella società. Thomas Kuhn e i suoi seguaci, probabilmente, liquiderebbero la questione affermando che, non essendoci “un algoritmo” per la scelta di una teoria nella scienza, è difficile ritenere che vi possa essere un insieme di regole che ne definiscano l’impatto sociale, anzi affermerebbero al contrario semmai che la scienza è il “prodotto della società in cui si pratica” (3).
E’ chiaro a tutti che, benché si parli d’impatto della scienza nella società, questo ad oggi è essenzialmente veicolato dall’impatto economico prima e sociale poi. Il programma di finanziamento europeo per la ricerca Horizon 2020, ad esempio, esprime cosi il proprio obiettivo: “The goal is to ensure Europe produces world-class science and technology that drives economic growth” (4), ovvero, si finanzia la ricerca perché questa permetta la crescita economica. Ancora più radicale è il riferimento del presidente Barack Obama, quando descrive all’Economist (5) la sua visione per il futuro: “Too many potential physicists and engineers spend their careers shifting money around in the financial sector, instead of applying their talents to innovating in the real economy”. Quindi, il tanto anelato impatto della scienza nella società è un impatto essenzialmente economico che probabilmente rischia di trasformare alcuni aspetti della scienza stessa e del suo ruolo sociale. Un esempio della dicotomia fra impatto sociale ed economico è la palese contraddizione che viene fuori quando si parla di finanziamenti per l’open-source, open-data, open-access ecc. o peggio ancora per progetti di crowdsourcing e citizen science, elogiati come esempi di accessibilitàe trasparenza della ricerca scientifica, ma che se si guarda ai programmi di finanziamento appare evidente quanto raramente siano supportati (spesso delegando a privati, come nel caso di ResearchGate, Google Scholar, Accademia, ecc. il ruolo di rappresentare la comunità scientifica). Non voglio demonizzare il ruolo dell’economia, quanto condividere l’impressione che questa proprietà transitiva scienza-economia-società faccia male alla scienza e semmai ne svii l’impatto sulla società. In particolare ho l’impressione che troppo spesso i parametri di valutazione si spostino dalla sfera sociale a quella economica, confondendo il fine ultimo delle ricerche.
Sempre durante la conferenza, tutti i presenti, agenzie di finanziamento incluse, hanno sostenuto con fermezza come la ricerca scientifica sia composta anche di valori intangibili di cui bisognerebbe tenere conto, anche se poi nessuno ha espresso con chiarezza cosa questo significhi nel momento in cui si sottomette una richiesta di finanziamento per il proprio progetto scientifico. Forse sovrapponendo il concetto di progresso della conoscenza con il benessere intellettuale che da questo si può generare, come se la felicità delle persone che ne potrebbe scaturire fosse una misura dell’intangibilità della conoscenza in sé. Ad esempio, qualcuno riteneva che questa intangibilità possa essere misurata attraverso l’interesse e la partecipazione dei cittadini a un determinato eventoscientifico (una nuova scoperta, la costruzione di un laboratorio di ricerca, la creazione di uno science center, ecc.), e che questo sicuramente può essere chiamato benessere intellettuale, ma non è detto che sia un progresso della conoscenza o che ciò costruisca necessariamente una società migliore. Ma ciò che più mi ha lasciato perplesso è stato sentire affermare da molti che il miglior modo di valutare la scienza sia guardare al passato e in particolare ai progetti che hanno prodotto un maggiore impatto socio-economico. Come se il futuro migliore per la società potesse essere il frutto di quello che ha funzionato bene nel passato, decisamente in contraddizione con il concetto di progresso creativo proprio della scienza. Sono invece convinto – o meglio, mi auguro – che i meccanismi economici del futuro non siano gli stessi del passato e quindi, se da un lato non credo che facciamo del bene all’economia basandoci su vecchi schemi e metodologie, sono ancora più preoccupato delle ripercussioni di questo approccio per quanto riguarda l’aspetto sociale. Una società basata sul feedbackdel passato non può far altro che omologarsi sempre più, seguendo un processo che non è detto porti ad una società migliore e più evoluta.
Il film Blade Runner del 1981 descrive una futuristica Los Angeles ambientata nel 2019, popolata da robot umanoidi ossessionati dalle loro coscienze, che probabilmente arriveranno solo fra decine di anni, di uomini che camminano con la televisione davanti al volto, mentre oggi gli smart-phone vanno ben oltre questa funzione, ma descrive anche un futuro in cui Harrison Ford deve fare una telefonata e per farla usa una cabina telefonica, oggetto oramai scomparso dalle nostre città. Questo per dire che il futuro è imprevedibile: lasciamo dunque il passato alla storia e alla scienza il compito di scrivere il romanzo del futuro.
NOTE
(2) E. Brynjolfsson, A. McAfee La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, 2015, ISBN: 8807172887
(3) Samir Okasha, Il primo libro di filosofia della scienza, 2006, ISBN: 8806181068
Fonte: Micromega online - La Mela di Newton
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