di Gianfranca Fois
I migranti che lavorano in Italia producono 127 miliardi di Euro di ricchezza, praticamente come l’intero fatturato FIAT. Il contributo economico dell’immigrazione si traduce in 7 miliardi di Irpef versata – evidenzia la Fondazione Moressa nel suo rapporto annuale presentato in questi giorni – da oltre 550 mila imprese straniere che producono in Italia, ogni anno, 96 miliardi di valore aggiunto. Di contro, la spesa destinata agli immigrati è pari al 2% della spesa pubblica italiana.
Basterebbero questi pochi numeri per capire che l’Italia ha bisogno dei migranti per tenere in equilibrio il suo sistema pensionistico, anzi ce ne vorrebbero decisamente di più. Il nostro paese ha infatti una popolazione sempre più vecchia e il tasso di natalità è uno dei più bassi al mondo.
Eppure non bastano nemmeno questi dati egoistici per rendere l’accoglienza e l’inclusione dei rifugiati e dei così detti migranti economici organizzate e condivise. Sicuramente la situazione è complessa e chiama in causa molteplici aspetti politici, sociali, economici e culturali che impediscono di affrontare in modo adeguato quella che, dopo vent’anni, non possiamo certo chiamare emergenza ma che continuiamo ad affrontare come tale.
I recenti episodi che si sono verificati in Sardegna mostrano che il razzismo, come ugualmente l’omofobia, il mancato rispetto dei disabili, di chi si trova in uno stato di fragilità, anche economica, sta facendo proseliti pure in Sardegna e fra diversi strati della popolazione. A Burcei e Monastir c’è stato il tentativo di bruciare le case di accoglienza per i migranti mentre a Cagliari famiglie di professionisti hanno ritirato i propri figli, frequentanti una scuola privata cattolica, per la presenza in classe di due bambini migranti. E desta maggior costernazione, forse, la decisione dell’istituto di destinare un bagno ai bambini bianchi e uno ai due piccoli africani. Tutto ciò in un paese che si definisce civile e democratico.
Cerco di indicare, schematicamente, alcune cause di questo arretramento culturale. Innanzi tutto c’è la paura atavica di chi è diverso da noi, è una paura che in genere l’educazione e la cultura spazzano via facendo anzi scoprire la ricchezza della diversità. Ma allora forse non è un caso se in Italia, dati Istat 2015, quasi 6 Italiani su 10 non leggono nemmeno un libro, un italiano su 5 non pratica alcuna attività culturale, più della metà degli Italiani non legge i giornali e accede solo all’informazione televisiva. Una situazione che mette l’Italia agli ultimi posti in Europa in questo settore.
In secondo luogo bisogna riflettere sul ruolo dell’informazione. Titoli e articoli pieni d’odio raccontano vere e proprie bufale o notizie distorte per suscitare rancore ed esasperazione. Lo stesso accade in alcune trasmissioni costruite sulla contrapposizione tra migranti privilegiati e Italiani in difficoltà, mentre si tace sulle realtà di collaborazione, lavoro e interazione fra migranti e Italiani.
E’ un discorso che vale per i social e anche per i politici che speculano sulle paure anziché individuare strategie per affrontare la situazione, per favorire comunità capaci di vivere insieme, perché questo è il compito della politica.
Un terzo elemento è costituito dalla crisi economica mondiale. Sicuramente la disoccupazione, lo sfruttamento, la precarietà lavorativa e quindi esistenziale creano nelle persone frustrazioni, mancanza di prospettive, paure per sé e per i propri cari. Questo porta, se supportato da incitazioni all’odio e da incapacità politica, a ricercare un capro espiatorio che ai nostri giorni è spesso il migrante, ieri è stato l’ebreo, ma lo siamo stati anche noi Italiani all’estero.
Tanti invece sono i modi, alcuni anche a costo zero, che in diverse parti d’Europa sono adottati per creare reti di rapporti fra cittadini e migranti. Uno è documentato da un video di pochi minuti, prodotto da Amnesty International, che mostra come attraverso gli occhi, lo sguardo fra donne, uomini di ogni età, rifugiati ed Europei, seduti uno di fronte all’altro, dopo un’iniziale diffidenza giungano a un reciproco riconoscimento che può essere la base per ulteriore conoscenza e solidarietà, con la scoperta che i punti in comune sono più numerosi delle diversità.
Un altro esempio è quello dei volontari tedeschi che hanno creato reti di sostegno che aiutano a risolvere le difficoltà quotidiane o burocratiche dei nuovi arrivati.
Per questo tutti gli inserimenti dei rifugiati e dei migranti in generale devono nascere dal coinvolgimento dei cittadini ospitanti e degli stessi migranti attraverso modi e strategie che la politica e le istituzioni devono inventarsi, ma ci sono già numerosi esempi da adattare alle varie realtà creando presupposti per l’accoglienza, per la conoscenza reciproca e per un inserimento rispettoso dei diritti di tutti.
Non si possono scaricare, senza adeguato controllo, sulle cooperative, talvolta con personale scarsamente preparato e motivato, ruoli che lo Stato deve gestire in prima persona con personale qualificato e con politiche sociali e del lavoro nazionali.
Certo non si tratta di un fenomeno di facile soluzione, le difficoltà sono tante e i tempi lunghi ma è la sola via che abbiamo perché nessun muro può fermare chi fugge da paesi dominati da guerre, dittature e fame.
Fonte: Il manifesto sardo
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