La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 24 ottobre 2016

Lo scandalo di Ramuscello. Pasolini omosessuale comunista

di Paolo Desogus
In occasione del quarantennale della morte di Pasolini si è aggiunto alla sterminata bibliografia a lui dedicata un nuovo studio ad opera di Anna Tonelli intorno allo scandalo di Ramuscello e all’espulsione dell’autore dal Pci (Per indegnità morale. Il caso di Pasolini nell’Italia del buon costume, Bari, Laterza). Il volume, che si avvale degli strumenti della ricerca storica e offre alcuni nuovi dati alle numerose biografie[1] e agli studi che si sono occupati della vicenda[2], consente diversi tipi di lettura. Quella di Tonelli non vuole essere infatti solo una ricerca sulla vita del poeta friulano; essa è anche il tentativo di un’indagine sul costume dell’Italia tra il secondo dopoguerra e l’epoca del boom economico attraverso Pasolini e gli scandali costruiti intorno alla sua vicenda.
A questa doppia lettura se ne inoltre associa una terza, dipendente dagli esiti dello studio non sempre soddisfacenti e, in certi momenti, persino fuorvianti. Il libro di Anna Tonelli – ed è su questo punto che vogliamo concentrarci – ci dice molto anche della ricezione attuale nella pubblicistica mainstream di Pasolini, dei modi di rappresentazione del suo lavoro di scrittore e intellettuale e della sua attività politica spesso segnata dal confronto con il Pci. Ci dice insomma molto dello strano destino di questo autore, della sua mitizzazione, dell’uso o, come forse sarebbe meglio dire, del consumo della sua figura.
Diciamo subito che le pagine migliori del libro di Tonelli sono le prime, dedicate agli anni della militanza di Pasolini. Vi vengono forniti documenti d’archivio che permettono di collocare con più precisione fatti che si conoscevano dalle testimonianze orali o da parziali ricostruzioni. Molto bella è in particolare l’analisi degli scontri del 1948 scoppiati in occasione del Lodo De Gasperi e ripresi da Pasolini ne Il sogno di una cosa (1962). Sono inoltre interessanti i riferimenti alle innumerevoli iniziative politiche alle quali l’autore ha partecipato e alla sua rapida crescita come dirigente politico, da segretario di cellula a quadro della federazione di Pordenone. A tutto questo poi si aggiungono alcuni riferimenti alla sua collaborazione con il settimanale di partito locale, Lotta e lavoro, alle iniziative culturali di cui è stato promotore e alla sua partecipazione in qualità di delegato comunista agli incontri internazionali, come il Congresso mondiale della pace di Parigi. Tonelli descrive inoltre con dovizia anche la fervida attività politica del poeta in occasione della campagna elettorale del 1948.
I limiti emergono con l’approssimarsi della ricostruzione al momento dello scandalo, su cui l’autrice fatica a dare una descrizione se non illuminante quantomeno illustrativa, e questo non solo nell’ottica dello studio dell’autore, ma anche in funzione storico-descrittiva. Vi è un paradosso nel libro: la serrata critica alla morale comunista, secondo Tonelli alla base dell’espulsione di Pasolini, allontana l’indagine dall’analisi dello scandalo e dalla valutazione delle questioni più problematiche relative alla sessualità dell’autore e del suo ruolo politico di dirigente locale e di insegnante. In maniera peraltro parziale, la stessa descrizione dei fatti avvenuti a Ramuscello viene affidata a un verbale dei Carabinieri, seguito solo da alcune osservazioni sulle date e sulla debolezza grammaticale del testo, senza l’aggiunta di alcun commento[3].
La tesi di Anna Tonelli è che Pasolini sarebbe stato espulso perché omosessuale; l’autrice per la verità ammette che nei documenti analizzati “non vengono mai usati direttamente i termini «invertito» e «omosessuale»”, ma a suo avviso “è implicito che tale carattere sia considerato una discriminante nel Pci”[4]. L’esplicitazione di questa discriminante è data da una seconda tesi più generale, che con lo scorrere delle pagine sembra essere il vero tema del libro, e cioè che il Pci sarebbe stato un partito essenzialmente omofobo, il quale, nonostante la contrapposizione politica, ha condiviso con la Democrazia cristiana una stessa concezione della morale e del costume dei suoi militanti. Non viene invece presa in considerazione l’ipotesi più immediata e cioè che l’espulsione sia stata decisa proprio per ciò che è avvenuto a Ramuscello nella tarda estate del 1949 e dunque per la masturbazione tra Pasolini e un quindicenne avvenuta in compagnia di altri tre minorenni, due di sedici e un altro di quindici[5].
È fuor di dubbio che nel primi anni del secondo dopoguerra per ragioni culturali, ma anche pratiche – gran parte della dirigenza comunista proveniva dalla Resistenza e dai terribili anni della clandestinità che prescriveva un comportamento assolutamente irreprensibile per non generare sospetti: gli omosessuali in epoca fascista erano infatti soggetti a schedatura –, la posizione del Pci rispetto all’omosessualità non si discostasse dall’opinione corrente della sua base e dal sentire comune, molto diverso da quello dell’Italia attuale. Ne è prova il linguaggio analizzato da Tonelli attraverso alcune affermazioni dei dirigenti comunisti, fra cui lo stesso Togliatti, tratte dalla stampa comunista, da cui emerge una concezione macchiettistica e degradante dell’omosessuale[6]. Nei partiti comunisti, così come nelle formazioni liberali europee (in paesi come la Francia e la Gran Bretagna, spesso considerati più avanzati dell’Italia, l’omosessualità era addirittura un reato), una seria riflessione sull’omosessualità arriverà solo più tardi, a partire dagli anni Sessanta.
Occorre d’altro canto dire che negli stessi anni l’omosessualità ha riguardato, senza conseguenze o attacchi moralistici provenienti dal partito, almeno un altro grande artista comunista, ovvero Luchino Visconti, che nel 1947 aveva persino ricevuto dal Pci i finanziamenti per girare il documentario da cui dopo è nato il film La terra trema[7] e che non ha mai mutato le proprie posizioni politiche. È lecito dunque dubitare che l’omosessualità di Pasolini abbia costituito una discriminante per il Pci. Non si spiegherebbe altrimenti – e di fatti Tonelli non formula alcuna ipotesi in proposito – il perché il poeta abbia dapprima scelto di militare in un partito così ostile agli omosessuali continuando a votarlo e a sostenerlo pubblicamente a ogni tornata elettorale anche dopo l’espulsione e sino a poco prima di morire[8]; né soprattutto, ammessa la discriminante omofoba, sarebbe comprensibile la scelta del Pci di consentirgli di scrivere in un suo settimanale («Lotta e lavoro») e di divenire in brevissimo tempo un dirigente di punta del Friuli, sebbene – come la stessa autrice riconosce – la sua omosessualità fosse nota[9]. E in ogni caso, limitando lo sguardo a quanto accaduto a Ramuscello, sarebbe davvero stato meno scandaloso se gli stessi fatti avessero riguardato quattro ragazze della stessa età?
Si consideri inoltre il contesto della realtà friulana, che Tonelli mette in secondo piano rispetto al tema del moralismo comunista. La denuncia dei Carabinieri nei confronti di Pasolini è probabilmente stata il frutto di una manovra partita dal parroco e dai dirigenti democristiani locali. È lo stesso Pasolini ad affermarlo in una lettera indirizzata a Ferdinando Mautino[10], ex capo partigiano delle brigate del Friuli, nonché tra i dirigenti comunisti che hanno deciso la sua espulsione[11]. Si tenga inoltre conto che, appena un anno prima, uno scandalo simile aveva riguardato un esponente democristiano, anche lui insegnante. Il fatto, per la verità ben più grave di quello di Ramuscello, aveva riguardato minorenni tra i dieci e i sedici anni ed era stato riportato con parole di fuoco dal settimanale «Lotta e lavoro», in cui scriveva Pasolini e che era all’epoca diretto proprio da Mautino[12]. Come si accennava, a questo poi si aggiungono i forti attriti tra lo scrittore e la chiesa locale: durante la campagna elettorale del 1948, Pasolini aveva più volte appeso dei manifesti murali di propaganda contro la Dc e in favore del voto ai comunisti proprio di fronte alla Chiesa di San Giovanni, la frazione di Casarsa in cui aveva sede la cellula comunista di cui era segretario[13]. La denuncia, arrivata peraltro pochi mesi dopo la scomunica papale dei comunisti, si direbbe dunque essere il frutto dell’acceso clima politico friulano e della durezza di quegli anni.
Certamente non si possono non rilevare da parte del Pci alcune responsabilità, come quella di aver proceduto all’espulsione non solo prima di una eventuale condanna, ma addirittura prima che cominciasse l’istruttoria, e in ogni caso senza concedere all’interessato alcuna autodifesa, di fatto abbandonandolo nel momento in cui perdeva per le stesse ragioni anche il posto di lavoro di insegnante alle scuole medie di Valvasone. Dalla testimonianza di Teresina Degan – che Tonelli per ragioni oscure non considera completamente attendibile –, ovvero l’unica esponente comunista che prese le difese di Pasolini contro l’espulsione, emerge inoltre che la decisione fu mossa da un’impulsiva richiesta della base e non dettata da una più cauta analisi di quanto accaduto, portando i dirigenti a soccombere alla macchinazione esterna della Dc locale[14].
Ora, se l’insieme dei fatti, molto più che la fragile tesi dell’omofobia, aiuta a ricostruire il quadro politico e culturale, poco o nulla ci dice di Pasolini, della sua sessualità, del suo problematico amore per i più giovani. Alberto Arbasino, riferendosi ad altri aneddoti intorno al poeta, ha parlato senza mezzi termini di pedofilia[15]. Si tratta di un’accusa molto grave e – a parere di chi scrive – ingiusta, se non altro perché non aiuta a comprendere la sessualità di Pasolini. Certo è che Arbasino, sicuramente non imputabile di compromissioni politiche con il Pci, non manca di schiettezza; non solo, le sue parole liberano da qualsiasi ipoteca moralistica il discorso intorno alla sessualità di Pasolini. Allo stesso modo anche Marco Belpoliti, forse il più attento e scrupoloso studioso dello scandalo di Ramuscello, non cerca scappatoie, né si serve della vicenda politica per coprire e ridimensionare lo scandalo. Per Belpoliti la sessualità di Pasolini, insieme alla sua dimensione scandalosa, ha infatti dei forti riflessi nella sua letteratura, nel suo fare poesia: rappresenta una sua componente inemendabile[16].
È a questo proposito interessante osservare che nella lettera che Pasolini spedisce a Ferdiando Mautino, pochi giorni dopo l’espulsione, c’è un brevissimo passaggio che raramente è stato esaminato. Anche Anna Tonelli, che dal testo riprende in particolare l’accusa di “disumanità” contro i dirigenti friulani, non sembra averci prestato attenzione. Verso la fine della lettera, poco prima di congedarsi, Pasolini scrive: “Vi auguro di lavorare con chiarezza e passione; io ho cercato di farlo”[17]. La frase riletta alla luce del corpus letterario pasoliniano è estremamente eloquente. Come ha rilevato Rinaldo Rinaldi, in quelle parole risuona la dicotomia su cui si articola la poetica pasoliniana[18]. Da un lato la chiarezza, che nel corso degli anni Cinquanta e in particolare nel celebre poemetto Le ceneri di Gramsci assume la forma dell’ideologia; dall’altro la passione, che riguarda la tensione verso l’altro, verso il sentire del subalterno, verso la sua corporeità[19].
Si tenga anche conto del fatto che la passione è un tema che ricorre frequentemente anche nella riflessione gramsciana, sebbene con alcune significative differenze. Secondo il pensatore sardo, l’intellettuale marxista – ovvero colui che sa e ha il privilegio della coscienza storica – deve trovare con il proletario – con colui che sente e che vive il dramma della storia – una forma di unione, di relazione capace di tenere insieme sapere e sentire, ideologia e vita: “non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione”[20]. In Pasolini la connessione sentimentale viene tuttavia portata alle estreme conseguenze. La passione trasborda fino a fare propria la dimensione erotica del rapporto con l’altro, tanto da assumere un carattere prepolitico che genera una bruciante lacerazione con l’ideologia: “con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere”[21] scrive Pasolini nel suo poemetto più famoso, rivolgendosi proprio a Gramsci.
Lo scandalo di Ramuscello si colloca esattamente nelle buie viscere, nel lato irrazionale che compete con la chiarezza, con la “luce”, con l’ideologia. Nessun maldestro tentativo di rimozione o di normalizzazione può riconciliare queste due componenti. Lo scandalo, il desiderio, insieme all’operosità politica, sono un elemento portante del pensiero pasoliniano: costituiscono un luogo che l’autore ha conosciuto in prima persona e che ha successivamente riportato nella sua opera. Non è un caso che molti dei protagonisti della sua opera somiglino e abbiano in molti casi persino l’età dei ragazzi conosciuti a Ramuscello. Attraverso di loro, la loro parola, il loro sguardo, il loro modo di sentire e vivere la vita, Pasolini cerca di afferrare il reale, di conferigli una natura letteraria o cinematografica. Nella sua opera l’evento poetico ha dunque un’origine impura, fisica, viscerale inemendabile, prepolitica.
L’ultimo terzo del libro di Anna Tonelli è dedicato al rapporto tra Pasolini e il Pci tra gli anni Cinquanta e Sessanta. È forse in queste pagine che l’autrice mostra le maggiori difficoltà nei confronti dell’autore e del contesto letterario di cui tenta di dare una lettura. Viene infatti a mancare il supporto documentario su cui invece si articolava positivamente la prima parte del testo. Il rapporto tra Pasolini e il Pci vi viene rappresentato attraverso una schematica polarizzazione che oppone lo scrittore ai (presunti) censori del “realismo socialista”, incapaci di riconoscere il vero valore letterario della sua opera. Posta la questione in questi termini non ha potuto ovviamente trovare spazio non soltanto la discussione letteraria e politica tra l’autore e il Pci, ma nemmeno un qualche riferimento a quella parte della critica comunista che negli anni Cinquanta ha invece apprezzato Pasolini, specie Una vita violenta o la raccolta delle Ceneri di Gramsci. Del resto tale concessione non solo avrebbe messo in discussione la schematica contrapposizione tra Pasolini e il Pci, ma avrebbe esposto l’opera dello scrittore a un giudizio coerente con il modello zdanoviano e dunque stalinista, che in maniera molto discutibile, secondo Tonelli, informava l’estetica comunista in Italia. In tutti i casi per dimostrare la debolezza di una simile semplificazione è sufficiente sfogliare proprio la raccolta delle Ceneri di Gramsci, al cui interno sono presenti alcune dure critiche alla dirigenza del Pci – come ad esempio il poemetto Picasso –, le quali non hanno tuttavia impedito al famigerato Carlo Salinari, curiosamente assunto da Tonelli a detrattore di Pasolini, di considerare la raccolta “il primo libro di poesia della nuova generazione veramente importante”[22].
Ora, al di là delle contraddizioni cui portano le facili banalizzazioni, questa arbitraria polarizzazione tra autore e critica è il sintomo di una duplice tendenza radicata nella pubblicistica mainstream così come nell’attuale dibattito politico. Essa da un lato abusa della vicenda biografica di Pasolini per trasformarlo in mito commerciale, in personaggio normalizzato e martire purificato dei suoi profondi conflitti; di fatti, quasi tutta la letteratura più recente riguarda la sua vita e la sua attività giornalistica, da cui non di rado viene fatta ricavare l’immagine di una sorta di “giustiziere” contro la classe politica o contro le ipocrisie del costume. Dall’altro assesta i propri colpi al principio di mediazione della critica letteraria e in generale della ricerca politicamente orientata, e porta avanti questo attacco attraverso una lotta senza quartiere al lascito culturale del Pci, del resto oramai considerato ingombrante persino dai suoi eredi. Non si tollera infatti che la politica possa immischiarsi in questioni culturali; ogni suo giudizio viene percepito come un’invasione di campo, ogni sua critica è un abuso o un atto censorio. A ben vedere, si tratta del riflesso di una concezione negativa e post ideologica della politica, la quale non deve intromettersi nei destini individuali e collettivi, ma ha il mero compito di definire la cornice esterna dei rapporti tra privati[23]. Nella critica letteraria questa visione tipicamente neoliberale ha degli effetti niente affatto trascurabili. Nei grandi canali di comunicazione il suo compito non è infatti più quello di offrire una mediazione tra opera e lettore o tra autore e società, ma è oramai per lo più celebrativo e solo apparentemente a-ideologico. A parte rare eccezioni, la riflessione sugli autori e la letteratura che invece intende individuare nelle opere un punto di vista sul mondo è oramai confinata nelle riviste specialistiche o nei convegni frequentati pressoché esclusivamente da accademici.
Certo, qualsiasi riferimento all’epoca dell’engagement e dunque a quella fase del secondo dopoguerra in cui la politica culturale socialcomunista proponeva una visione positiva della politica assegnando alla letteratura il compito di elaborare la coscienza delle classi subalterne, deve tenere conto delle grandi difficoltà nel rapporto tra libertà autoriale e indirizzo politico. In particolare quello tra il Pci e gli esponenti della cultura italiana è stato segnato da rotture traumatiche e da difficili e lente ricomposizioni. E tuttavia vale la pena di chiedersi se quell’eredità non possa essere ugualmente feconda in un’epoca come quella attuale in cui l’egemonia neoliberale avanza senza trovare alcun argine, né politico, né culturale.
Del resto l’idea di costruire una linea difensiva contro il capitalismo è il senso del Pasolini degli anni Settanta che tenta una disperata alleanza con il Pci, da lui definito “un paese nel paese”, ovvero “un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico”[24]: un paese insomma carico di valori positivi riguardati il destino sociale delle classi popolari. Contrariamente a quello che si vorrebbe far credere attraverso la sua immagine mitizzata e depurata dei suoi aspetti più scomodi, come appunto la sessualità e l’amore per i giovani, Pasolini non concepisce mai la lotta politica al di fuori del principio di mediazione elaborato anzitutto dal Pci sin dal dopoguerra: “credo alla politica, credo nei princìpi «formali» della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista”[25].
Nel libro di Anna Tonelli non solo manca qualsiasi riferimento a quest’ultima fase politica dell’autore, ma viene persino adombrata l’ipotesi di un Pasolini che per le sue posizioni di critica alla società capitalistica e la modernità emersa dal miracolo economico sarebbe estraneo al patrimonio culturale della sinistra storica[26]: un Pasolini insomma tanto più lontano dalla contesa politica, quanto più astratto e scarsamente incisivo. È tuttavia molto eloquente quanto dichiarato dall’autore: “Voto comunista perché questi uomini diversi che sono i comunisti continuino a lottare per la dignità del lavoratore oltre che per il suo tenore di vita: riescano cioè a trasformare, come vuole la loro tradizione razionale e scientifica, lo Sviluppo in Progresso”[27]. Quello che qui è interessante non è tanto la dichiarazione di voto, di cui del resto non mancano numerosi altri esempi[28], quanto il senso politico della chiara presa di posizione dell’autore nell’area della sinistra. La tradizione che secondo Pasolini sarebbe in grado di trasformare lo sviluppo in vero progresso, e dunque di combattere la modernità prodotta dalla società dei consumi, è infatti quella marxismo di Gramsci, è quella del partito popolare di massa costruito dal dopoguerra, ovvero dell’intellettuale collettivo che, nel quadro democratico e parlamentare, intende elevare le classi subalterne a soggetto del conflitto politico.
Tutto questo naturalmente non cancella quel carattere contraddittorio della personalità di Pasolini. In lui la tensione politica convive con la pulsione passionale, con esiti però illuminanti. Quello che infatti sorprende dell’ultimo Pasolini è come questa sua componente irrazionale assuma sempre più un valore conoscitivo. L’Italia di fronte ai suoi occhi cambia perché egli percepisce il mutamento dei corpi, sente il loro assoggettarsi a modelli culturali omologanti, coglie attraverso di loro l’alienazione e la mutazione antropologica prodotta dal neocapitalismo. Pasolini proprio per questo è tra i primi in Italia a denunciare il carattere biopolitico del potere neocapitalistico.
Contro ogni tentativo di normalizzazione o di ridurre la sua vicenda politica ed esistenziale a piccola cronaca, occorre dunque assumere Pasolini nella sua complessità, nella sua contraddittorietà di intellettuale che si muove nella storia – e in particolare in quella nata dalla Resistenza –, ma si sporge anche al di fuori di essa, in ciò che persiste alle sue trasformazioni: in quel tratto dell’umano abitato dalle passioni più laceranti e scandalose.

[1] Mi limito a segnalare Laura Betti (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Milano, Garzanti, 1977; Nico Naldini, Pasolini, una vita, Torino, Einaudi, 1989; Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Milano, Mondadori, 2005.

[2] Cfr. in particolare Marco Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, Parma, Guanda, 2010; Id., “Gli atti impuri di Pasolini” in Sergio Luzzato & Gabriele Pedullà, Atlante della letteratura italiana. III. Dal romanticismo ad oggi, Torino, Einaudi, 2012.

[3] Anna Tonelli, Per indegnità morale. Il caso di Pasolini nell’Italia del buon costume, Bari, Laterza, 2015, p. 64.

[4] Ivi, p. 76.

[5] La descrizione più esauriente di quanto avvenuto a Ramuscello è di Marco Belpoliti, “Gli atti impuri di Pasolini”, cit., pp. 764- 769.

[6] Altri esempi sono stati forniti da Mario Spinella, scrittore e dirigente comunista, nonché segretario di Palmiro Togliatti, in “Compagno non compagno” in Betti, op. cit., pp. 339-353.

[7] La complessa vicenda produttiva è riportata da Gianni Rondolino, Luchino Visconti, Torino, Utet, 2003, pp. 196-200.

[8] Come Pasolini afferma nell’intervento che avrebbe dovuto pronunciare in occasione congresso Radicale avvenuto poco dopo la sua morte: “Sono qui come marxista che vota PCI”, Pier Paolo Pasolini, “Il suo testamento”, «Il Mondo», 13 dicembre, con il titolo “Intervento al congresso del Partito Radicale” in Id., Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1975, ora in Id., Saggi sulla politica e la società, Milano, Mondadori, 1999, p. 706.

[9] Anna Tonelli, op. cit., p. 63.

[10] Pier Paolo Pasolini, Lettere. 1940-1954, Torino, Einaudi, 1986, p. 368.

[11] Ferdinando Mautino è anche l’autore dell’articolo comparso nelle pagine locali de «L’Unità» in cui vengono spiegate le ragioni dell’espulsione di Pasolini e dove compare l’accusa di “indegnità morale” che ha dato il titolo al volume di Tonelli, “Espulso dal P.C.I. il poeta Pasolini”, «l’Unità» [edizione dell’Italia settentrionale],

29 ottobre 1949. Nel 1977, quando con il volume Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, curato da Laura Betti, l’espulsione diverrà oggetto di dibattito, Mautino rilascia un’intervista dove ribadisce la fondatezza della sua decisione in «L’Espresso», n.42, 23 ottobre 1977, p. 77.

[12] L’esponente democristiano Antonio Merlo viene definito “un porco, un depravato, un pervertito, uno specialista corruttore di minorenni”, non firmato, «Lotta e Lavoro», 12 settembre 1948.

[13] In una lettera a Silvana Mauri del Marzo 1949, Pasolini scrive: “Lavoro molto anche in campo politico; come sai sono segretario della Sez. di San Giovanni, e ciò mi impegna molto, con conferenze, riunioni, giornali murali, congressi e polemiche coi preti della zona che mi calunniano dagli altari. Per me il credere nel comunismo è una gran cosa” Pasolini,Lettere. 1940-1954, cit., pp. 353-354.

[14] La lettera di Teresa Degan, datata Pordenone, 6 febbraio 1976 e indirizzata a Mario Lizzero, è riportata integralmente da Betti, op. cit. p. 43.

[15] Riferendosi a Pasolini, Arbasino afferma: “Sì. Era pedofilia, ma era anche un termine che allora non esisteva. Non c’era. Si tratta di un termine usato dopo” in Marco Belpoliti, “Arbasino parla di Pasolini”, «Doppiozero», 15 settembre 2014, ultima consultazione 16 settembre, 2016 (http://www.doppiozero.com/materiali/interviste/arbasino-parla-di-pasolini).

[16] Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, cit., p. 96.

[17] Pasolini, Lettere. 1940-1954, cit. p. 369.

[18] Rinaldo Rinaldi, Pier Paolo Pasolini, Milano, Mursia, 1982, p. 97.

[19] Mi si permetta di segnalare Paolo Desogus, “Lo scandalo della coscienza: Pasolini e il pensiero antidialettico” in Raoul Kirchmayr (a cura di), Pasolini e il “politico”, Venezia, Marsilio, 2016 (in uscita).

[20] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Torino Einaudi, 1975, q. 11, § 67, p. 1505.

[21] Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti, 1957, ora in Id. Tutte le poesie, Vol. I, Milano, Mondadori, 2003, p. 820.

[22] Ecco la citazione completa tratta dalla recensione di Carlo Salinari a Le ceneri di Gramsci, “Pier Paolo Pasolini con le sue Ceneri di Gramsci avrebbe dovuto vincere senza sforzo uno qualsiasi dei numerosi premi destinati alla poesia. Ora che abbiamo il libro tra le mani e ci troviamo sotto li occhi […] il meglio della produzione poetica del giovane bolognese dal 1951 a oggi, non possiamo che confermare quel giudizio. E anzi aggiungere qualche cosa: che è il primo libro di poesia della nuova generazione veramente importante”, “La poesia di Pasolini” [1957], in Preludio e fine del realismo in Italia, Napoli, Morano, 1967, p. 139.

[23] Cfr. Claudio Bazzocchi, Il fondamento tragico della politica, Diabasis, Reggio Emilia, 2009.

[24] Pasolini, “Che cos’è questo golpe”, «Corriere della Sera», 14 novembre, con il titolo “Il romanzo delle stragi” in Id.,Scritti corsari, Milano, Garanti, 1975 ora in Id., Saggi sulla politica e la società, cit., p. 365.

[25] Ivi, p. 367.

[26] Tonelli, op. cit., p. 98.

[27] Pasolini, “Il mio voto al Pci”, «l’Unità», 10 giugno 1975, ora in Id. Saggi sulla politica e la società, cit. p. 852.

[28] Non essendo stata inclusa nelle opere complete dei Meridiani, mi limito a segnalare la dichiarazione di voto per le elezioni del 1963, rilasciata per un’inchiesta del Partito radicale e a cura di Elio Vittorini, Marco Pannella e Luca Boneschi. Il testo, intitolato “Voto comunista” (in Il voto radicale, S.E.T.I., 1963), è particolarmente interessante perché al suo interno Pasolini tenta una riflessione sullo stalinismo.

Fonte: Le Parole e le Cose 

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