di Sarantis Thanopulos
Eugenio Scalfari ha scritto recentemente che l’oligarchia è la sola forma accettabile di democrazia. La gestione democratica degli interessi comuni sarebbe un affare di pochi eletti: la «classe dirigente». Scalfari vede la democrazia come equilibrio tra le élite che amministrano i diversi poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario, economico, sindacale, informativo. La dissocia, di fatto, dalla Polis, la città governata dai suoi «cittadini», e cita Pericle a sostegno della sua tesi.
La Polis si fonda sulla differenza tra apparati gestionali e istituzioni, sulla capacità di queste ultime di rappresentare i valori comuni dei cittadini, sul carattere collettivo (diretto e indiretto) delle decisioni e, soprattutto, sulla società civile. Espressione della massima apertura democratica della Polis, la società civile è il luogo in cui le differenze individuali e gruppali, politiche, lavorative e culturali, si incontrano in un gioco di scambi paritari sul piano dei desideri, dei sentimenti e delle idee.
Pericle ha inferto un colpo importante all’oligarchia, allargando la partecipazione al governo della città ai cittadini che ne erano esclusi e introducendo modalità di controllo più efficaci sull’operato di coloro che coprivano cariche elettive. Più che essere l’artefice di un processo trasformativo, egli ha rappresentato, interpretandolo in modo efficace, un punto di momentaneo equilibrio nella transizione dal potere di pochi al potere del demos. Il contributo migliore della sua epoca è stato la realizzazione di uno spazio di convivenza dialogante, in cui emozioni e pensieri diversi potessero diventare complementari, non ignorando le contraddizioni, ma giovandosi della loro tensione.
La tessitura della società civile come saggezza del vivere condivisa, frutto della sedimentazione di fermenti, passioni, affetti, intuizioni e visuali plurali, è l’eredità vera che la democrazia ateniese ci ha lasciato.
Il conflitto/opposizione tra società civile, fondata sulla fraternità dei cittadini e sull’eros, e la legge come espressione pura di rapporti di potere, che ha trovato in Antigone la più paradigmatica delle sue messe in scena, definisce l’incompatibilità irriducibile tra la democrazia e l’oligarchia. L’infatuazione di Scalfari per l’oligarchia, non ha ragioni politiche bensì psicologiche, come in Platone (il vero punto di riferimento di ogni concezione elitaria della gestione del potere).
Il governo della Polis fondato su soluzioni elaborate da esperti sapienti è in contrasto con la vita vera. Tra ciò che si riesce a conoscere e ciò che effettivamente si vive c’è sempre una distanza. La conoscenza coglie la vita rallentando, necessariamente, il suo fluire, per cui trasformata in dottrina ideale dell’agire collettivo diventa opprimente, costrittiva. L’ideale deve restare separato dall’azione, per natura imperfetta e incompiuta nel suo divenire: serve a mantenerla sperimentale, aperta tra il suo effettivo svolgimento e la sua evoluzione potenziale.
La pretesa che l’ideale si impossessi della realtà, indica una riserva nei confronti dello sconvolgimento, della trasformazione del nostro modo di essere di cui l’altro, co-significante della nostra presenza nel mondo, è foriero. Non è un caso che Platone detestasse i poeti tragici e la loro concezione dell’esistenza che diffidava del vivere esemplare, chiuso in se stesso, e si fondava sull’imperfezione dell’esperienza vissuta. La funzione della società civile come pilastro principale della democrazia, poggia sul fatto che nessuna verità può vivere avulsa dalla sua alterità, da ciò che la contraddice.
Fonte: Il manifesto
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