di Marco Bertorello
Un paio di settimane fa, in un convegno dal significativo titolo «Obbligati a crescere», il ministro per lo sviluppo economico Carlo Calenda ha affermato che «non c’è più una sede in cui si discute di commercio internazionale. Il Wto non va, gli accordi internazionali non vanno, non ci sono più strumenti e luoghi dove si fa governance» e poi ha aggiunto una previsione secondo cui nel 2017 gli scambi commerciali subiranno un «crollo». Queste dichiarazioni sono passate un po’ in sordina, ma meriterebbero maggiore attenzione.
Non accade sovente che un ministro azzardi toni cosi allarmisti e perentori. In effetti gli scambi commerciali, dopo un prolungato periodo in cui sono costantemente cresciuti, sono crollati immediatamente con l’esplodere della crisi e ora ristagnano da quasi due anni.
Non accade sovente che un ministro azzardi toni cosi allarmisti e perentori. In effetti gli scambi commerciali, dopo un prolungato periodo in cui sono costantemente cresciuti, sono crollati immediatamente con l’esplodere della crisi e ora ristagnano da quasi due anni.
In passato le crisi locali avevano condotto a una contrazione degli scambi circoscritta e soprattutto sempre abbondantemente compensata da tendenze complessive. Oggi tale meccanismo di compensazione generale non è dato. Negli ultimi 15 anni Cina e India hanno visto crescere vistosamente i loro scambi, superando in volume prima gli Usa e poi l’Eurozona, ma tale tendenza è andata sfumando nell’ultimo anno a partire dalle difficoltà registrate in Cina a metà del 2015. Nei paesi occidentali spicca la tendenza allo stallo, specie in Giappone e nei periferici del Vecchio continente. In particolare il tasso di crescita del commercio internazionale è inferiore a quello del Pil, non lasciando prevedere facili vie d’uscita. Il Wto negli ultimi 2 anni ha registrato politiche commerciali tese al 70% verso provvedimenti protezionistici e al 30% verso un aumento del grado di liberalizzazione. Le nuove tendenze sono piuttosto articolate, dagli aiuti pubblici diretti a salvare imprese manifatturiere o finanziarie, fino al ritorno dei tradizionali dazi, come quelli recentemente approvati sull’acciaio cinese da Usa ed Europa (i primi li hanno addirittura alzati di oltre il 500%). Va aggiunto che ai tradizionali scambi commerciali si sostituisce il crescere di investimenti diretti esteri delle imprese che frammentano e regionalizzano i mercati, finendo per dare vita a ulteriori spinte centrifughe. In ogni caso non va scambiato l’ordine dei fattori, è il contesto stagnante che favorisce politiche protezionistiche a causa del perdurare di un quadro iper-competitivo piuttosto che il contrario. Il volume degli scambi si riduce, finendo per far intervenire scelte difensive. A ciò va aggiunta, in particolare nei paesi più ricchi, una crescente pressione politico-culturale verso la tutela delle postazioni socio-economiche ancora esistenti. Così si spiegano le difficoltà a raggiungere nuovi accordi internazionali come il Ttip tra Usa ed Europa.
Tali scelte, infine, determinano effetti a catena, come la contrazione del 10% delle esportazioni cinesi nel mese di settembre, che appaiono il risultato da un lato della messa a regime per i nuovi dazi e dall’altro della contrazione della domanda dei paesi tradizionalmente importatori. Nel complesso problemi di ordine sistemico che fanno intravvedere una riduzione del tasso di internazionalizzazione dell’economia e un suo ripiegamento.
Il ministro Calenda solleva un problema di governance globale, Immanuel Wallerstein rileva invece che le difficoltà cicliche dell’economia di mercato finora sono state affrontate con un passo indietro e due avanti, mentre ora la spinta propulsiva sembra esaurita, come se in gioco fosse la capacità storica di sopravvivere del sistema. Vedremo. Di certo quello che sta avanzando è perlomeno un deciso cambiamento dei connotati del contesto economico a cui eravamo abituati. Segnali di deglobalizzazione che circoscrivono la ormai tradizionale globalizzazione.
Fonte: il manifesto
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