La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 22 ottobre 2016

L'ora di di congedarsi da Wittgenstein

di Marco Mazzeo
Diversi sono i modi per uccidere l’uso. Mi limito a rammentarne due. Il primo riduce l’uso ad applicazione automatica. A questo modello d’impiccagione ha lavorato con zelo il più autorevole linguista vivente, Noam Chomsky. L’impiego di parole e azioni è sempliceperformance meccanica, equivalente delle prestazioni organiche di un tubo digerente o di un occhio sensibile a onde luminose. «Uso» significherebbe applicazione di istruzioni genetiche funzionali alla specie, perché gli altri aspetti della questione sono da consegnare al mistero. La nozione fa la figura del cadavere sul tappeto che tutti notano giusto il tempo per schivarne l’ingombro.
Si prenda un recente libro-intervista del linguista americano, nonché intellettuale di esplicite simpatie anarchiche. Circa l’uso Wittgenstein avrebbe «evitato il problema»1, poiché si sarebbe concentrato «solo sul modo in cui usiamo il linguaggio [sic!]»2 e non sullo studio dei suoi fondamenti cognitivi e innati. Peccato che poche pagine dopo si affermi che, anche se si trovasse l’operazione ricorsiva fondamentale alla base d’ogni parlare, il problema rimarrebbe: il linguaggio «come viene usato?»3. Per capirlo dovremmo partire dall’assunto che questa facoltà «è un po’ come il sistema digestivo, macina e produce cose che usiamo»4. Il linguaggio, però, non funziona affatto come il sistema digestivo. Lo stomaco non apprende ma funziona: il bambino nasce infante, cioè «privo di parola», ma già digerente. Esiste un uso metalinguistico delle parole («“aiuole” contiene le vocali dell’alfabeto», «come ti chiami?», «scemo chi legge»), non si dà applicazione metadigestiva dello stomaco, al massimo buchi d’ulcera.
Anche il secondo modo di uccidere l’uso riscontra simpatie anarchiche. Nei saggi di Giorgio Agamben emerge l’accostamento tra uso e contemplazione. La direzione di lavoro è opposta, il risultato simile. In un caso l’uso è ciò che funziona, in un altro coincide con un’astensione. In entrambe le circostanze si arriva a una neutralizzazione. In un caso l’uso fa tutto ma è indicibile. Nelle cento pagine del testo di Chomsky i termini «uso» e «impiego» compaiono più di sessanta volte, eppure non indicherebbero quel che conta. Nell’altro, l’uso sarebbe inoperoso. Alluderebbe a una sfera ultralinguistica nella quale si fa labile il confine tra il rinvenimento di un mondo verbale che vada oltre il presente e il vagheggiare una parola talmente diversa dall’attuale da non esser più neanche parola. In entrambe le circostanze l’uso prospetta una creatività sregolata che appartiene alla poesia, forse al genio. Insomma non a noi. Wittgenstein fornisce, spesso suo malgrado, gli strumenti per intraprendere una strada del tutto diversa. Per questo il suo lavoro filosoficomerita e richiede critica approfondita. A mo’ di conclusione potrebbe essere utile una scheda riepilogativa che fissi in modo icastico cosa intendere per «antropologia dell’uso». Ecco un breve manifesto di congedo che da Wittgenstein parta, nel doppio senso dell’espressione. La necessità di prendere le mosse da Ricerche filosofiche e dintorni è la stessa che spinge chi salpa verso lidi lontani a un congedo affettuoso ma risoluto.
1. L’uso fa il paio con il carattere maldestro dei sapiens5. Solo un animale poco destro non può far affidamento su «percorsi innati», così li chiamava il biologo estone6. Non essendovi precisi diktat genetici circa l’accoppiamento, l’animale maldestro usa la pulsione sessuale. Non potendo affidarsi a una missione della specie, i sapiens fanno uso di aromi. Non seguendo piste automatiche d’accoppiamento o percorsi chimici verso cibo ovviamente commestibile sorge il problema di aromi decadenti o progressisti, seducenti o repellenti, fedeli alla linea oppure no. Il biologo fa l’esempio della migrazione degli uccelli7. La rondine vola da un continente a un altro senza esitazione. Anche i sapiens migrano, tanto che la linea spaziale di fondo dell’antropogenesi è oggi chiamata dagli studiosi «Out of Africa», abbandono del continente d’origine. Nulla di più diverso tra la migrazione delle rondini e degli umani. La prima è percorso destro già da sempre, tracciato da un sistema semi-automatico d’orientamento. La seconda è ricerca, spesso sbandata e maldestra, di luoghi dove sostare adoperando quel che si trova e costruisce8.
2. Uso fa rima con apprendimento cronico. La mancanza di destrezza trova compagna gemellare nella necessità di quel che, con espressione minacciosa, il capitalismo contemporaneo chiama «formazione permanente». Il mondo dell’oggi deforma l’apprendimento cronico in illimitata dipendenza personale, servitù volontaria, prassi irriflessa al servizio d’altri. Ne confina l’uso nella figura di un operaio specializzato nel non esserlo. Involontariamente è proprio Chomsky a offrire immagine vivida del problema. Affermando che anche il tatto può essere il sostrato sensoriale per l’uso della grammatica universale, egli ricorda il caso dei sordo-ciechi. Celebrando le loro capacità si aggiunge che «però essi devono essere sottoposti a un riaddestramento costante»9. Poiché «non hanno feedback sensoriali», il modello più adatto per comprendere la loro vita sarebbe costituito da «un operaio specializzato dell’Iowa»10. L’operaio tipico dell’oggi, il lavoratore della conoscenza e del linguaggio, è simile al sordocieco che, privo di ritorni autonomi, ha bisogno di istruzioni continue. Perso il bastone bianco e la capacità deambulatoria, il cieco non è più effigie delle capacità di apprendimento umane ma della necessità di un ricondizionamento operativo senza fine. Al contrario, Wittgenstein mostra che l’apprendimento cronico dell’uso trova in una pratica comune e non normativa la più ampia via di articolazione. Non c’è solo l’operaio A che dice a B cosa fare. Esiste la possibilità d’uso che, con continue forme di ricalibratura, produce la strada da seguire. Pure se non si dispone di occhi prestanti, è sufficiente un bastone e l’apprendimento al cammino. Si segue la regola ciecamente, ricorda Wittgenstein, non perché i sapiens siano naturalmente proni al capetto di turno, ma perché anche un cieco può essere autonomo.
3. L’uso è legato a doppio filo a difficoltà superate e incombenti. Apprendimento cronico e «maldestrezza», per coniare un neologismo goffo come l’antropologia cui allude, legano tra loro grazie alla nozione di «difficoltà». Far uso della lingua significa esercitarsi circa difficoltà con le parole. Ipnotizzati dalla necessità (ovvia) di qualche vincolo biologico che consenta di parlare, è facile non vedere quanto per un bambino sia difficile proferir parola e quanto per un adulto rimanga difficoltoso gestire la lingua. Anche il più fluido dei «ciao» reca traccia di difficoltà passate o future. Etimologicamente il termine deriva dal latino sclavus, vale a dire «schiavo». È la storia della parola ad alludere, seppur con gentilezza, all’incombenza di una servitù passata o futura. Il saluto può rivelarsi improvvisamente inadeguato e rivelare una superficialità offensiva per chi, invece, nel giorno di Natale attende un augurio sentito o una parola in più. Imparare a gestire anche solo il saluto è, guarda caso, impresa non secondaria. Nella lingua italiana il termine «ciao» formalizza sia inizio che fine di un incontro. Quando ti saluto cosa faccio? Opero una toccata e fuga tutto preso dalle incombenze giornaliere oppure dichiaro l’inizio di un gioco linguistico nel quale discorrere della scuola, di Star Wars o di Viola che è proprio una peste? L’uso è difficoltà superata e pendente poiché ogni impiego, anche il più ovvio e automatico, consiste nel superamento parziale e provvisorio di farraginosi ingombri. L’uso ha una data di scadenza. Illeggibile ma certa.
4. L’uso condensa in sé sospensione attiva. Isolare l’aggettivo significa ridurre l’impiego ad azione operativa (Chomsky). Considerare il solo sostantivo porta all’inoperosità contemplante (Agamben). Nel primo caso l’uso muore travolto dall’analogia con la computazione macchinica; nel secondo va in cielo accolto dal gesto messianico di una «schiavitù alla seconda potenza»11. Al contrario, forma aurea dell’uso è la costruzione non solo di attrezzi e macchine, ricorda Wittgenstein, ma di metri e unità di misura. Ancora una volta è il biologo ad aiutare. L’animale trova nel passo specie-specifico la propria «unità di misura»12. Il «cane guida»13 accompagna il cieco per mezzo di marche percettive e operative che orientano il cammino d’ogni pastore tedesco. Anche gli umani danno spesso nome corporeo alle proprie unità di misura: pollici, piedi, palmi. Questa assegnazione fa riferimento a parti diverse del corpo, ognuna delle quali però indica lunghezze standardizzate frutto a loro volta di misurazione. Un pollice equivale a 2,54 centimetri. Non è un pollice qualsiasi, non è il pollice di chi in quel momento adopera le mani. Ciò vale nello spazio come nel tempo. Con il pollice non contemplo ma prendo le misure di una situazione; il calendario è il metro temporale con il quale organizzare la fuga dai debitori. Il metro-calendario non è operativo come la pressa da stampa poiché non produce nulla di separato dall’atto del misurare. Il metro-calendario non è contemplativo come l’osservazione di un panorama poiché opera nel mondo. L’uso propone unità di misura per campi focali, schermi ad alta definizione con i quali percepire e mettere in pratica sentimenti, passioni, capacità dei sapiens.
5. L’uso è il luogo di intersezione tra immaginazione e conflitto. Una endiadi diffusa nel linguaggio quotidiano confonde le acque apparentando estranei. Si tratta della formula «uso e consumo». Viceversa se uso non consumo, piuttosto confliggo. Caratteristica del consumo è di scorrere via liscio, privo di attrito e resti. La goduria di un McChicken al Fast food è l’immediata riconoscibilità visiva, aromatica e tattile indifferente alle latitudini; la mancanza di esitazione nell’ordine alla cassa; il gesto magico dello scartare una scatola già aperta. La goduria del suo consumo è che di esso non resta nulla. Viceversa si fa uso quando si può eseguire una variazione, immaginare una forma diversa, mescolare A con B sentendo la mancanza di qualcosa che non è A e non è B. Uso è confliggere non solo dentro un recinto di possibilità già dato ma contro ostacoli dai quali grattar via un nuovo campo immaginativo. Wittgenstein lo nota in una delle sue rare osservazioni circa l’attrito. Chi uccide l’uso lo fa per una ragione precisa: per lui «il conflitto diventa intollerabile». L’uso somiglia a un cammino che nel suo farsi traccia il sentiero, vale a dire la propria regola. Per camminare «abbiamo bisogno dell’attrito» ricorda Wittgenstein. Per questa ragione l’uso non è tale se distrugge, né se contempla. L’uso intacca: con il maneggio ripetuto costruisce la storia di corrosioni, lacerazioni, cambiamenti. Con l’uso si fanno meno visibili le tacche di riferimento incise sul goniometro; la parola italiana cardine della traduzione anni Sessanta delle Ricerche filosofiche («giuoco» per il tedesco Spiel) diventa effigie nostalgica di una lingua già diversa. L’uso produce la tacca in meno, così come la «u» di troppo. Se l’endiadi «uso e consumo» indica il collasso del primo termine nel secondo, l’espressione «usi e costumi» riporta su un terreno meno pregiudizievole. Certo, pure in questo caso la coppia congiuntiva cela una priorità logica. L’uso non accompagna – bensì dà forma – a costumi, ethos, abitudini, forme istituzionali. Il termine «costume», però, presenta il vantaggio di sottolineare implicitamente che abbiamo a che fare con qualcosa da cui si può prendere distanza. Un costume si può dismettere perché l’uso può sospendere. È verso questa sospensione dell’uso che Wittgenstein si mostra diffidente. Il risultato è la mortificazione di variazioni storiche e forme innovative dei giochi linguistici, filosofia inclusa. Questa sospensione dell’uso da parte dell’uso porta il nome di «immaginazione». È straniamento circa l’abitudine acquisita, è temporanea indistinzione tra empirico e grammaticale. La distinzione tra reale e possibile è messa in mora. Il reale retrocede a possibile, il bordo tra impossibile e possibile diviene poroso. Un simile potenziale immaginativo e conflittuale è sottolineato da due figure intrecciate. Il bambino spinge continuamente verso la sospensione di usi correnti: dice «memme» invece di «miele», «sghiaccia» al posto di «scongela»; adopera il bastone come flauto e il flauto in quanto bastone. Quello infantile è un uso conflittuale diffuso per punto d’applicazione, ma singolare per forma. È diffuso per punto d’applicazione perché è una spinta che si esercita sulla sfera pubblica a ogni livello: sulla lingua, su oggetti, sulla forma di vita in qualsiasi suo aspetto e senza alcun preciso obiettivo. È singolare per forma poiché l’uso sospensivo infantile non è legato alla presenza di altri bambini cui allearsi o cooperare. Che si stia a scuola o da soli, che si sia in compagnia di fratelli o estranei, l’infante spinge comunque verso usi stravolti, confligge contro quel che lo circonda.
Le vignette maligne di Wilhelm Busch hanno attirato l’attenzione tanto di Wittgenstein che del poeta Giorgio Caproni (1912-1990) per un motivo preciso. In quei bambini infestanti, negli scherzi forsennati di una infanzia pericolosa, si manifesta la spinta dell’uso contro le usanze, il contrasto tra l’infante e i dintorni. Questo tratto aggressivo è cifra dell’uso infantile, l’altra faccia delle sue potenzialità innovative. L’infanzia cronica dei sapiens non si contraddistingue per una creatività idilliaca, misteriosamente anticonformista. Il bambino, osserva chi nell’ospedale pediatrico di Paddington Green di infanti ne ha osservati sessantamila, «può usare l’oggetto» quando «l’oggetto sopravvive alla distruzione»14. Il bambino che strapazza il giocattolo, la lingua che scivola lungo il lastrico vocalico dell’italiano «aiuola», la disobbedienza di gambe in fuga al parco sono il lato pulsante nonché inquieto della tanto celebrata immaginazione infantile. Sono le forme con le quali l’infanzia mette alla prova se stessa e ciò che la circonda per mettere ordine a pulsioni debordanti, abilità non padroneggiate, indistinzione tra dentro e fuori. Per questo anche il più scalcinato dei parchi giochi può assumere una funzione immaginativa talmente elettrica da risultare perturbante. Il laboratorio ludico dell’«ora una cassa è una casa» è anche lo «Snack bar psichiatrico»15 nel quale la distinzione tra empirico e grammaticale è sospesa. Il bimbo può trattare immagini e pupazzi come esseri umani solo perché non ha troppe resistenze nel liquidare gli umani come fossero immagini o pupazzi. Gloria innovativa e maldestra dissonanza antropologica sono recto e verso della medesima diapositiva infantile. Disney vende perché edulcora la prima, Busch spaventa perché ricorda la seconda. Per questo motivo chi esalta in modo unilaterale la cooperatività innata del piccolo sapiens non può, lo sappia o meno, che recitare la parte di un Mickey Mousefilosofico.
Rispetto agli impieghi del bimbo l’uso operaio ha struttura speculare. Wittgenstein subisce il fascino degli operai che si scambiano lastre sublimando il loro potere conflittuale in un altro luogo, la prova matematica. L’operaio incarna un uso conflittuale che potremmo definire singolare ma diffuso. Singolare stavolta è il punto di applicazione. Mentre il bambino tende a stravolgere ogni parola e tutti gli utensili senza progetto (né individuale né collettivo), l’operaio mira a stravolgere oggetti circonstanziati. Quando è al lavoro cambia prodotti singoli; se mette in discussione i meccanismi della produzione lo fa secondo obiettivi dichiarati, esigenze specifiche, rivendicazioni storiche. Che si organizzi inUnions o meno, diffusa è la modalità formale del suo conflitto d’uso. Solo insieme i diversi usi operai possono costruire quanto immaginare le forme di cosa si produce, di come si produce e per chi lo si fa. Pure in questo caso la caricatura è in agguato. Da un lato c’è il Worker anglosassone che, angelico, rivendica giustizia universale contro gli interessi di classe; dall’altro l’Arbeiter germanico, anello tecnico della macchina16. Wittgenstein tenta la via d’uscita formata dalla congiunzione delle due caricature. Il risultato è un feticcio al quadrato chiamato «linguaggio quotidiano»: umani padroni di tecniche godono del fluire universale della vita d’ogni giorno. L’antropologia dell’uso mostra invece che la strada teorica meno improbabile vive nella logica della doppia negazione. Il bimbo non è nécreatura della cooperazione innata né adulto mancato; l’operaio non è né punitore equo e disinteressato né «milite ignoto […] del lavoro»17, più o meno fiero.
6. Concludo con una formula di particolare azzardo. Dell’intreccio di queste due figure chiave risentono diverse epoche storiche. Oggi siamo nel mondo dell’operaio infantile. Chi lavora deve assumere la postura produttiva tipica dell’operaio (salario per forza lavoro), facendo confluire in essa l’apertura di vita propria dell’infante. Per questo chi lavora deve essere creativo come un enfant prodige ma politicamente disorganizzato come un bimbo al nido. Si possono fare i capricci, non certo indire assemblee. È possibile pensare alla fisionomia di un universo letteralmente capovolto. All’operaio infantile si contrappone l’infanzia all’opera. La capacità organizzativa dell’adulto si coniuga con la dimensione infantile di un conflitto che fa corpo unico con l’immaginazione. Si mette alla prova quel che è intorno come un parlante alle prime armi che tende a cambiare non la singola parola ma porzioni di lingua, sistemi di usanze, intere immagini del mondo. Non si tratta di riscoprire, per carità, il «bambino che è in noi». La retorica del fanciullino è più vicina all’esaltazione del lavoro minorile che alla sottolineatura della minorità etico-politica del lavoro salariato. L’infanzia all’opera riscatta il carattere cronico dell’infanzia umana dal sequestro che ne ha compiuto l’attuale sistema economico. Pone al centro della scena potenzialità linguistico-cognitive, sospensioni d’uso, possibilità d’apprendimento non asservite ai miti della società dello spettacolo.

NOTE

1. ↩ Noam Chomsky (2012), The Science of Language. Interviews with James McGilvray trad. it. di A. Rizza,La scienza del linguaggio. Interviste con James McGilvray, il Saggiatore, Milano 2015, p. 127.
2. ↩ Ibid.
3. ↩ Ivi, p. 150.
4. ↩ Ivi, p. 59.
5. ↩ P. Virno, L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita, Quodlibet, Macerata 2015, p. 162.
6. ↩ J. Von Uexküll (1934), Streizüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen. Ein Bilderbuch unsichtbarer Welten, trad. it. di M. Mazzeo, Ambienti animali e ambienti umani, Quodlibet, Macerata 2010, p. 145.
7. ↩ Ivi, pp. 145-146.
8. ↩ M. Mazzeo, Il bambino e il migrante: ontogenesi umana, trapianto simbolico, «Etica e politica», 17 (3), pp. 174-194 [on-line].
9. ↩ N. Chomsky, La scienza del linguaggio, cit, p. 68.
10. ↩ Ibid.
11. ↩ G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 33.
12. ↩ J. V. Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, cit., p. 116.
13. ↩ Ibid.
14. ↩ G. Winnicott (1971), Play and Reality, Tavistock, London, trad. it. di G. Adamo e R. Gaddini, Gioco e realtà, Armando, Roma 1974, p. 164.
15. ↩ G. Winnicott (1968), The Family and the Individual Development, trad. it. di C. Mazzantini, La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, Armando, Roma 2005, p. 162.
16. ↩ M. Tronti, Noi operaisti, in G. Trotta, F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «Classe operaia», DeriveApprodi, Roma 2008, pp. 37-44.
17. ↩ E. Jünger (1932), Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, trad. it. di Q. Principe, L’operaio. Dominio e forma, Guanda, Parma 1991, p. 40.

Fonte: operaviva.info

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