La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 22 ottobre 2016

Un No per salvare il Noi

di Michele Sorice
Sono molte le ragioni del NO al referendum che si terrà il prossimo 4 dicembre. Alcune riguardano la sostanza strutturale delle proposte di riforma: 
a) la strana forma “dopolavoristica” che assumerà il Senato -tuttavia chiamato a intervenire su questioni rilevanti;
b) la sostanziale insignificanza dei risparmi sui “costi della politica”;
c) la perdita di potere delle cittadine e dei cittadini nel combinato disposto riforma + nuova legge elettorale (l’Italicum).
Altre entrano nel merito dei diversi articoli, come il quasi incomprensibile nuovo articolo 70. Altre ancora, infine, mettono in risalto la tendenza verso una nuova centralizzazione dei poteri: la riforma, infatti, rovescia la tendenza disegnata dalla riforma del 2001 del Titolo V reintroducendo una clausola di supremazia statale. Al di là di questi argomenti – importantissimi e ampiamente discussi da autorevoli costituzionalisti – ci sono però anche ragioni che riguardano le procedure democratiche e che quindi rappresentano un altro aspetto della “sostanza” del processo di riforma. Faccio riferimento al meccanismo poco partecipato, e nei fatti divisivo, che ha accompagnato l’iter della riforma costituzionale.
E pensare che esempi virtuosi di riscrittura “partecipata” delle carte costituzionali ci sono. Il caso islandese è un esempio noto. A seguito della crisi economica del 2008 e del suo conseguente default economico, l’Islanda sviluppa l’esigenza di riscrivere la vecchia e ormai inadeguata Costituzione del 1944, in realtà copia di quella danese del 1874. Nel 2010 viene formata – attraverso sorteggio, temperato dal rispetto del principio di equa rappresentanza di gender, classe anagrafica e provenienza territoriale – un’Assemblea Nazionale composta da 950 cittadine e cittadini. L’Assemblea produce le linee guida della nuova Costituzione, su cui vengono chiamati a lavorare sette “saggi” nominati dal Parlamento. La commissione dei saggi produce un ampio documento sui temi considerati di rilevanza pubblica. A questo punto viene eletto, da una rosa di 522 candidati che non avevano mai prima rivestito cariche pubbliche, un Consiglio Costituente di venticinque membri. Il Consiglio lavora per quattro mesi, pubblicando sul suo sito Internet le proposte e i temi in discussione: il processo deliberativo, in questo modo, diventa pubblico e accoglie le idee, le proposte e le critiche di cittadine e cittadini islandesi che partecipano attraverso il sito (una vera piattaforma partecipativa), l’account Facebook del Consiglio e persino Twitter.
Il risultato finale è il frutto di un processo di partecipazione ampia, capace di usare persino il crowdsourcing. Il referendum consultivo, previsto dall’iter per la nuova costituzione, registra una bassa affluenza ma decreta l’approvazione della nuova Costituzione. Le elezioni politiche dell’aprile 2013, però, portano al successo il centro-destra che non mette in agenda la votazione sulla nuova Costituzione e così vanifica il grande lavoro collaborativo svolto dalle e dagli islandesi, dal momento che le leggi del Paese richiedono l’approvazione parlamentare della nuova Costituzione. Un insuccesso dal punto di vista formale ma uno straordinario esercizio di democrazia dal punto di vista politico.
Anche il Cile sta cercando – proprio in questi mesi – di svolgere un processo partecipativo per la riscrittura di una Costituzione troppo autoritaria e figlia dell’epoca Pinochet. Sono previsti tempi mediamente lunghi, inevitabili se si vogliono coinvolgere le persone nel processo decisionale e far maturare un consenso razionale e ampiamente maggioritario.
L’Italia ha invece scelto la logica delle scorciatoie. La retorica dell’efficienza, solitamente misurata sul tempo intercorrente fra proposta e decisione, è infatti più facilmente, e populisticamente, mediatizzabile. Connessa a tale retorica, non a caso, si sviluppa spesso il processo di commercializzazione della cittadinanza, che produce un sostanziale deficit democratico, spostando la bilancia sul piatto di una governance verticale, che è cosa molto diversa dalla governance collaborativa auspicata nelle tendenze più avanzate della cosiddetta innovazione democratica.
E pensare che nel 1947, la nostra Costituzione fu approvata con 458 voti favorevoli, e solo 62 contrari, da un’Assemblea Costituente scelta e legittimata dai cittadini. La riforma “Boschi-Renzi”, invece, è stata approvata da un Parlamento politicamente delegittimato dalla sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale che, a causa del “Porcellum” e del suo enorme premio di maggioranza, aveva considerato il Parlamento di fatto non rappresentativo della volontà popolare.
Non c’è quindi solo la questione del bicameralismo paritario, il cui superamento sarebbe stato peraltro facilmente realizzabile cambiando le funzioni del Senato, e non c’è solo il tema dei costi della politica (ridurre il numero dei deputati sarebbe stato molto più efficace che non trasformare il Senato in un organo che sfugge di fatto al controllo diretto dei cittadini e rischia di rendere ancora più confuso il processo di scrittura e approvazione delle leggi). Si affaccia prepotentemente la questione della partecipazione del popolo italiano al processo di “scrittura” del proprio “patto fondativo”. Defraudare il popolo del diritto a partecipare significa privarlo di quel “noi” che è alla base delle ragioni che ci tengono insieme.
Ha ragione don Luigi Ciotti quando scrive che «chi ha scritto la Costituzione e si è sacrificato per farla nascere, ci ha insegnato cosa vuol dire essere cittadini: assumersi la responsabilità del bene comune, rifiutare le scorciatoie e i compromessi, amare, più della verità, la ricerca della verità».
L’impegno di chi dice “no” alla logica delle scorciatoie è quindi, principalmente, quello di trasformare quel “no” in un “noi”, capace di costruire un futuro di speranza.

Articolo pubblicato su orticalab.it
Fonte: Libertà e Giustizia 

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