di Alberto Benvenuti
È tristemente ironico pensare che in queste settimane in cui si moltiplicano i video di violenze e esecuzioni sommarie di giovani afro-americani per mano di agenti male addestrati, si celebrino negli Stati uniti anche i cinquant’anni della nascita delle Pantere nere, fondate da Huey Newton e Bobby Seale nel 1966 per evitare che gli agenti perpetrassero violenze sugli afro-americani di Oakland, una città della Bay Area della California. Quando Newton e Seale, due ex studenti del Merritt College che si erano conosciuti a una manifestazione pro-Cuba durante la crisi dei missili, decisero di organizzare un gruppo armato, lo fecero infatti per difendere i diritti costituzionali dei neri della loro comunità, armati di un fucile e di un libretto di diritto.
Pattugliavano la Bay Area, soprattutto di notte, e quando vedevano un nero fermato dalle forze di polizia, si tenevano a distanza di sicurezza e controllavano che la situazione non degenerasse. «Ci facevano una paura fottuta», racconteranno più tardi gli agenti.
Pattugliavano la Bay Area, soprattutto di notte, e quando vedevano un nero fermato dalle forze di polizia, si tenevano a distanza di sicurezza e controllavano che la situazione non degenerasse. «Ci facevano una paura fottuta», racconteranno più tardi gli agenti.
Erano, quelli, anni tumultuosi nei ghetti neri delle grandi aree metropolitane statunitensi. Per molti afro-americani il movimento nonviolento guidato da Martin Luther King aveva fallito, le loro vite non erano cambiate, il degrado economico e la segregazione de facto persistevano. L’obiettivo per molti giovani divenne la rivoluzione, il black power e il controllo delle loro comunità, la linea da seguire quella delle guerre di liberazione del Terzo mondo, i maestri Che Guevara, Mao, Nkrumah, Lumumba, Castro e Malcolm X. Con i paesi del Terzo mondo sentivano di condividere la condizione di oppressione coloniale, di essere cioè loro stessi parte di una colonia interna alla superpotenza che esportava libertà: le Pantere nere offrirono a questi giovani una risposta che coniugasse il romanticismo rivoluzionario alla necessità pragmatica di uscire da una condizione di oppressione.
Dei due fondatori, Huey Newton era il visionario, rappresentava l’eroe bello e intelligente sul quale deporre le speranze rivoluzionarie; Bobby Seale era invece più pragmatico e controbilanciava il temperamento imprevedibile del compagno. Prepararono insieme un programma in dieci punti di ispirazione socialista e terzomondista e radunarono attorno a loro un piccolo gruppo di giovani neri con storie difficili, spesso legate alla criminalità, che trovarono nell’appartenenza alle Pantere una causa alla quale dedicarsi. Il Black panther party cominciò così a crescere, alle ronde si accompagnarono iniziative sociali e aumentò anche il sostegno tra gli afro-americani della Bay Area. Gli agenti erano pigs, maiali, nel linguaggio comune del ghetto, i nemici che rappresentavano un governo dal quale ci si doveva proteggere, anche con le armi.
In risposta al fenomeno delle ronde armate, nel maggio del 1967, l’allora governatore della California Ronald Reagan firmò una legge, il Mulford Act, che limitava il porto d’armi in pubblico di privati cittadini. Quella legge rappresentò l’occasione che molti attivisti aspettavano per il lancio dell’organizzazione a livello nazionale: ripresi da telecamere e fotografi, una ventina di Pantere entrarono, armi in pugno, nell’assemblea legislativa di Sacramento, capitale dello stato, per protestare contro la decisione del governo. Il successo mediatico fu immediato: tutti i giornali del paese iniziarono a parlare di questo gruppo di afro-americani della California che si vestiva di nero, si professava marxista leninista, parlava di rivoluzione e si ispirava a Malcolm X.
Poco dopo, nel settembre del 1967, Newton venne arrestato con l’accusa di aver ucciso un poliziotto. L’arresto della mente delle Pantere, che avrebbe potuto compromettere la vita stessa del gruppo, ebbe invece l’effetto di creare un movimento interrazziale per la sua liberazione (al quale parteciparono numerosi intellettuali e attori, tra cui Marlon Brando) che amplificò ancora di più il messaggio del Black panther party. Molte sedi nacquero in tutti i ghetti delle grandi città e a ronde e manifestazioni andarono sempre di più affiancandosi programmi di assistenza sociale – dalla distribuzione di pasti caldi ai bambini, all’assistenza sanitaria gratuita – che furono il vero canale di dialogo con le comunità nere. Programmi, tra l’altro, gestiti quasi interamente da donne. Sebbene infatti la storia del Black panther party sia spesso associata all’immagine dell’afro-americano rivoluzionario con il berretto, il giubbotto di pelle nera e il fucile in mano, le pantere non erano affatto solo uomini; anzi le attiviste risposero con coraggio al machismo dilagante dei primi anni, aumentarono esponenzialmente la loro partecipazione e divennero, alla fine degli anni Sessanta, numericamente più rilevanti degli uomini.
Le pantere nere erano l’organizzazione più rappresentativa e influente di quel movimento di rivendicazione politica, culturale e economica che fu il black power, e i suoi membri aumentarono fino a 5mila unità – numeri che comunque non rendono giustizia alla portata e all’influenza che ebbero in quegli anni. Anche per questo J. Edgar Hoover, il famigerato direttore a capo dell’Fbi da quasi mezzo secolo, che aveva un potere sostanzialmente illimitato ed era in grado di influenzare Congresso e presidenti, lo considerava il «più grosso pericolo per la sicurezza interna del paese». A partire dal 1968 Hoover autorizzò centinaia di operazioni clandestine del programma di controspionaggio Cointelpro, che con l’utilizzo di infiltrati, depistaggi, arresti sommari e omicidi, destabilizzarono enormemente il gruppo. Il caso più eclatante fu quello di Fred Hampton, giovane e carismatico leader della sezione di Chicago, assassinato dall’Fbi durante un’irruzione notturna in un appartamento dove viveva con alcuni compagni. Hampton fu la vittima di una delle più ricorrenti paranoie di Hoover, quella dell’avvento di un nuovo messia nero in grado di mobilitare le masse.
L’Fbi continuò a infiltrarsi in tutte le sezioni del Black panther party del paese a un livello tale che «nel 1970 le pantere erano controllate per metà da Huey e Seale e per metà dall’Fbi», come avrebbe ricordato più tardi un agente sotto copertura. L’impatto delle attività del Cointelpro fu devastante e fu, direttamente o indirettamente, il motivo principale del declino dell’organizzazione già dai primissimi anni Settanta. Quando Newton uscì di carcere nel 1970, infatti, non fu capace di tenere unito il Black Panther Party, sia per le faide interne (che portarono anche alla rottura con Seale), sia per la sua incapacità di imprimere all’organizzazione una linea politica chiara. Andò a Cuba nel 1974 per sfuggire a una nuova accusa di omicidio e lasciò la guida del partito a Elaine Brown, una sua fedelissima. Ma era ormai tardi, le Pantere nere non sopravvissero alla nuova serie di arresti, espulsioni, omicidi e abbandoni degli anni Settanta e alla fine del decennio rimasero operative solo poche sezioni.
Il Black panther party non aveva sovvertito il sistema, non aveva ribaltato il capitalismo e neppure aveva sconfitto la white supremacy, ma fu capace di infondere in una generazione di giovani neri un senso di orgoglio razziale come poche organizzazioni erano riuscite a fare prima e a contribuire a una stagione di impegno politico militante afro-americano che avrebbe caratterizzato i decenni successivi.
Fonte: il manifesto
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