di Anna Lombroso
E dunque il Si sarebbe condizione necessaria per il contrasto al terrorismo, per riparare le falle del bilancio statale, grazie a formidabili risparmi di spesa, per assicurare la governabilità, sostituendo ad un organismo di eletti, una selezione di nominati scelti tra i più zelanti, per semplificare il processo decisionale – poco ci vuole con un uomo solo al comando – in modo da rastrellare e comporre i bisogni con mance, elargizioni, concessioni, simboliche visto che sempre di annunci si tratta, perché non ci sono le risorse per finanziarle e perché devono restare inevase, virtualmente negoziabili, segni occasionali e arbitrari di una generica volontà di fare.
Casa Italia per la prevenzione anti-sismica, Ponte sullo Stretto per l’occupazione, Alta velocità per stare al passo e essere competitivi, e poi elemosine discrezionali, 500 € per i giovani maggiorenni nel 2016 (ma sono ancora nella mente di Giove bugiardo), 40 € ai pensionati al minimo, sconti per l’anticipo pensionistico ai disoccupati, scouting per 500 “talenti” nei licei, che tanto se il Fare non si farà sarà colpa dell’ostinata pervicacia per l’austerità, di quella carogna della Merkel, del pareggio di bilancio “subito” e colpa evidente da attribuire a quelli prima di loro.
Casa Italia per la prevenzione anti-sismica, Ponte sullo Stretto per l’occupazione, Alta velocità per stare al passo e essere competitivi, e poi elemosine discrezionali, 500 € per i giovani maggiorenni nel 2016 (ma sono ancora nella mente di Giove bugiardo), 40 € ai pensionati al minimo, sconti per l’anticipo pensionistico ai disoccupati, scouting per 500 “talenti” nei licei, che tanto se il Fare non si farà sarà colpa dell’ostinata pervicacia per l’austerità, di quella carogna della Merkel, del pareggio di bilancio “subito” e colpa evidente da attribuire a quelli prima di loro.
Non so se mi sia sfuggito l’accreditamento del Si come soluzione demiurgica nella lotta alla povertà. Ma è probabile invece che sia sfuggita al fronte “riformatore” l’opportunità di valersi di quell’arma di propaganda, a conferma di quanto poco successo incontri, di critica e di pubblico, il tema, delegato ormai interamente alla Chiesa, come d’altro canto quello dell’immigrazione, in considerazione della desiderabile eclissi perfino del termine “solidarietà”, oscurato dalle parole del capitalismo compassionevole, prima, impegnato in pensose fondazioni, argomentanti think tank, ora definitivamente cancellato in favore della cristiano pietas. O meglio ancora Caritas, se guardiamo alla copertura mediatica data al rapporto 2016 sulla povertà e sull’esclusione sociale, diffuso in occasione della quasi clandestina giornata mondiale, come molte altre giornate, diventata una mesta e nostalgica liturgia alla memoria della buona volontà, della generosità, dell’ancora più obsoleta responsabilità, che la condivisione è confinata inesorabilmente su Facebook.
Così incalzando i dati dell’Istat, che pure aveva denunciato come nel nostro Paese il numero degli indigenti continui a crescere e non sia mai stato così alto dal 2005 a oggi, è stata la Caritas a farci sapere come le persone in povertà assoluta, senza cioè le risorse economiche necessarie per conseguire uno standard di vita ‘minimamente accettabile’ siano prmai 4,6 milioni, il 7,6% dell’intera popolazione. Come in questi anni di crisi la povertà assoluta non solo si sia ulteriormente radicata laddove in passato era già più presente – il Sud, gli anziani, le famiglie con almeno tre figli e i disoccupati – ma abbia allargato la propria forbice, arrivando a colpire anche i segmenti un tempo ritenuti meno vulnerabili. Come non ci siano più categorie o luoghi più svantaggiati di altri, poiché i confini dell’indigenza si sono allargati trasversalmente a tutte le aree geografiche, a tutte le tipologie familiari, a tutte le nazionalità, e anche agli occupati, a tutte le generazioni, colpendo in particolare giovani e minori.
Occasione persa dunque per i molto osannati comunicatori del governo per fare un po’ di lobby in favore di quella convinzione emblematicamente espressa dal titolo di una bibbietta: Più ai figli, meno ai padri, di Nicola Rossi, che accredita la tesi del conflitto generazionale per legittimare e quindi autorizzare l’inevitabile «riforma» del sistema pensionistico, in modo da ridurre le prestazioni previdenziali pubbliche (a parità di contributi versati), giustificandola con l’ormai molesto allungamento dell’età media, con l’esuberanza di «pensionati-baby», con la pretesa «insostenibilità» delle pensioni pubbliche, ma anche l’obbligo di riavviare la crescita, contribuendo utilmente con i fondi pensione privati, da investire poi in aziende italiane quotate in borsa. In modo da avvalorare la tesi che l’«eccesso» di garanzie di cui godono le persone di una certa età rappresenti la causa delle insufficienti protezioni sociali dei giovani, dispiegando quell’istinto padronale belluino di nutrire risentimento, inimicizia, ostilità. Quando il conflitto c’è ma altro non è che il solito ancora più potente conflitto di classe alimentato da un lato, da un carico fiscale iniquo nei confronti dei lavoratori dipendenti, tale per cui i loro contributi previdenziali servono a pagare non soltanto le pensioni, ma anche l’assistenza fornita dallo Stato a chi non ha mai versato, dall’altro, dalla mostruosa evasione previdenziale da parte dei datori di lavoro che assumono lavoratori «in nero», ora particolarmente favoriti dalle “riforme” del governo. Occasione persa dunque per dar la colpa ai vecchi, risoluti sia pure tra molte difficoltà a non togliersi di torno, se nel mondo 500 milioni di ragazzi e giovani vivono, si fa per dire, con meno di 2 dollari al giorno.
Solo a esperti previsionali del livello del Mago Otelma, a economisti del valore dei santoni esoterici che danno i numeri del lotto in tv poteva sfuggire che la forma aberrante assunta dal capitalismo avrebbe reso futili produzioni e lavoro, che valanghe di denaro pubblico vengono sottratti alla società per destinarli a imprese che producono quantità crescenti di beni per i quali la domanda è calante, che una quota sempre più ampia del reddito mondiale finisce così al di fuori dell’economia reale, facendo irruzione nel teatro della speculazione finanziaria o della tesaurizzazione e che quella che stiamo vivendo non è una vera crisi, ma la strategia di permanenza in vita delle élite economiche mondiali. E che questa fase ha prodotto una forte polarizzazione delle due estremità dello spettro sociale in modo che i ricchi siano sempre meno e sempre più ricchi e i poveri sempre di più e sempre più poveri.
Ma non sono solo le regole del gioco capitalistico, non è solo l’istinto di sopravvivenza a ispirare le azioni dei ceti predatori che governano il mondo. C’è anche l’odio di classe verso i poveri, che appaga l’aspirazione ad essere superiori rispetto a chi sta sotto, che asseconda un’indole punitiva che attribuisce merito a chi assoggetta, sfrutta, opprime chi è destinato a subire, per via di carenze intellettuali, indolenza, pochezza, secondo una pratica che si replica a tutte le latitudini e in tutti i contesti, se quello che è stato definito il capitalismo estrattivo ha indotto l’espulsione delle persone dai luoghi dove sono nati allo scopo di soddisfare l’accesso delle multinazionali alle risorse naturali e se in una paese considerato feudo, dominato e colonizzato per via della sua subalternità economica e politica, si perpetua la condanna del suo Sud a terzo mondo interno, come pena giustamente comminata per via di vizi antropologici inguaribili.
Però dovrebbero stare attenti, il rancore proprietario prima o poi si rivolgerà contro di loro, la povertà è un rischio certo per chi ne è affetto. Ma lo può diventare anche per chi se ne giova.
Fonte: Il Simplicissimus
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