di Michele Nani
Pierre Bourdieu è uno dei sociologi francesi più letti e citati nel mondo: tuttavia il suo ruolo è stato e resta marginale in uno dei settori più importanti della sociologia francese, la sociologia del lavoro. Parte da questo paradosso la ponderosa raccolta di studi Bourdieu et le travail (Presses universitaires de Rennes, pp. 400), promossa e curata da Maxime Quijoux. Noto ai più per le sue ricerche sulla cultura, sulle istituzioni formative e sugli intellettuali, oppure per il suo impegno pubblico a fianco dei movimenti sociali nel corso degli anni Novanta, Bourdieu si è forse disinteressato del lavoro come oggetto di studio? Quijoux e compagni lo negano recisamente, a partire dall’esperienza algerina del sociologo.
Il primo libro di ricerca di Bourdieu, in collaborazione con altri studiosi, fu dedicato nel 1963 a Lavoro e lavoratori in Algeria. Prendendo congedo dalla sua formazione filosofica, il giovane ricercatore aveva operato una svolta verso le scienze sociali parallelamente al suo trasferimento all’Università di Algeri durante la guerra di indipendenza (su quel momento fondativo si veda InAlgeria. Immagini dello sradicamento, Carocci, volume impreziosito dalle foto scattate dallo stesso sociologo, la cui edizione italiana dobbiamo ad Andrea Rapini).
L’INTRECCIO fra violenza coloniale e trasformazione capitalistica facevano dell’Algeria un laboratorio politico e sociale: il giovane studioso leggeva i conflitti in corso attraverso le trasformazioni del lavoro, contadino e urbano. Il mercato del lavoro algerino era caratterizzato dalla polarizzazione fra una massa di sottoproletari espulsi dalle campagne (anche ad opera dell’esercito coloniale) e la minoranza salariata urbana: mentre i primi vivevano lacerati fra i valori dell’universo contadino di partenza ormai dissolto e la precarietà della vita nei «campi di raggruppamento» e nelle bidonvilles urbane, cercando o inventandosi occupazioni giorno per giorno, i secondi grazie alla relativa sicurezza dell’impiego potevano accedere a una vera trasformazione antropologica, al riconoscimento di interessi collettivi, al conflitto, alla politica. I limiti di una lettura delle comunità rurali «tradizionali» legata agli studi coloniali precedenti e di uno schiacciamento sul presente di capitalismo e salarizzazione, ben evidenziati dai bei saggi di Fabien Sacriste e di Claude Didry, nulla tolgono all’antropologia della precarietà e del salariato delineate da Bourdieu nel quadro di una storicizzazione del capitalismo e dell’agire economico.
Al ritorno in patria il sociologo si sarebbe convertito ad altri oggetti e avrebbe così dimenticato i lavoratori? Se lo spostamento degli interessi di ricerca è innegabile, Quijoux sostiene, con buone ragioni, che l’esperienza algerina e dunque la focalizzazione sul lavoro, abbia forgiato l’arsenale concettuale e teorico delle indagini a venire. Bourdieu non avrebbe mai rinunciato all’idea che il lavoro salariato, veicolo di dominazione sociale, è anche condizione del suo superamento e dunque dell’emancipazione dei subalterni.
IL LAVORO è inoltre essenziale nella definizione della teoria bourdieusiana delle classi e del loro conflitto, che nel volume è meno presente di quel che forse avrebbe meritato, così come non vi figurano le considerazioni sul movimento operaio, che hanno anche rappresentato il punto di partenza per la riflessione di Bourdieu sul «campo politico». La più sintetica introduzione in merito è forse in un saggio del 1978 (Capitale simbolico e classi sociali) ora disponibile in italiano grazie a Marco Santoro, che lo ha fatto tradurre sulla rivista «Polis» (n. 3), assieme a un utilissimo contributo di Loïc Wacquant su «come Bourdieu ha riformulato la questione delle classi».
L’approccio del sociologo francese alle classi rappresenta un’integrazione critica e non un rifiuto di quello marxista (si veda la recensione, uscita su queste pagine il 7 febbraio scorso, di Andrea Girometti alla recente traduzione del saggio bourdieusiano Forme di capitale). Anche per questo nel volume compaiono un interessante contributo di Sophie Béroud sulla fertilità del concetto di «campo» per indagare il mondo sindacale e un ricco studio in cui Michael Burawoy, uno dei più importanti sociologi (neo)marxisti del lavoro, mette a confronto il proprio approccio e quelli di Gramsci e Bourdieu.
Bourdieu et le travail non è solo un’opera filologica e teorica di ricostruzione degli approcci del sociologo al lavoro, ma presenta molte ricerche che si servono dei suoi strumenti per leggere le trasformazioni del presente, analizzando un ampio ventaglio di figure lavorative, ad esempio, fra gli altri, gli insegnanti, le professioni artistiche, le bibliotecarie, i poliziotti e i concierges degli alberghi di lusso.
NON È UN CASO che l’arsenale teorico di Bourdieu sia ancora produttivo: è stato modellato con l’attenzione costante a uomini e donne concreti, alle loro «pratiche» reali, lavoro incluso, da uno studioso che non ha mai dimenticato che «i movimenti per l’emancipazione sono lì per provare che una certa dose di utopismo» – traduco liberamente dalla splendida Lezione sulla lezione con la quale Bourdieu ha inaugurato nel 1982 la sua presenza in uno dei templi della cultura francese, il Collège de France – «può anche contribuire a creare le condizioni politiche di una negazione pratica della mera constatazione realistica».
Fonte: Il manifesto
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